Enzo Mazzi

Una delle fioriture primaverili negli anni ‘70: le comunità di base

Liberazione 8 marzo 2007(*)

 

13 maggio 1974: una data che segna uno spartiacque. L’Italia prende consapevolezza della propria laicità di massa respingendo il tentativo referendario di abrogare la legge sul divorzio. La gerarchia ecclesiastica è costretta a prendere atto di trovarsi in minoranza nella società e nella stessa Chiesa. Al contempo la sinistra, dimentica della lezione gramsciana, si trova ancora una volta spiazzata di fronte a un grande movimento di trasformazione culturale, politica ecclesiale che sopravanza e in qualche modo sconfessa la sua politica tutta orientata ai patteggiamenti e ai compromessi di vertice. E’ in qualche modo emblematico il curioso aneddoto secondo cui Enrico Berlinguer la sera del 13 maggio dovette pagare una cena a Tonino Tatò e a Giglia Tedesco contro i quali egli aveva scommesso che avrebbe vinto il SI. Il mitico segretario sappiamo come si riscatterà quando ad esempio il 26 settembre 1980, dopo che la Flm aveva bloccato la Fiat in un clima di grande scontro, scommetterà finalmente sui movimenti dal basso portando la sua solidarietà ai lavoratori ai vari cancelli della fabbrica torinese, Mirafiori, Rivalta, Lancia di Chivasso, parlando su un palco improvvisato e senza microfono, fra lavoratori, donne e uomini, che piangevano senza ritegno per la commozione.

Nel 1974 la scommessa politica era invece ancora tutta egemonizzata dal “compromesso storico”. Tanto che nella campagna per il SI al referendum sentimmo un certo isolamento da parte della grande politica. Insieme alla Comunità dell’Isolotto partecipai alla campagna per il No trovando ovunque nella gente, specialmente nel mondo femminile, entusiasmo, determinazione, senso di liberazione, partecipazione. Nel Meridione d’Italia dove fui invitato da comunità e gruppi di base restai impressionato dal fatto che gli incontri erano sempre affollati da una quantità e qualità incredibile di donne del popolo.

Avrei da raccontare tanti aneddoti curiosi. Ne scelgo due. In un paese del Belice, un parroco fece una processione per le strade a mo’ di esorcismo tuonando contro il “falso prete”, senza però riuscire a distogliere dalla partecipazione centinaia di donne. A Brindisi fu lo stesso arcivescovo che fece un comunicato minaccioso, pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 30 aprile, con false notizie sulla mia posizione ecclesiale, smentite dall’intervento di alcuni preti fiorentini sulla Nazione del 4 aprile. Ottenne l’effetto opposto: gl’incontri nel brindisino ebbero una partecipazione insperata.

Le comunità cristiane di base svolsero ovunque un ruolo di punta nel nutrito cartello di cattolici per il NO, teologi, preti, religiosi, rappresentanti dell’associazionismo cattolico, intere comunità parrocchiali: basta pensare al contributo, pagato caro, dell’abate della Basilica romana di San Paolo fuori le mura, dom Giovanni Franzoni, e della comunità che a lui faceva riferimento.

Fu come la esplosione primaverile di una lunga gestazione. Ha ragione Fausto Bertinotti nel denunciare la falsità storica, “la grande bugia”, di una descrizione sostanzialmente in negativo degli anni ’70 (Editoriale del n° 2 del supplemento). Non si possono descrivere compiutamente gli anni ’70 del Novecento senza far riferimento anche a questa fioritura di comunità in ogni angolo della nostra Italia e di molti altri paesi del mondo.

Le comunità di base erano nate nel fatidico ’68 ma il loro concepimento era avvenuto fin dagli anni ’50 come frutto prezioso del fecondo incontro e poi intreccio fra la cultura del territorio e la cultura operaia nel clima del grande processo di trasformazione globale del dopoguerra. Il carattere inedito di queste formazioni sociali e ecclesiali di base, il loro essere realtà di transizione che cercano il nuovo senza perdere una sola goccia del positivo espresso dal vecchio, la loro precarietà e provvisorietà che rifiuta imbalsamazioni istituzionali, il loro vivere costantemente fra “essere e non essere”, sempre in bilico fra il dentro e il fuori in posizioni di frontiera, tutto questo le rende un po’ come un campione reale della grande trasmigrazione sociale, materiale, psicologica e culturale, che in pochi anni cambierà volto alla penisola.

Masse di pendolari provenienti dalle campagne, di sfrattati dai vecchi quartieri storici, di profughi di guerra, di immigrati meridionali, si riversarono, negli anni '50-60, ad affollare le nuove periferie delle città. Si lasciavano alle spalle dure esperienze di sofferenze, privazioni, emarginazioni. Ne trovavano altrettante nei turni massacranti delle fabbriche, negli insediamenti di fortuna, nelle brande a ore, nelle baraccopoli. A un certo punto i nuovi insediamenti popolari del "piano Fanfani" aprirono orizzonti dai colori dell'alba. Un miraggio veniva posto loro davanti: l'individualismo piccolo-borghese. Si trattava in realtà di quartieri-dormitorio. Lì si doveva consumare un totale sradicamento dalle culture di origine e un inserimento nel vuoto più completo di strumenti di identificazione.

I quartieri-dormitorio erano tali perché obbedivano a una legge inesorabile della società industriale: il luogo della produzione deve essere separato dal luogo della riproduzione. La fabbrica è il luogo dove si produce la ricchezza. Lì si concentrano gli strumenti della tecnologia produttiva, compreso lo strumento-uomo. Lì si combatte la guerra concorrenziale contro il mondo intero. Lì si sviluppa la dialettica di classe in un duro confronto che lascia poco spazio ai sentimenti e ai bisogni.

Il territorio, a sua volta, è il luogo dove si soddisfano i bisogni personali, lontano dai conflitti sociali, sotto la protezione materna dello stato assistenziale e sui binari tracciati dai media. Una tale schizofrenia, lasciata sviluppare in maniera caotica o governata con stupidità politica per ghettizzare la conflittualità nella fabbrica, ha dato luogo alla duplice mostruosa crescita delle grandi città: da un lato gli enormi complessi industriali, dall'altro gli immensi alveari abitativi. Due mondi opposti. Due culture inconciliabili.

La vita, però, ha risorse capaci di oltrepassare sempre gli orizzonti dati. Agli inizi degli anni sessanta avvenne una feconda congiunzione. La classe operaia fu costretta a uscire dalla fabbrica per cercare alleanze contro l'affacciarsi della crisi industriale che insidiava l'occupazione. I soggetti delle lotte per i servizi negli insediamenti abitativi avevano raggiunto, a loro volta, una maturità che li portava alle radici, alle cause profonde della invivibilità delle periferie abitative. Sentivano forte l'esigenza di superare la cultura della separatezza. Cercavano in una unità più grande e in un progetto complessivo, capace di coinvolgere dal basso tutta la società, lo sbocco del loro impegno di animazione e unificazione del territorio.

Si giunse così al processo di progressiva e feconda integrazione tra fabbrica e territorio, fra lotte sindacali e lotte per i servizi e le riforme, fra cultura operaia e cultura dei settori della società più legati al territorio come le donne, gli studenti, i cristiani che gravitavano intorno all'ambiente parrocchiale. E siamo alla stagione del '68-'69. Da quel processo di unificazione dal basso, nascono in tutta Italia, per non dire in Europa, centinaia di esperienze di comunità di base.

Esse tentarono di realizzare in pratica, pur con tante difficoltà e contraddizioni, la trasformazione fondamentale annunciata anche per merito loro dal Concilio. Nei documenti conciliari, il Popolo di Dio è stato posto al Centro della Chiesa ed è stata tolta la centralità delle gerarchia, dei ruoli, dei ministeri. Qualcuno l’ha chiamata giustamente rivoluzione copernicana. Ma tale rivoluzione conciliare non è stata e non è un fatto tutto interno alla chiesa, non è una sciaguattata nell’acquasantiera. Perché si inserisce in un processo storico e culturale rivoluzionario di lunga lena e si lega a un bisogno sentito a livello generale della società mondiale: recuperare la modernità alla centralità delle relazioni. Se c’è una radice profonda del liberismo da sradicare è l’individualismo competitivo. E non si sradica a parole. Un mondo nuovo non ce lo regala la lotta di tutti contro tutti che è alla base della moderna società mercantile liberista.

E ora, che ne è di quella straordinaria fioritura degli anni ‘70? Poche comunità restano vive. Che qualche realtà resista però è già un risultato dopo la desertificazione di tutto ciò che era nato degli anni ’70, operata dal rimbecillimento del decennio successivo, gli anni ’80. Ma è sostanzialmente vero che il termine comunità è ormai inflazionato. Tanto che si fa molta fatica a parlarne. E soprattutto si rischia di esser fraintesi al solo pronunziare la parola. Si va dalla comunità europea alle comunità di accoglienza, dalle comunità scientifiche alle comunità religiose, comunità internazionali, comunità delle varie etnie. Perfino l’alleanza di stati in nome della guerra cosiddetta umanitaria si è spudoratamente chiamata comunità internazionale.

Tuttavia, questo proliferare strumentale di comunitarismi può avere anche un risvolto positivo: può significare che il termine comunità è dotato tutt’ora di una forza intima per cui conviene riappropriarcene tentando di dare alla stessa significati all’altezza delle sfide attuali.

E’ quello che tentano di fare da sempre le comunità cristiane di base. Una nuova società ha bisogno di una nuova centralità delle relazioni e quindi necessita di reti di esperienze comunitarie oltre ci confini. O meglio ha bisogno che uno spirito comunitario aperto informi tutte le formazioni e le strutture sociali. Altrimenti non si esce da questo dominio dell’individuo astratto. Il significato più pregnante della comunità consiste nel dare forza e continuità a qualcosa che ci precede tutti, e questo è il discorso degli ultimi, delle persone che non hanno comunità, del “figlio dell’uomo” più spoglio. Che è cosa molto diversa nella sostanza dalla carità, dall’assistenza, dal piegarsi sui diseredati e dalla stessa “scelta preferenziale” dei poveri. Roberto Esposito, studioso di storia delle dottrine politiche e filosofo, scrive in un saggio intitolato Communitas: l’origine e il destino della comunità: “Essa (la comunità) non è una proprietà, un pieno, un territorio da difendere e separare rispetto a coloro che non ne fanno parte, ma un vuoto, un debito, un dono nei confronti degli altri, che ci richiama nello stesso tempo alla nostra costitutiva alterità anche da noi stessi”.

Mi rendo conto che qui c’è il rischio di un grave fraintendimento. Quasi che la comunità fosse in opposizione alla individualità. Dalla cultura della soggettività individuale e dallo statuto dei diritti individuali non si può tornare indietro. Qualcuno, ad esempio il giurista Pietro Barcellona, ha coniato una espressione come titolo di un suo libro: L’individuo sociale. “La modernità – egli scrive – si è fondata su una pretesa autocostituzione dell’individuo come atomo senza legami sociali e sul controllo degli affetti da parte della ragione calcolante. Ma se fosse solo una fantasia di onnipotenza? C’è un legame che unisce l’ “io” al “noi”? Molte sono le domande che si affacciano alla nostra modernità … scoprendo la dimensione sociale dell’individualità (l’individuo sociale) finora negata e occultata dalla logica identitaria dell’universalismo astratto del mercato e del diritto formale”.

Rilevare questo bisogno di comunitarietà oltre i confini non significa affatto prospettare la stabilizzazione dell’esperienza storica delle comunità di base.

Il futuro delle comunità di base non è certo in un riprodursi della fioritura degli anni ’70. La storia non ha la circolarità delle stagioni. Potrebbero costituirsi in movimento stabilizzato, darsi una struttura capace di attrarre, di creare senso, di offrire segni di appartenenza, dotarsi di “nuovi ministeri ordinati e consacrati democraticamente”, istituire cioè una specie di democrazia sacrale per svilupparsi, riprodursi e durare. Alcuni possono anche essere attratti da una simile prospettiva. C’è un dibattito interno. Per molti però la stabilizzazione è un grosso rischio. Alla dimensione della stabilità preferiscono la dimensione del fermento che si nasconde e si mescola nella massa della farina e la fa lievitare tutta.

Questi ed altri intriganti interrogativi sono al centro del confronto fra una quantità esperienze di comunità di base. Ma non sono forse gli stessi interrogativi che riguardano l’insieme del movimento dei movimenti “per un nuovo mondo possibile?

 

                                                                       Enzo Mazzi

 

 

(*) settimanale sugli anni '70