Il dono della condivisione

Edmond Jabès, poeta e scrittore di famiglia ebrea espulso nel 1957 dall’Egitto, nel testo “Il libro della condivisione” scrive: “ Pensare la condivisione - diceva un saggio - è mettere in questione la morale e il diritto. E’ anche mettere in questione le cognizioni di felicità e di dolore. E, ancora, è fare il processo all’umanità, alla vita e alla morte”

“Tutto è da condividere e niente è condivisibile: il destino dell’uomo, come quello del mondo. Su questa intrinseca difficoltà si fonda persino la reciprocità del dono”

“Pertanto esistere è aprirsi progressivamente alla condivisione. E’ condividere la vita con la vita, la gioia con la gioia, il dolore col dolore, la morte con la morte. Insomma l’istante con l’istante”.

Non trovo migliori parole per esprimere la gratitudine a Enzo Mazzi che nel suo ultimo libro “Il cristianesimo ribelle” ha voluto condividere con i lettori ( ma penso innanzitutto con le persone che negli ultimi quaranta anni e più ha ritrovato per le strade del mondo ) l’aspro e infaticabile cammino suo e quello di una comunità di vita che ha puntato “pur con tutte le contraddizioni, alla liberazione dalle sicurezze, recinzioni, blindature, abbracci delle appartenenze più o meno potenti, dagli affidamenti ai miti d’immortalità e di eterne salvezze” (pag.117 ).

Giovane prete nell’aprile del ’69 ebbi l’audacia di recarmi con altri quattro preti della diocesi di Aversa alle baracche dell’Isolotto per conoscere da vicino la vita di una comunità di fede precaria ma liberadai condizionamenti, dai ricatti, quelli ai quali presto per diversi motivi soggiacquero i miei amici.

Più che gli scritti dei grandi teologi conciliari che pure mi erano familiari, fu l’esperienza della comunità dell’Isolotto, decisa a vivere il vangelo senza i privilegi del potere e il potere dei privilegi, a confermarmi nella scelta di un servizio in una parrocchia e in un quartiere del mio paese tale che mi comportò dopo tre anni l’allontanamento e la chiusura di qualsiasi spazio ecclesiale: e fu la “provvidenziale” condizione che mi portò nel 1972 alla scelta di immergermi nella comunità del Carmine di Conversano e da allora fare esperienza nel movimento delle cdb di un’esistenza cristiana essenziale, continuamente messa in gioco dall’intreccio conaltre esistenze, da una speranza condivisa di parole, di relazioni, di affetti, di emozioni, anche di conflitti riconosciuti e vissuti nella loro capacità di fecondare.

E nelle relazioni, soprattutto noi preti, abbiamo cominciato a spogliarci di quella educazione patriarcale e sacrale ricevuta che ci faceva ritenere essere il centro di tutto, depositari della verità; non possiamo non riconoscere all’altra metà del cielo, alle donne che hanno condiviso e condividono l’esperienza comunitaria il merito di averci indicato con le loro pratiche la possibilità di fare nostro o di recuperare il senso del limite, della finitezza, esse che davvero fanno esperienza nella loro carne del pieno-vuoto come struttura di un’esistenza aperta all’accadimento continuo della vita e della morte. Abbiamo visto giorni farsi notti ma anche notti aprirsi a nuove albe non facendoci dominare dal passato, non rinchiudendoci nel presente, imparando a coltivare sempre l’utopia di un altro mondo possibile.

Non domandarmi chi sono - diceva un saggio - La domanda mi è incomprensibile. Domandami piuttosto dove vado. Dedurrai, dal mio stupore, che non me ne sono mai preoccupato: è lo stupore ( da nietzschiano fanciullo che ride e danza ? ) che mi sembra cogliere nelle parole d iEnzo che affida ai lettori la narrazione del cammino suo e della comunità senza subire l’ angoscia proveniente dalla pretesa presuntuosa di eternità o di immortalità.

Mi piace chiudere questa breve riflessione ancora con Jabès quando scrive: “Vi sono libri che “fanno rumore”e altri che impongono il silenzio. I primi sono piccoli niente, imbevuti della loro sonorità; i secondi, piccoli niente irriducibili”.

Grazie Enzo, grazie compagne e compagni della comunità dell’Isolotto, per quello che fate ma soprattutto per quello che siete.

Peppino Coscione, comunità di Oregina

 

 

 

 

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