Elio Rindone

Libertà di coscienza e magistero ecclesiastico

Adista n. 36/2007

 

La preoccupazione per il possibile riconoscimento delle unioni di fatto è diventata per il Vaticano una vera ossessione. Una tale quantità di interventi volti ad ostacolare l'approvazione di una legge non si era mai vista: per la gerarchia cattolica l'Italia è evidentemente una trincea da difendere a tutti i costi!

L'argomento con cui si chiede, con toni sempre più impegnativi, di opporsi a una legge che riconosca i diritti dei conviventi è il seguente: al magistero ecclesiastico, custode della legge naturale, spetta il compito di illuminare la coscienza dei cattolici, affinché questi agiscano in coerenza con la propria fede.

Ora, che i credenti debbano operare in coerenza con la propria fede è un'ovvietà: i problemi nascono quando si passa ai casi concreti, come quello della legalizzazione delle unioni di fatto, non escluse quelle omosessuali. Infatti, in base all'Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis di Benedetto XVI, del febbraio 2007, "i politici e i legislatori cattolici […] devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana", tra i quali rientra "la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna"(n 83). Per la Nota del Consiglio Episcopale Permanente della C.E.I, del marzo 2007, "Sarebbe quindi incoerente quel cristiano che sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto", specialmente di quelle omosessuali.

Ma una domanda si impone con evidenza: e se il parlamentare cattolico non considera il voto favorevole alla legalizzazione in contrasto con la propria fede? Cosa deve fare, dopo avere valutato attentamente le indicazioni del magistero? Non ci sono vie di mezzo: il cattolico in questione si trova necessariamente ad agire in contrasto con l'indicazio-ne del magistero o con quella della propria coscienza. Deve essere coerente con le posizioni del primo o della seconda? In sostanza, il buon cattolico sarà quello che obbedisce al magistero o quello che obbedisce alla propria coscienza? Qual è il comportamento lodevole?

A prima vista, nessuno dei documenti citati dà una risposta inequivocabile a tali quesiti. Da una parte, infatti, il papa nella sua Esortazione afferma che "valori fondamentali, come il rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli […] non sono negoziabili" (n 83); così, i vescovi italiani ribadiscono che con la loro Nota indirizzano ai cattolici "una parola impegnativa".

Dall'altra, però, tali interventi magisteriali sono sempre rivolti alla coscienza. Il papa, infatti, dice che "i politici e i legislatori cattolici […] devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata"(n 83) e i vescovi, dopo aver ricordato che "il fedele cristiano è tenuto a formare la propria coscienza confrontandosi seriamente con l'insegnamento del Magistero", ripetono che vogliono affidare le loro riflessioni "alla coscienza di tutti". Sembra quindi – ma vedremo che non è così – che resti aperta la questione: nel campo delle scelte morali il primato spetta all'autorità esterna del magistero ecclesiastico o all'autorità interna della coscienza?

La tradizione cristiana non ha mai esitato ad attribuire il primato alla coscienza, nel caso in cui il credente si trovi di fronte a un ordine ingiusto. Al sommo sacerdote, che aveva proibito di insegnare nel nome di Gesù, Pietro rispose "insieme agli apostoli: Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini"(At 5, 29). E, nei confronti del potere politico, il Catechismo della Chiesa Cattolica, del 1992, afferma che "il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell'ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamenti del Vangelo"(n. 2242).

Ma se l'autorità esterna non è quella del sinedrio o del potere statale ma quella del magistero cattolico, il principio del primato della coscienza resta valido? Raramente, e non senza contraddizioni, in questo caso si trova nella tradizione cristiana la difesa di tale principio. Nel XIII secolo, per esempio, Tommaso d'Aquino ritiene che l'uomo debba sempre seguire la propria coscienza, anche se questa è in errore, al punto da affermare che il non credente peccherebbe se aderisse, contro le proprie convinzioni, alla fede proposta dalla Chiesa (cfr. Somma teologica I-II, 19, 5). E tuttavia lo stesso Tommaso sostiene poi, dimenticando i diritti della coscienza, che il credente che interpreta il messaggio di fede in maniera difforme dal magistero commette peccato di eresia, sicché gli eretici meritano "non solo di essere separati dalla Chiesa con la scomunica ma anche di essere tolti dal mondo con la morte"(ivi II-II, 11, 3).

È proprio quest'ultima posizione, che nega l'autonomia della coscienza rispetto al magistero, quella predominante nella storia cristiana. Anzi, quanto più il mondo moderno procede nel riconoscimento del primato della coscienza - nel campo dell'interpretazione della Scrittura o della ricerca filosofica e scientifica o delle scelte morali e politiche - tanto più le gerarchie cattoliche si arroccano nella difesa del loro ruolo magisteriale.

Così nel 1832 Gregorio XVI condanna senza esitazione "quell'assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione"(Mirari vos).

E nel 1864 Pio IX ribadisce la condanna dell'opinione "dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio, cioè la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società ed i cittadini avere diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità ecclesiastica o civile, in forza della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti, quali che siano, sia con la parola, sia con la stampa, sia in altra maniera"(Quanta cura).

 

Due autorità divenute una sola

Certo, oggi nessuno userebbe più simili espressioni, che appaiono semplicemente scandalose. Ciò non significa però che la gerarchia abbia riconosciuto il diritto dei cattolici, compresi i legislatori, di seguire la propria coscienza anche dissentendo dal magistero. Anzi, dopo le aperture del Vaticano II, una lenta opera di restaurazione ha consentito di riaffermare il primato dell'autorità magisteriale sulla coscienza. E infatti il Catechismo del 1992 afferma che "non è opportuno opporre la coscienza personale e la ragione alla legge morale o al Magistero della Chiesa"(n. 2039): l'auto-nomia della coscienza, che un tempo ci si poteva permettere di definire ‘delirio', oggi viene derubricata ad atteggiamento ‘non opportuno', ma pur sempre rifiutata. Ecco, allora, che si sfumano i toni, si sceglie un frasario ambiguo che consente, da una parte, di evitare l'accusa di spadroneggiare sulle coscienze e, dall'altra, di bollare i dissenzienti come politici disobbedienti e inaffidabili.

In particolare il cardinale Ratzinger si è distinto nel tentativo di riformulare la posizione tradizionale in modo da renderla più presentabile, contestando la possibilità di contrapporre a un cattolicesimo post-conciliare, che interpreta la fede cristiana a partire dalla libertà, un cattolicesimo pre-conciliare, che assoggetterebbe l'esistenza cristiana all'autorità. A tal fine, egli anzitutto attira l'attenzione sul fatto che la coscienza è un'istanza che deve confrontarsi con la realtà, e su questo è facile essere d'accordo. Come non basta essere convinti che i marziani esistano perché questi esistano davvero, così non basta credere che uccidere un innocente sia un'azione buona perché essa lo sia realmente. Poi ricorda che un uomo non può giustificare le proprie azioni col semplice richiamo alla propria coscienza se non si è preoccupato anzitutto di formarla. Affermazione condivisibile perché evidentemente nessuno, se non fa il possibile per acquisire un criterio di discernimento morale, può giustificare i propri capricci, le scelte dettate da egoismo o da puro conformismo appellandosi al diritto di seguire la propria coscienza.

Problematico, invece, appare il terzo passaggio dell'argo-mentazione ratzingeriana. Per l'ex Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, infatti, formare la propria coscienza significa aprirsi alla realtà quale creazione di Dio: "Coscienza significa, detto molto semplicemente, riconoscere l'uomo, se stesso e l'altro da sé come creazione e rispettare in quest'uomo il suo creatore"(J. Ratzinger, La coscienza nel tempo, Conferenza alla Reinhold-Schneider-Gesellschaft, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Torino, 1987, p. 163).

Se la realtà è creata da Dio, il compito dell'uomo è evidentemente quello di adeguarsi alla natura e non di manipolarla a suo arbitrio. Rifiutare Dio e negare la creaturalità del mondo significherebbe perciò escludere in radice ogni prospettiva morale: "Che una persona sia capace di attribuire una ragione all'essere e di decifrare la propria dimensione morale, dipende dal fatto che risponda o non risponda alla domanda su Dio […]: quando non vi è Dio, non vi è morale, anzi non vi è neanche umanità" (J. Ratzinger, La teologia morale oggi, Conferenza per la Diocesi di Civitavecchia, 7 giugno 1986, pubblicata in più puntate in Avvenire Lazio-sette, 2005).

Ora è chiaro che queste fondamentali verità, che pure sono iscritte nel cuore dell'uomo, possono sfuggire a chi si chiude nella propria soggettività o si lascia condizionare dalle mode culturali. È necessario, quindi, che la Chiesa ricordi questi grandi principi, che sono di ordine naturale ma che la tradizione cristiana propone nella maniera più limpida: "Il compito generale della Chiesa e di ogni credente quanto alle questioni morali potrebbe alla fine, tutto sommato, essere così brevemente caratterizzato: il credente non insegna ciò che ha scoperto da sé stesso, ma testimonia la vivente saggezza della fede, nella quale la saggezza primitiva dell'umanità viene purificata, mantenuta e approfondita. […] Il cristiano […] dà così una risposta autentica alla questione decisiva dell'umanità di oggi e di ogni tempo: alla questione di come si può essere uomo, di come si può vivere una vita veramente umana"(ivi).

Per un cattolico, poi, è ovvio che il compito di illuminare le coscienze spetta in particolare al magistero: "Se io credo che la Chiesa ha le sue origini nel Signore, allora il ministero della dottrina nella Chiesa ha il diritto, mentre si sviluppa nell'autenticità, di essere accettato come elemento prioritario nella formazione della coscienza. A questo corrisponde quindi un obbligo del Magistero di pronunciare la sua parola in modo tale che possa essere compresa in mezzo ai conflitti di valori e di orientamenti"(ivi).

Da queste premesse, date per scontate ma in realtà molto discutibili, si ricava infine una sorprendente conclusione: "Il significato autentico dell'autorità dottrinale del Papa consiste nel fatto che egli è il garante della memoria cristiana. Il Papa non impone dall'esterno, ma sviluppa la memoria cristiana e la difende" (J. Ratzinger, Elogio della coscienza, Il Sabato, 16/3/1991), sicché non si può considerare il magistero un'autorità esterna alla coscienza. Esso infatti "Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza. Sarebbe quindi semplicistico porre un'affermazione del Magistero in contrapposizione alla coscienza"(J. Ratzinger, La teologia morale oggi, cit.). In sostanza, per i cattolici non ci sarebbero due autorità: esse, come per miracolo, sono diventate una sola. Obbedire al papa e obbedire alla coscienza sarebbero la stessa cosa: grazie al magistero, infatti, il credente si troverebbe in condizione di cogliere senza errori le implicazioni della propria fede.

 

Un gioco di prestigio

A questo punto è chiaro che, quando il papa afferma che ‘i legislatori cattolici devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza' e i vescovi affidano le loro riflessioni ‘alla coscienza di tutti', non si sta affatto riconoscendo la libertà di coscienza dei credenti, perché per le gerarchie ecclesiastiche la coscienza formata non può che concordare con i loro pronunciamenti. Pur con un linguaggio soft, si chiede infatti, riguardo a valori giudicati ‘non negoziabili', un'assoluta obbedienza a ‘una parola impegnativa'.

In realtà, l'idea d'identificare la norma suprema dell'agire nella coscienza, che però, se adeguatamente formata, è sempre in sintonia con le esigenze della fede cristiana proposta dal magistero, pare, più che la soluzione del contrasto tra ‘morale della coscienza' e ‘morale dell'autorità', un gioco di prestigio che mira, mentre si dà l'impressione di valorizzare il ruolo della coscienza, a riaffermare quello dell'autorità. Per rendersi conto che si tratta solo di un brillante escamotage basta costatare che, al di là delle parole, il contrasto ieri come oggi è un dato di fatto – e talora è innegabilmente erronea proprio la posizione del magistero – sicché la sintonia tra coscienza e magistero resta la conclusione di un ragionamento a priori mille volte smentita dall'esperienza.

Quando, ad esempio, la coscienza dei credenti comincia a rifiutare l'idea che sia coerente con la fede cristiana la prassi di bruciare gli eretici, il magistero rifiuta una simile novità e Leone X con la Bolla Exsurge Domine del 1520 condanna la tesi sostenuta da Lutero per cui "è contro la volontà dello Spirito che gli eretici siano bruciati". Il cristiano che dissente dal papa sperimenta evidentemente un contrasto tra l'autorità della coscienza e quella del magistero e le parole del papa non le sente in sintonia con le ‘vibrazioni interne' della propria coscienza. Le due autorità non si identificano affatto e credo che oggi si possa unanimemente riconoscere che era la coscienza del papa che non era adeguatamente formata e che i credenti avevano tutto il diritto di dissentire!

Così, quando nel 1633 gli inquisitori del Sant'Uffizio, con sentenza approvata dal papa Urbano VIII, dichiarano Galileo Galilei "veementemente sospetto di eresia, per aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle sacre e divine Scritture, cioè […] che la terra si muova e non sia centro del mondo", e lo costringono ad abiurare "li sudetti [sic] errori e eresie", stanno illuminando, come garanti della ‘memoria cristiana', la sua coscienza o la stanno violentando, imponendogli di rinnegare quelle convinzioni che, come lo stesso magistero riconoscerà dopo qualche secolo, non erano affatto in contrasto con la Bibbia?

Che i gerarchi cattolici abbiano il diritto di credere che le loro parole siano sempre un'eco degli autentici valori umani custoditi dalla ‘memoria cristiana' è evidentemente fuori discussione. Ciò che sembra francamente inaccettabile è la loro pretesa di vincolare la coscienza dei credenti, chiedendo di promuovere una legislazione che addirittura imponga tali valori pure ai non credenti: costoro, anche se privi del dono della fede, dovrebbero infatti riconoscere nel patrimonio di saggezza della tradizione cristiana il miglior fondamento della convivenza civile. Ma davvero non ci si rende conto che solo un cittadino immaturo potrebbe, rinunciando alle proprie convinzioni, accogliere di buon grado "la peregrina e umiliante idea di fidarsi, di essere e agire (secondo le parole del papa Benedetto XVI) veluti si Deus daretur, come se Dio esistesse, cioè, più precisamente, secondo ciò che la Chiesa stessa dice di Dio"(Gustavo Zagrebelsky, Le false risposte del diritto naturale, La Repubblica, 4 aprile 2007)?

In conclusione, la libertà di coscienza è una conquista della modernità ormai fatta propria in maniera irreversibile anche dalla parte più matura del mondo cattolico. Il credente sa di avere il diritto di obbedire alla propria coscienza e di criticare i pronunciamenti del magistero, che è inevitabilmente un'autorità esterna ad essa, nel caso in cui questi non appaiano coerenti col messaggio cristiano. E ciò riconosceva, e ci teneva a sottolinearlo, il giovane teologo Joseph Ratzinger: "La fede si norma sui dati oggettivi della Scrittura e del dogma… Sarà possibile e necessaria una critica a pronunciamenti papali, nella misura in cui manca ad essi la copertura nella Scrittura e nel Credo, nella fede della Chiesa universale"(Il Nuovo Popolo di Dio, Brescia, 1971, pp. 157-158).

Se ‘morale dell'autorità', compresa quella ecclesiastica, e ‘morale della coscienza' sono incompatibili, perché o la coscienza è al di sopra dell'autorità o viceversa, allora è evidente, per tornare alla domanda iniziale, che lodevole è il comportamento del cattolico adulto, che obbedisce anzitutto alla propria coscienza. Peccato che il vecchio papa abbia dimenticato quanto scriveva il giovane teologo: "Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante del-l'autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell'autorità ecclesiastica. L'enfasi sull'individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo". (Joseph Ratzinger in Commentary on the documents of Vatican II, vol. V, pag. 134, a cura di Herbert Vorgrimler, Herder and Herder, 1967-1969, New York, traduzione inglese da Das Zweite Vatikanische Konzil, Dokumente und Kommentare).

A questo punto, per un'esigenza di chiarezza, si imporrebbe in Vaticano una netta presa di posizione: bisognerebbe, cioè, avere il coraggio di dichiarare che la tesi che afferma il primato della coscienza è falsa, e di conseguenza condannare lo scritto giovanile dell'attuale pontefice, o che è vera, e di conseguenza riconoscere che la chiesa ufficiale è avviata verso un ‘crescente totalitarismo'!