A proposito della vicenda dell'aborto terapeutico "sbagliato"

Da la Repubblica - edizione di Firenze - 8 marzo 2007

La vicenda tragica e durissima della madre che ha deciso di abortire per una sospetta ma in realtà inesistente malformazione del feto, il quale è nato vivo ed infine è morto nella terapia intensiva neonatale del Meyer, induce molti e fra di loro chi scrive e la stessa redazione di questo giornale a un sentimento di solidarietà senza se e senza ma. Solidarietà partecipe e non pietistica. Solidarietà come sentirsi una cosa sola, senza sottintesi né ricatti moralistici da “farisei” sempre pronti a “scaricare sugli altri e soprattutto sulle altre pesi insopportabili che essi non muovono neppure con un dito”, come denuncia il Vangelo.

Quello che è successo a questa madre e al frutto del suo seno induce a riflessioni che toccano aspetti profondi della esistenza umana e in particolare la esposizione al tragico e la finitezza.

La nostra percezione del rapporto fra vita e morte è malata, abbiamo bisogno di guarirla. Noi percepiamo la morte come separata dalla vita, anzi contrapposta alla vita. In particolare il cristianesimo ci ha abituati a considerare la morte come punizione per il peccato: “a causa di un solo uomo (Adamo) il peccato è entrato nel mondo e col peccato la morte e la morte si è estesa a tutti perché tutti hanno peccato” (Lettera ai Romani di Paolo). E nel mondo secolarizzato la funzione di esorcizzare la morte è assolta da altre grandi costruzioni sociali fra cui non ultime il danaro e le strutture militari. E non è forse una tale separazione fra vita e morte che rende tanto aggressivo l’ “ordine” mondiale in cui viviamo? Chi s’intende di psicoanalisi potrebbe aiutarci.

Cultura della vita significa guarire dal senso di separatezza fra la vita e la sua finitezza che chiamiamo morte. Assumere in noi stessi e diffondere questa cultura della vita potrebbe essere indispensabile per combattere la violenza e per affrontare con la serenità possibile un futuro incerto nella piena consapevolezza della nostra vulnerabilità e finitezza.

Al contrario ritengo opposto alla cultura della vita usare la tragedia di cui parliamo, la sofferenza indicibile della madre e del padre, per accentuare sensi di colpa, per ribadire che “sono assassine” le donne che vivono il dramma dell’aborto, per accusare la legge 194 di “genocidio” dei feti. Non è possibile evitare un senso di nausea e di riprovazione nel leggere il titolo dell’Osservatore Romano di ieri l’altro: “La lotta miracolosa del bimbo che il mondo voleva uccidere”. Non è così che si difende la vita. Così si difende l’ideologia fondamentalista di poteri che attraverso i sensi di colpa puntano a dominare e controllare le coscienze.

“Maternità” è un argomento forte e intrigante. Non si può usare per giochi ideologici e di potere. Essere madri non è solo dare la vita in senso biologico. E già questo è il grande miracolo che si rinnova ad ogni concepimento, gestazione e parto. Ma essere madri coinvolge e rigenera e ricrea tutti gli aspetti dell’esistenza della specie umana: la trasmissione del Dna in primo luogo, ma anche la trasmissione del senso della vita, del perché si vive. Essere madri è dare luce, calore, sicurezza, protezione, tenerezza. Questo ci ha donato la madre dell’evento tragico di cui parliamo. Questo è ciò che di lei continua a vivere in tutti noi insieme al frutto del suo seno del quale assumiamo in noi la morte.

 

Enzo Mazzi

 

Firenze 8 marzo 2007

 

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