Enzo Mazzi ricorda Michele Ranchetti

 

Si parla ormai di Michele Ranchetti al passato, com’è consuetudine dopo la morte di una persona. Su di lui, sui suoi scritti, si affannano a sezionar virgole gli esperti di anatomia storica e culturale

Noi preferiamo parlarne al presente. E’ lui stesso che c’ispira. “Vivo in una cassa da vivo: morto sarò risorto” scrive nella raccolta poetica Verbale(Garzanti 2001).

Mettiamo a confronto, a titolo di esempio, due suoi messaggi estremamente attuali che costituiscono come i due poli di una personalità combattuta fra pessimismo e speranza, affaticata dal bisogno e dall’impegno di pacificazione fra la vita e il proprio limite, cioè fra le due realtà del nostro essere che sono una cosa sola ma che la cultura sacrale violentemente separa: «Precipita la vita nella sorte / della non vita da cui viene / e si confronta a quel nulla / la misura del vivere: il morire», scrive ancora nel Verbale.

Michele Ranchetti è ognuno di noi, la sua lotta fra pessimismo e speranza è la nostra lotta, la sua fatica di pacificazione interiore è la nostra fatica.

Il primo messaggio, quello che parla il linguaggio del pessimismo, così a noi sembra, è un’analisi spietata pubblicata su La Rivista del manifesto (numero 10 - ottobre 2000) col titolo “Prevalebunt”.

Partendo dal pontificato di Wojtyla compie un excursus in sei punti sulla storia della Chiesa cattolica nel secolo scorso per concludere, pessimisticamente appunto, con una dichiarazione esplicita di dissenso senza apparentemente un barlume di speranza.

Per brevità possiamo leggere la parte seconda dell’intervento, paragrafi 5 e 6.

 

“5. Una riforma della Chiesa era sembrato promettere l'annuncio imprevisto della convocazione di un Concilio da parte del successivo pontefice Giovanni XXIII. Si è creduto, da parte di molti, molti più di quanti fossero tradizionalmente interessati alle cose di Chiesa, che stesse per succedere 'un evento', che la Chiesa cattolica Apostolica Romana stesse per compiere un atto che non fosse puramente amministrativo del suo depositum fidei, ma che volesse intervenire nella sua stessa storia ponendo in discussione collegiale, ecumenica, il suo itinerario nella vita presente dei popoli e delle nazioni, e non solo, quindi, nel suo apparato. E stata una 'speranza' diffusa, capace di risvegliare una curiosità e un interesse non di parte, o almeno non solo di parte cattolica. La stessa appartenenza, ereditata con gli anni, al cattolicesimo, la sequela delle scadenze della vita dei singoli, battesimo, cresima, comunione, matrimonio, morte, sembrava riacquisire un senso nella prospettiva, ancora viva, malgrado l'irrigidimento delle forme disciplinari del magistero e la riduzione dei compiti all'assenso devoto ai superiori, della salvezza, della redenzione. Sembrava riproporsi un tempo della Chiesa, un tempo del credere; cui potevano prendere parte tutti, isolati credenti, come gruppi di fedeli, parrocchie e monasteri, in una comunanza che non pretendeva di essere riconosciuta come società perfetta o corpo mistico, ma si limitava a voler contribuire, in qualche modo, ad un proposito di rinnovamento, consapevole, nella sua esperienza civile e nella sua stessa esperienza religiosa, della necessità di prendere atto della tragedia che si era compiuta negli ultimi anni e dell'assenza in essa di una possibile giustificazione e di un suo possibile ordinamento nella storia della salvezza. Di un piano di Dio che potesse riconoscersi, che potesse essere fatto visibile.

L'attesa verso il concilio non aveva carattere disciplinare; non si attendevano nuove leggi o regulae fidei magari più tolleranti: era, per così dire, un'attesa affettiva, parendo che il nuovo pontefice, che sarà chiamato, con bonomia riduttiva, il papa buono, avesse voluto corrispondere ad un bisogno di conciliazione, piuttosto che ad una precisazione di compiti e doveri religiosi. Del resto, come poteva quella autorità religiosa disconoscere che, per tutto il tempo della guerra e per i primi anni difficili della pace e della ricostruzione, non si era manifestata alcuna risposta alla sofferenza dei singoli e dei popoli che potesse ascriversi ad un ordinamento superiore o diverso dalle intelligenze della politica e dell'economia?

I primi tempi del concilio sembravano corrispondere a questo proposito. Ne davano in certo modo conferma i primi documenti e soprattutto la partecipazione ai lavori che non sembrava ridursi ai resoconti offerti dalla stampa autorizzata, interna all'assemblea. Si parlava di concilio aperto, come se vi prendessero parte anche gli estranei, come se vi avessero anch'essi una competenza che superava i confini della distinzione fra chierici e laici. A distanza di quasi mezzo secolo, questa persuasione diffusa sembra davvero infondata, e a confermarlo stanno i testi delle costituzioni, appunto gli atti scritti del concilio, l'unica traccia visibile e certa. Anche le grandi encicliche del papa buono, ora beato, insieme con il suo predecessore Pio IX, ma non solo per l'abbinamento provocatorio, sembrano come svuotate di senso, prive di quel carattere innovativo e liberatorio che sembrava contraddistiguerle. rimaneva, e resta tutt'ora, ma con ben diversa figura, la definizione, approvata dal concilio, della Chiesa come popolo di Dio. Ma ora, a distanza di anni, e soprattutto di fronte allo spettacolo della Chiesa di Roma come si presenta su tutti gli schermi, a tutte le ore, inserita nelle notizie fra cui prevale con un'invadenza quasi insopportabile, ci si accorge che quel processo di riduzione della dottrina, di aggiornamento, come allora si diceva, del corpus delle verità della predicazione cristiana, ha avuto ben altre conseguenze che quell'apertura che sembrava promettere. In realtà i testi delle costituzioni offrono una traccia del tutto incerta, si contraddicono al loro interno, si rivelano come scritture composte, frutto di alleanze e di compromessi. In realtà sembra di potersi riconoscere che proprio il grande momento assembleare, il grande progetto di costituzione di una Chiesa capace di ricomporre l'idea e il significato del cristianesimo nella storia, si è rivelato impossibile, forse ormai insensato. Come se di fronte ad un presente storico in cui la traccia cristiana è difficilmente percepibile, la Chiesa, o almeno le sue strutture magisteriali, i suoi vertici, non avevano più quel compito riassuntivo e ordinativo che si erano ripromesse. Rimaneva allora una sola possibilità: prenderne atto, operare una drastica riduzione del depositum fidei, riaffermare alcuni principi elementari, offerti in formule tradizionali, non articolate, e pertanto non compatibili con le esegesi (ormai campo 'non religioso', e compito della cultura religiosa, non più dell'esercizio della fede) e offrire della Chiesa apostolica romana un'immagine semplice visibile, corporea: non 'ragionare' la fede, ma mostrarne un esempio, in atto, nella forma di un'istituzione che ha, come tutte le istituzioni, i suoi uffici, i suoi compiti, i suoi uomini, le sue sedi, il suo capo. La Chiesa Romana sarebbe così diventata quella chiesa romana che si vede, che si tocca. Di tutte le note caratteristiche che nel corso dei secoli e nella tradizione cristiana avevano distinto la Chiesa, si sarebbero fatte prevalere l'autorità e la visibilità. Con un processo, non visibile, di graduale assorbimento e annientamento dei modi di vivere ed esprimere l'esperienza religiosa, del cristianesimo in particolare ma anche di altre confessioni religiose, la Chiesa Cattolica Apostolica Romana avrebbe scelto e imposto se stessa come unica forma visibile, come struttura articolata di potere. L'atto più rilevante ed esplicito di questa teologia della presenza visibile è stato la richiesta del perdono. Salutata come un riconoscimento dei propri errori da parte di una Chiesa consapevole delle proprie debolezze, essa appare ora come la più esplicita affermazione della propria autorità assoluta che offre a se stessa il perdono, ai suoi membri incorsi in peccato, ma senza indicare né chi, né dove né quando, e senza alcuna forma di espiazione, senza alcuna penitenza visibile, riprende ed ostenta se stessa consentendo e provocando l'assenso e l'acclamazione del suo capo visibile, felicemente regnante. Questa Chiesa inoltre non ha alcun bisogno di mediazioni: essa è e vuole: vuole la beatificazione di tutti suoi capi, indipendentemente dalla storia 'profana', si appropria di tutti i martiri, costruisce un universo di santi a sua immagine e somiglianza, invade tutti i territori della vita politica, civile, religiosa, tutti gli schermi e le formule di imbonimento (quanti frati figurano come i migliori suggeritori di prodotti culinari, come se la loro competenza provocasse la vendita di prosciutti e biscotti), disattende qualsiasi forma di meditazione, di raccoglimento, sfoggia i suoi giovani, pronti ad acclamare un pontefice sofferente prima di accorrere ad acclamare un probabile capo del governo che, a sua volta, si presenta come esempio di virtù cristiane, davvero improbabili.

 

6. Era necessario questo esito? È certamente coerente e corrisponde alla progressiva, forse ineludibile erosione della cultura umanistica a vantaggio delle nuove forme, anch'esse di cultura, dei nuovi strumenti che hanno, appunto, nell'immagine e nella disponibilità dei nuovi accessi all'informazione non mediata i propri caratteri. Una Chiesa come questa corrisponde anche, così sembra, all'abbandono, non detto ma praticato, del cristianesimo come religione in favore di una Chiesa visibile in cui si compendia la storia secondo il prologo della "Lettera agli Ebrei". Senza alcuna forma di ossequio o di consenso, occorre prenderne atto”.

 

Il secondo polo, la speranza, della personalità poliedrica di Ranchetti, lo troviamo, sempre a mo’ esempio, nella prefazione da lui scritta al libro della Comunità dell’Isolotto Oltre i confini, LEF, Firenze, 1995.

Egli parla dell’Isolotto, ma il suo sguardo è a tutta l’area del “dissenso creativo” fiorentino, nazionale, mondiale. Lì, nel dissenso che non è contrapposizione ma costruzione positiva di una “chiesa altra” e di una “società altra”, vede e analizza germi di speranza. Per la realtà ecclesiale ma anche per tutta la società: “La vicenda che si indica con una sola parola Isolotto appartiene contemporaneamente ad almeno tre contesti: la storia di Firenze, la storia della chiesa locale, la storia della chiesa. appartiene anche, molto più di quanto si sia fino ad ora considerato, alla 'storia del mondo'. per ciascuno di questi contesti, la vicenda ha un valore diverso così come diversi esiti. si dovranno considerare separatamente, pur ricordando sempre che vi è qualcosa di comune nelle tre storie alle quali l'Isolotto partecipa e contribuisce”.

Non nomina mai le comunità di base; ma la loro realtà s’intravede, a non voler essere ciechi, dietro il velo di una reticenza dovuta certamente al fatto che scrive una prefazione per un libro della Comunità dell’Isolotto. Parlando di questa singola comunità egli parla di tutte le comunità di base e a tutte si rivolge.

Un elemento importante di speranza lo vede nel carattere evolutivo della storia: “Questo consentirà di liberare la storia dell'Isolotto dalla prospettiva, in cui viene per solito chiusa, di una conflittualità particolare, quasi caratteriale, privata, presente sì ma come elemento 'perenne' della dialettica propria della storia della chiesa e alla fine riconducibile alla dicotomia fra trascendenza e immanenza o fra particolare e universale o fra visibile e invisibile o profezia e storia, ossia alle coppie e ai nessi su cui si costruisce l'esperienza religiosa”.

Infine lo sguardo prospettico, la profezia, il gettare “oltre” la luce della speranza, coerentemente col titolo del libro per cui scrive la prefazione: “Per questo, in certo modo, il Concilio e le sue carenze, ma anche la restaurazione appartengono ancora, o così sembra, alle categorie del sacro, dell'istituzione, della Chiesa discente e docente, a distinzioni e caratteri che la storia di oggi, e non solo la storia religiosa, non sa più e non deve più forse riconoscere come presenti e operanti”.

 

[torna indietro]