Comunità dell’Isolotto, “Oltre i confini”, LEF, Firenze 1995

Prefazione

di Michele Ranchetti

 

Nella vita religiosa di Firenze, la vicenda dell'Isolotto occupa un posto particolare. Ormai lunghissima, la sua storia appartiene alle ragioni della memoria e alle motivazioni della vita presente. E' una storia che non è solo di interesse 'ecclesiale', come ora si usa dire con sospetta frequenza, ma anche cittadino, sociologico, politico. Tra le forme di contestazione che si sono succedute in Italia, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e che della tragedia della guerra erano e volevano rimanere in certo modo testimonianze, la vicenda dell'Isolotto ha il carattere privilegiato di non prestarsi ad una facile definizione, perché corrisponde a diverse ragioni di cui è espressione, forse contraddittorie, ma autentiche. Vi è, primaria e ineliminabile, la constatazione di una differenza, non solo di un dissidio e di una lotta, fra i ricchi e i poveri. Sembra una constatazione ovvia, ma l'Isolotto dipende, in certo modo, dal rifiuto di questa apparente ovvietà, per ridiscutere, più nella pratica che nella teoria, le ragioni e il senso di questa differenza. il riferimento al Vangelo, infatti, non è immediatamente risolutivo. Nella predicazione evangelica, infatti, non si pone mai la necessità di espellere una delle due parti, o di porle in contrasto tale per cui il ricco non sia una componente necessaria in un disegno di salvezza per tutti. Nell'evidente contrasto fra le ricchezze della Chiesa di Roma e la realtà dei poveri, inoltre, proprio il riferimento alla predicazione evangelica giustifica la interrogazione che percorre la storia della chiesa, e che non è possibile risolvere nella contraddizione scandalosa né ricondurre alle categorie del valore primitivo del messaggio e delle necessità successive della istituzione. L'Isolotto si pone in discussione, nel momento stesso in cui propone una dissoluzione del contrasto. Naturalmente, proprio nel porsi di questa dicotomia, l'Isolotto affronta l'altra distinzione, che anch'essa contraddistingue e in certo modo regge la storia della chiesa: quella fra clero e laicato, fra sacro, come di esplicita e riconosciuta pertinenza del clero, e 'profano' come luogo dell'esercizio di questa pertinenza. Anche questa distinzione, che pare e in certo modo è ovvia, è ridiscussa dall'Isolotto, anch'essa più nella pratica che nella teoria: i suoi preti, e non solo per il fatto del resto innegabile, della loro origine modesta, rifiutano il privilegio, sia del censo che, in un certo modo, del censo spirituale: essi provano a distruggere l'evidenza del ruolo del sacro, e anche - e questo è un'innovazione di ben maggiore momento - dell'esercizio della predicazione distinta. E' una storia difficile da riconoscere benché certamente presente, nel corso della vita della Chiesa: Clericis Laicos è un luogo della predicazione e dell'istruzione religiosa, un crinale e una cesura, che si manifesta nei modi storici dell'obbedienza e del contrasto ma che raramente, come nell'Isolotto, ha visto prevalere, al posto del semplice (e impossibile) scambio dei ruoli, la loro semplice dissoluzione. Naturalmente, questo non poteva non comportare l'invenzione di forme di rappresentanza diversa, di spostamenti nella distribuzione delle parti, nella stessa area del culto: la chiesa, come edificio, come spazio, è stata sottoposta a una sorta di invasione pacifica che poteva risolversi nella sua sostituzione prima con l'assemblea, al suo interno, poi nella piazza. TI culto risultava così in un certo senso diffuso, non più immediatamente riconoscibile solo nelle forme della liturgia sacramentale. E, naturalmente, correva il rischio, per non essere più riconoscibile in esse e solo in esse, di confondersi in certo modo con la vita stessa dei credenti.

La lunga vita dell’Isolotto è una vita imprudente, ma non per vocazione, né per il gusto della novità. In esso, pur nelle forme estreme della controversia, non è mai presente una volontà ereticale, specifica: la differenza da cui origina¬riamente dipendeva fra il diverso status del ricco e del povero si è estesa alla realtà cittadina, o almeno alla realtà del quartiere ed è divenuta segno distintivo ben oltre le categorie sociologiche e anche tradizionalmente religiose, ma non è divenuta immediatamente giudizio. A questa conclusione, infatti, non è possibile pervenire seguendo il Vangelo (e di qui il riconoscimento del valore dell'istituzione che su di questa differenza si regge). Ma è forse possibile e necessario operare diversamente da essa, non fare di essa il fondamento dell'esistenza e anche dell'esistenza religiosa. Forme come l'assemblea, ad esempio, non ricompongono la differenza, ma in qualche modo la dissolvono; forme come la predicazione dei laici, non dal pulpito, ma nell'area del culto (già diviso), e soprattutto l'irruzione della vita quotidiana nell'assemblea, quasi nella celebrazione eucaristica, con l'eventuale ripristino (ma solo, per una maggiore evidenza) del pane comune consentono, o almeno avviano, a una situazione diversa, non certo compatibile con le osservanze tradizionali, ma non ad esse volontariamente avversa.

L'esperienza dell'Isolotto non si misura sui contrasti. La Curia fiorentina ha reagito ad essa, ma sarebbe credo limitativo ricondurre il senso dell'Isolotto a quello di una controversia, anche se una lacerazione vi è stata, gravissima ed estremamente dolorosa. Pertanto non è necessario un giudizio sulle ragioni delle parti. Piuttosto è necessario un confronto fra l'esperienza dell'Isolotto e le vicende di quella Chiesa fiorentina che rischia di divenire un parametro nella storiografia, come di un modello di vita e di vitalità religiosa quasi indipendentemente dalle occasioni particolari e dalle figure della sua esistenza storica.

Dal 1954 ad oggi, in Firenze si sono succedute diverse forme particolari di esperienza e vita religiosa, e grandi figure rappresentative di essa. Da Elia Dalla Costa a don Facibeni, a La Pira, a padre Davide Turoldo, a don Lorenzo Milani, a Luigi Rosadoni, a padre Emesto Balducci, i modelli di obbedienza e di proposta religiosa e civile si sono succeduti come momenti irripetibili, ciascuno nella sua unicità, e pure appartenenti a una sorta di costellazione religiosa, quasi un privilegio di grazia. In questi anni, ciascuna di queste figure si è confrontata - e questo vale anche per chi è mancato, alla soglia dell'evento - con il Concilio. Verso di esso, è stata comune la speranza e l'attesa, comune anche una relativa impazienza verso apparenti ritardi, reticenze e chiusure, come se la grande riforma, il necessario rinnovamento della Chiesa di Roma urtassero contro una resistenza da parte di un ceto estraneo alla novità se non ostile ad essa, incapace di essa. Rispetto a questa speranza, l'esperienza dell'Isolotto, a me sembra, ha reagito con il rinnovamento della fiducia nelle forme di un radicalismo della prassi, piuttosto che nella giustificazione dottrinale delle novità, perché il suo carattere e la sua forza non sono mai derivate dal riferimento a figure carismatiche o a modelli disciplinari di rinnovamento esegetico o pastorale: la sua forza e il suo carattere stavano e stanno nell'assemblea, nella comunità, nel confronto: è a questa obbedienza che i suoi sacerdoti si sono riferiti, e i suoi laici, non più distinti per il loro ruolo minore, si sono misurati. Per questo, in certo modo, il Concilio e le sue carenze, ma anche la restaurazione appartengono ancora, o così sembra, alle categorie del sacro, dell'istituzione, della Chiesa discente e docente, a distinzioni e caratteri che la storia di oggi, e non solo la storia religiosa, non sa più e non deve più forse riconoscere come presenti e operanti. La vicenda dell'Isolotto, come ora si potrà ricostruire da questi regesti e documenti, è storia anche di oggi ed è la storia di un'esperienza la cui maggiore speranza è quella di non essere esemplare.

La vicenda che si indica con una sola parola Isolotto appartiene contemporaneamente ad almeno tre contesti: la storia di Firenze, la storia della chiesa locale, la storia della chiesa. appartiene anche, molto più di quanto si sia fino ad ora considerato, alla 'storia del mondo'. per ciascuno di questi contesti, la vicenda ha un valore diverso così come diversi esiti. si dovranno considerare separatamente, pur ricordando sempre che vi è qualcosa di comune nelle tre storie alle quali l'Isolotto partecipa e contribuisce.

Nella sua ormai lunga storia (e anche relativamente ai tre contesti), l' Isolotto ha mantenuto una sostanziale coerenza, che gli ha consentito, in un certo modo, di non 'dissolversi' in essi. (…)

La storia dell' Isolotto non è conclusa. è questo carattere che suggerisce di ripensarla sulla base di una documentazione completa. è possibile, infatti, che in essa figurino elementi sinora trascurati, rispetto a quelli immediatamente percepibili, di ancora maggior rilievo.

Questo consentirà di liberare la storia dell' Isolotto dalla prospettiva, in cui viene per solito chiusa, di una conflittualità particolare, quasi caratteriale, privata, presente sì ma come elemento 'perenne' della dialettica propria della storia della chiesa e alla fine riconducibile alla dicotomia fra trascendenza e immanenza o fra particolare e universale o fra visibile e invisibile o profezia e storia, ossia alle coppie e ai nessi su cui si costruisce l'esperienza religiosa.

 

 

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