Vittorio Bonanni

«L'Isolotto puzzava troppo di comunismo per questo fu osteggiato dai centri di potere»
Intervista a Enzo Mazzi

Liberazione 17 aprile 2008

 

La ricostruzione, la migrazione, la speculazione edilizia,la voglia di riscatto, la fede religiosa. Ci sono tutti questi elementi nell'esperienza dell'Isolotto di Firenze, lo storico quartiere dove nacque, già negli anni '50, una delle Comunità di base più significative. Enzo Mazzi, ex parroco, è stato un simbolo di quella storia, ma anche qualcosa di più. Forse quando si parla di leader del '68 bisognerebbe ricordarsi anche di lui e delle straordinarie battaglie condotte da quella comunità, quando si facevano le assemblee in chiesa su Martin Luther King, sul Vietnam, sulla Cecoslovacchia e sulle lotte operaie. Enzo, che ancora vive lì, all'Isolotto, è certamente la persona più adatta se vogliamo ricostruire quella storia.

 

Don Mazzi, com'è nato l'Isolotto?

Voglio ricordare l'inizio di quella storia con la frase del cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze: «Dalla giustizia la pace»: con queste parole profetiche aprì, insieme al sindaco La Pira, le porte del paradiso a mille fortunati assegnatari della prima città-satellite d'Italia, quella costruita sulla riva sinistra dell'Arno, di fronte alle Cascine, nella zona chiamata appunto Isolotto. Era il 6 novembre 1954, cinquantaquattro anni fa.

 

Come reagì la gente ad un evento così importante, a soli nove anni dalla fine della Seconda guerra mondiale?

Applaudì con entusiasmo. E io condivisi la loro gioia perché ero stato partecipe negli anni precedenti dei disagi e delle lotte di tanti senza casa e mi apprestavo ad accettare l'invito del vescovo a diventare parroco della nuova parrocchia. Non fu un applauso di circostanza. La casa che stavano per occupare non era un regalo di babbo natale, ma un primo atto di giustizia e quindi un passo verso la pace. Le parole di Dalla Costa non sgusciarono via. Penetrarono nelle coscienze e si trovarono in sintonia con altre parole radicate in profondità; radicate non per ideologia, non a causa della appartenenza comunista che d'altra parte era assai diffusa fra loro, ma a causa della loro sete di giustizia e di pace.

 

C'era anche Giorgio La Pira...

La Pira, sindaco di Firenze dal 1951, prima di consegnare le fatidiche chiavi, spiegò che il nuovo quartiere non era un mucchio di case, ma una vera e propria città autonoma, una "città satellite" - disse - orbitante intorno alla grande città, ma dotata di tutti i servizi per «stabilire, cementare, accrescere una comunione fraterna di scambi e di vita».

 

Quello di Dalla Costa e di La Pira rimase però un bel sogno. L'Isolotto restò un quartiere dormitorio, senza servizi, con la gente lasciata a se stessa...

Sì, era un sogno troppo rivoluzionario. Quella "pace dalla giustizia", quella "comunione fraterna" puzzavano troppo di comunismo. Il sogno non era affatto condiviso dai centri di potere che avevano consentito che si scucissero i finanziamenti dello Stato per realizzare l'insediamento abitativo. La strategia politica che dominava l'Italia del boom puntava in tutta la penisola a tre obbiettivi convergenti. Innanzi tutto si voleva liberare i centri storici dai "popolani" per favorire la speculazione edilizia, dare spazio al terziario, creare città-museo funzionali al turismo di massa. In secondo luogo c'era bisogno di risucchiare nelle città masse di contadini da riciclare nell'industria. Infine, nei quartieri-dormitorio si doveva creare la spersonalizzazione di grandi masse dalla vecchia identità contadina, artigianale e di classe verso la nuova figura di individuo piccolo-borghese, piccolo proprietario, produttore e consumatore. L'utopia della città a misura di persona umana fu usata finché si ritenne che servisse. Senza convinzione, però. E invece di città satelliti nacquero appunto quartieri-dormitorio.

 

Un fallimento, dunque?

Ma qui, dalla disgregazione urbanistica cinicamente programmata, nacquero ovunque in Italia e anche all'Isolotto straordinarie esperienze di socialità. Perché la mancanza di servizi essenziali, come la scuola, l'ambulatorio medico, la farmacia, il mercato e la chiesa stessa, mise in moto energie incredibili di solidarietà. E la lotta per ottenere i servizi negati creò unità oltre le divisioni ideologiche, fra cattolici e comunisti, che a quel tempo erano molto forti, e fece scoprire identità di interessi al di là delle separazioni di bandiera e di credo. Il territorio che doveva essere quasi un anti-fabbrica, nel senso che doveva servire a ghettizzare nella fabbrica la conflittualità sociale, impedendo che questa si espandesse negli spazi della vita, si legò invece proprio al mondo operaio. Si creò un'alleanza fabbrica-territorio, che mise paura.

 

E il potere si arrese?

Prima venne la repressione nel 1968, poi la strategia del terrore, il riflusso, l'ebete scalata del paradiso negli anni '80, la cronaca di oggi.

Nel '68 ho fatto, insieme alla comunità, molte scoperte, ma una mi sembra che possa in qualche modo racchiudere tutte le altre: la gestazione planetaria della speranza. Le esperienze di cambiamento dal basso, che da anni stavamo portando avanti nel piccolo spazio vitale della nostra parrocchia, erano condivise inconsapevolmente da realtà sociali diffuse in tutto il mondo. Nei mesi a cavallo fra il '68 e il '69 la vicenda vissuta dalla "Comunità dell'Isolotto", a seguito della mobilitazione della gente che si sentiva coinvolta nella mia rimozione dall'ufficio di parroco, una rimozione in funzione anticomunista, ebbe risonanza mondiale. La piazza dell'Isolotto divenne un crocevia internazionale. Potemmo comunicare col mondo intero. Ed avemmo la consapevolezza che a livello universale stava nascendo una società basata su valori nuovi e al tempo stesso antichi: pace, solidarietà, primato della coscienza, disubbidienza creativa, diritti umani e sociali come diritti di tutti e di ognuno, comunitarietà oltre i confini, non erano più sogni senza concretezza ma s'incarnavano in mille e mille percorsi di ricerca diffusi in tutti gli angoli della Terra. Finora era sembrato che fosse la paura e l'equilibrio del terrore a tenere unito il mondo sotto la cupola di fuoco della bomba. Ora invece vedevamo che la grande forza unificante era la speranza. Fu per noi come l'ecografia di una gestazione.

 

Come nacque il conflitto con la gerarchia?

La gestazione della speranza scatenò il conflitto. Perché la speranza è la grande nemica del potere. Il quale si nutre di disperazione, di rassegnazione e di ubbidienza. E' il paradigma di Erode: la speranza deve essere uccisa sul nascere, a qualsiasi costo, anche con la strage.

Come la società nuova prendeva forma a livello mondiale, così anche la strategia per pianificare l'aborto fu globale. Dietro la maschera dell'anticomunismo e con la scusa del confronto apocalittico fra i due grandi sistemi di dominio, fu messa in atto la strategia delle "guerre di bassa intensità", per uccidere la speranza e riportare sul trono l'inevitabile. E in Italia venne la repressione spietata ed esplosero le bombe in una sequenza tragica di stragi. E la strategia della tensione generò o comunque alimentò il terrorismo come propria immagine speculare. L'aborto sembrò cosa fatta.

 

Ma che c'entra tutto questo con l'Isolotto?

Anche nella Chiesa il conflitto fu inevitabile. E risultò tremendo e tragico. Perché la gestazione della speranza si configurava come vera e propria rivoluzione. "Rivoluzione copernicana della Chiesa", così la definì un grande teologo conciliare, in quanto poneva al centro non più la gerarchia ma il "Popolo di Dio". Non che i ministeri scomparissero. Solo che riacquistavano la loro funzione di servizio in una Chiesa vissuta come "comunità di comunità aperta", fondata sul protagonismo delle persone e della loro fede, a cominciare dagli ultimi. Tale "rivoluzione copernicana", a cui il Concilio aveva dato voce, ma non corpo, e che ora veniva invece realizzata dal basso, fu osteggiata da un intreccio perverso, composto da massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia: quel medesimo intreccio che in Italia, temendo il contagio comunista, tentò di bloccare il processo democratico complessivo, ricorrendo a tutti i mezzi, compreso il terrore. A un certo punto, nel gennaio 1969, poco prima della strage di piazza Fontana, la chiesa dell'Isolotto fu invasa da una delle prime squadre neo-fasciste che, armate di spranghe, catene e bastoni, cacciarono le migliaia di persone che a quel tempo costituivano la comunità di base dentro la parrocchia. E una magistratura compiacente ignorò la violenza fascista e perseguì le vittime della provocazione incriminando e processando, per turbamento di funzione religiosa, quasi mille persone della Comunità dell'Isolotto, totalmente innocenti, che dopo qualche anno saranno infatti pienamente assolte.

 

La Comunità dell'Isolotto era isolata?

Altre centinaia di comunità cristiane di base nascono in Italia e a migliaia nel mondo. Ma la loro genesi trova costantemente sul suo cammino positivo e creativo la repressione intraecclesiale e insieme il macigno dell'intreccio perverso di cui abbiamo parlato sopra. Le squadre neofasciste al Nord e la mafia al Sud Italia costituiscono la manovalanza di azioni e provocazioni violente analoghe a quelle avvenute nella chiesa dell'Isolotto. E mentre in Italia si crea il terrore attraverso la violenza neofascista, in America latina le giunte militari massacrano a decine i pastori e i laici impegnati nel creare comunità di base, come mons. Romero, vescovo di San Salvador, i teologi della liberazione come padre Ignazio Ellacuria.

 

L'aborto, dunque, cosa fatta? L'"uomo planetario" soffocato nel seno della gestante?

Proprio questo è il messaggio distruttivo che viene trasmesso ai giovani. In realtà, oltre le apparenze, la speranza vive. Non è di Erode l'ultima parola.

 

Ma ora, che ne è di quella straordinaria fioritura degli anni ‘70?

Poche comunità restano vive. Che qualche realtà resista però è già un risultato dopo la desertificazione di tutto ciò che era nato degli anni '70, operata dal rimbecillimento del decennio successivo, gli anni '80. Ma è sostanzialmente vero che il termine comunità è ormai inflazionato. Tanto che si fa molta fatica a parlarne. E soprattutto si rischia di esser fraintesi al solo pronunziare la parola. Si va dalla comunità europea alle comunità di accoglienza, dalle comunità scientifiche alle comunità religiose. Perfino l'alleanza di stati in nome della guerra cosiddetta umanitaria si è spudoratamente chiamata comunità internazionale.

Tuttavia, questo proliferare strumentale di comunitarismi può avere anche un risvolto positivo: può significare che il termine comunità è dotato tutt'ora di una forza intima per cui conviene riappropriarcene tentando di dargli significati all'altezza delle sfide attuali.

E' quello che tentano di fare da sempre le comunità cristiane di base. Una nuova società ha bisogno di uno spirito comunitario aperto che informi tutte le realtà e le strutture sociali. L'alternativa è pericolosamente distruttiva: l'individualismo competitivo per non dire la guerra di tutti contro tutti fomentata dal dominio del danaro e dal liberismo mercantile globalizzato.

 

 

 

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