Il cerchio di una grande storia che si chiude, la storia del proletariato,
e un orizzonte nuovo di un’altra storia che si apre.

Operai e operaie non di rado vestiti da lavoro, pensionati a volte un po’ ansimanti, impiegati e funzionari più agghindati, immigrati del campionario umano multicolore che sta creando la nostra ricchezza e riceve briciole quando non calci nel sedere, si cimentano ogni giorno col ripido scalone che porta alle sale di ritrovo e agli uffici della Camera del Lavoro fiorentina, nel bellissimo palazzo Peruzzi in via Borgo dei Greci, vicino a piazza Santa Croce, sontuosamente restaurato. E una volta giunti al primo piano, gli ori lucenti delle ornamentazioni, le armoniose volte, gli arazzi, gli affreschi, gli eleganti specchi non incutono timore. Qui si sentono a casa propria. Hanno contribuito in tanti di loro a restituirla alla sua eleganza.

Poeticismo enfatico? Forse, per lo sguardo miope senza coscienza storica. Se invece si proietta il disincanto del quotidiano sullo schermo di una storia secolare allora le immagini sbiadite della frequentazione consueta della Camera del Lavoro divengono un grande affresco che emoziona.

E’ il cerchio di una grande storia che si chiude, la storia del proletariato. Ed è un’orizzonte nuovo di un’altra storia che si apre, definita post-moderna, in cui le classi si rimodellano secondo categorie sociologiche ancora non ben definite. E’ una storia nuova dagli esiti molto incerti, una specie di scommessa, che va gestita con sapienza e lungimiranza e che invece è giocata per tanti, troppi aspetti, senza senso del limite, sconsideratamente, con poca saggezza, umanità e giustizia.

Salendo quello scalone il pensiero corre indietro, burlandosi della quantità dei secoli trascorsi, quasi sette, ad altri operai detti Ciompi, cenciosi, sporchi e vocianti, che osarono pensare e proporsi di salire gli scaloni dei sontuosi palazzi fiorentini, dimora esclusiva e dominio incontrastato dell’oligarchia magnatizia, compreso lo scalone del Palazzo dei Priori o della Signoria.

Conquistato il palazzo del Bargello, i Ciompi si diressero verso il Palazzo dei Priori: “allora entrò su, suso, tutto il popolo, con esso il confalone della giustizia; e sì giunsero suso…e sì trovarono di molti capestri…comperati per impiccare i poveri…e sì sonarono tutte le campane per vittoria: ch’avevano avuto il palagio (perché avevano conquistato il palazzo), a onore di Dio”. E’ questa la cronaca di un “minuto popolano” testimone della conquista del Palazzo della Signoria da parte dei Ciompi e dei loro compagni, il 22 luglio 1378.

I Ciompi erano i salariati e i lavoratori più umili. Erano privi di diritti politici, pagati con salari di fame, impediti ad abbandonare la “bottega” e a unirsi in leghe. La rivoluzione popolare tenne il potere dello Stato cittadino per poco più di due mesi operando riforme significative. Fu sconfitta anche per errori commessi e debolezza interna. Fu rallentato e condizionato, ma non fu fermato il processo storico di cui i Ciompi erano anticipatori.

Il tumulto dei Ciompi – afferma lo storico Niccolò Rodolico – s’iscrive nella storia del lavoro e degli operai come evento generativo di un processo storico che dal Medio Evo giunge all’età nostra: “è la prima volta, in cui si forma e si afferma una coscienza operaia con un proprio programma che si vuole inserito in un ordinamento politico” (I Ciompi, Sansoni, Firenze, 1945).

Il Rinascimento stesso sarà in qualche modo segnato da quell’evento: “La prima ragione della fortuna dei Medici – scrive Giovanni Spadolini – fu infatti la partecipazione di uno dei loro primi rappresentanti, il gonfaloniere Salvestro, al tumulto dei Ciompi; quasi a segnare l’orientamento “popolare” del principato, che potrà salvare se stesso solo identificandosi con le classi umili e col proletariato” (La piccola storia di Firenze, Le Monnier, Firenze 1991).

I Ciompi nei due mesi in cui governarono non operarono lo scardinamento dell’ordinamento corporativo interclassista, non lo pensavano e non lo potevano. Ma adombrarono e in qualche modo iniziarono la rivoluzione della modernità in alcuni snodi decisivi. In primo luogo la coscienza, allora appena in nuce, dell’uguaglianza di tutti i cittadini e del loro diritto di accedere al potere. Il governo dei Ciompi istituisce subito tre nuove arti, quella dei Ciompi, appunto, salariati soprattutto del settore della lavorazione della lana (addetti alla pettinatura e alla cardatura), che rappresentavano uno dei gradini più bassi della scala sociale dell'epoca, quella dei Farsettai (i sarti) e quella dei Tintori. Essi inoltre ottennero che tutte le arti potessero partecipare al governo cittadino. Se la coscienza dell’uguaglianza di tutti per nascita era appena adombrata, chiara invece era la consapevolezza della necessità di ottenere per i ceti più bassi il diritto di associazione autonoma, fino allora assolutamente inconcepibile, proibita e repressa anche con la morte. L’unica possibilità associativa era la corporazione. Nella quale però la massa popolare non aveva nessun diritto. L’istituzione delle tre nuove arti è una mossa strategica con cui il popolo minuto ottiene insieme due diritti fra loro collegati: il diritto di associazione autonoma e il diritto di partecipazione al governo. Per usufruire pienamente di tali diritti il governo dei Ciompi decide una provvigione allo scopo di comperare la “Casa del popolo”, cioè una sede in cui il popolo minuto potesse riunirsi e conservare i propri simboli e in particolare la bandiera. E la Casa del Popolo fu comprata. Non è documentato ma non è neppure da escludere che fosse proprio qualche porzione del Palazzo Peruzzi che in quel periodo era in vendita a causa del fallimento nel 1343 della banca Peruzzi, una delle più importanti d’Europa, in seguito al mancato rimborso degli enormi prestiti fatti ad Edoardo III d'Inghilterra.

C’è un altro elemento che può saldare il cerchio della grande storia della modernità e aprire la storia nuova: l’influsso della spiritualità dei “fraticelli” sul “Tumulto dei Ciompi”. I dissidenti francescani denominati appunto "fraticelli" o "bizocchi" o "fratres de paupere vita" che nel XIV-XV secolo ripudiarono il carattere autoritario e oppressivo dei poteri compreso il potere ecclesiastico, furono portatori in mezzo alle masse popolari di tutta Europa di una spiritualità basata sul valore della povertà, della semplicità, della piccolezza, della fraternità fra poveri, vivendo e predicando un cristianesimo “ribelle” verso tutte le forme di alienazione e di dominio. Una tale spiritualità aveva fatto breccia nella coscienza dei protagonisti dei moti popolari europei del trecento, e in particolare di quelli fiorentini e toscani, combinandosi col bisogno di riscatto e di liberazione dal dominio che scaturiva dalle condizioni economiche e sociali insostenibili. Non a caso i Ciompi chiamarono “Popolo di Dio” il popolo minuto che si sollevava. Popolo di Dio e non popolo dell’Arte o della corporazione. Trasformazione spirituale-religiosa e trasformazione economica-sociale-politica si alimentavano a vicenda (cfr. Raoul Manselli, Religiosità e rivolte popolari nell’Europa della seconda metà del trecento, in AA. VV. Il Tumulto dei Ciompi, Olschki. Firenze 1981).

Questo rapporto fra le culture della liberazione religiosa e le culture della liberazione economica-sociale-politica non si è fermato alle origini della modernità. Si è sviluppato, maturato, arricchito lungo tutta la storia della modernità stessa. Ed è oggi di sconcertante attualità. Ne è una significativa testimonianza la recente pubblicazione curata da Carlo Ghezzi in occasione dei cento anni della CGIL, La CGIL e il mondo cattolico, Ediesse, Roma, 2008.

Sulla stessa linea di testimonianza si è mossa la Camera del Lavoro fiorentina che in occasione dell’inaugurazione dei lavori di restauro del Palazzo Peruzzi ha voluto esporre nell’atrio d’ingresso la mostra che testimonia il rapporto di incontro e reciproca positiva contaminazione fra la Comunità dell’Isolotto e il mondo operaio. Si tratta di una esperienza emblematica sviluppatasi nella città del “dialogo alla prova”, in quella Firenze che ha avuto un ruolo trainante a livello nazionale e oltre nel processo storico di ricomposizione non solo politica ma vitale e globale della rovinosa frattura storica fra mondo operaio e mondo ecclesiale.

La mostra parla della matrice vitale di quella storica ricomposizione, matrice radicata nella coscienza profonda delle persone in carne ed ossa, nella loro vita reale, nel profondo dei loro rapporti, nella loro fatica, nel lavoro, nelle mani e nei sogni; matrice non ideologica, non scritta nei libri, non dettata dalle cattedre e dai luoghi del potere; matrice autentica di un vero e proprio processo storico di lunga durata che si riallaccia alla storia lontana dei moti trecenteschi e si ripropone nella storia recente. E’ la storia che partendo dalla resistenza si svilupperà durante la guerra fredda in forma un po’ sotterranea e fiorirà nel periodo del “dialogo alla prova” e nella stagione conciliare, s’ingrotterà nel tempo della restaurazione, negli anni di piombo e nel grigiore degli anni ’80, fino a riemergere nella grande stagione dei diritti globali e dei nuovi movimenti interculturali come unica prospettiva di cambiamento, fino a sfociare nella ricerca attuale di nuove sintesi culturali, sociali e politiche”.

 

 

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