CdB di Pinerolo

Niente automatismi per il Regno dei cieli

Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l'abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito nuziale? Ed egli ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti». 
(Matteo 22,1-14)


Questa è sempre stata una parabola ostica, per via di quel finale spiazzante. Fila via liscia, chiara e condivisa senza difficoltà... e poi... Che diamine? Inviti tutti, “cattivi e buoni” (v 10), barboni e drogati, ubriaconi e disoccupati... e pretendi che arrivino in camicia bianca e frack! Chi pensi che possano incontrare, i tuoi servi, ai crocicchi e ai bordi delle strade? O, come scrive Luca nel brano parallelo (Lc 14,14-24), “per i viottoli e presso le siepi”? L’umanità più sfigata, è sicuro, non il ceto medio-alto, che ha già declinato l’invito e rifiutato di partecipare al pranzo di nozze. Sembra paradossale, ma è così: chi mai può essere così stupido da rifiutare un invito gratuito a una festa di nozze, con tanto di banchetto, in casa di un re?

Un invito a nozze

Per capirlo basta ricordarsi che si tratta di una parabola: il banchetto a cui quel re invita non è un pranzo, al quale la buona borghesia è famosa per partecipare sempre con grande famelicità, sgomitando per accaparrarsi i primi posti e per entrare stabilmente nella lista per inviti futuri. Qui Gesù cerca di far capire, ai suoi discepoli e a chi lo sta ascoltando, qualcosa di più circa quello che lui chiama “il Regno di Dio” e che va predicando come meta di vita per ogni uomo e ogni donna.

Stando alla conclusione del capitolo precedente, è da intendere che stia parlando, in particolare, ai gran sacerdoti e ai farisei, che già a proposito delle parabole precedenti, quella dei due figli (Mt 13,28-32) e quella dei vignaioli omicidi (Mt 13,33-42), avevano capito bene “che egli parlava di loro” (Mt 13,45). Infatti il capitolo 14 comincia con: “... di nuovo disse loro in parabole”; e il tema non cambia. Voi vi ritenete i figli migliori del popolo d’Israele perché sapete a memoria la Legge e i Profeti e predicate e imponete la più rigida ortodossia... Ebbene, sappiate che quella Parola, che pretendete di conoscere e predicare, è innanzitutto una Parola che invita, e invita innanzitutto voi, che siete i primi a conoscerla e studiarla. Ma voi non la intendete come un invito a nozze, per voi e per tutto il popolo, ma come un giogo da imporre a chi la conosce solo tramite la vostra mediazione. Così anche loro possono venirne esclusi.

Perchè il Regno dei Cieli o Regno di Dio è “il regno dell’amore”, dove vige quell’unica legge che recita “Ama Dio e il tuo prossimo come te stesso”. E per Gesù amare significa praticare la giustizia, la solidarietà, l’inclusione sociale, la convivialità di tutte le differenze, il rispetto operoso e coerente per ogni altra creatura... Non chi dice “Signore, Signore!” e prega con le labbra, ma chi “fa” la volontà di Dio... Il discorso è chiaro, diretto, non lascia adito a dubbi. Non per niente cercano tutte le occasioni per catturarlo e metterlo a tacere per sempre.

Non basta essere ultimi

Il Regno dell’Amore è come un banchetto di nozze, dice Gesù con un sorriso: luogo e tempo di gioia, di serenità e di cibo a sufficienza, di allegria e di rispetto reciproco. A patto di indossare quell’abito nuziale! Non è come il grembiulino scolastico della ministra Gelmini, che vuol farci apparire tutti e tutte uguali, nascondendo, ipocritamente, le differenze di censo. Seguiamo il re, che scende nella grande sala del banchetto per salutare i commensali che fanno festa. Che vede, all’improvviso? Un invitato, che ha accettato con entusiasmo l’invito, ma che non ha l’abito prescritto.

Eppure all’ingresso avrebbe dovuto riceverlo dai servi. Lo danno a tutti, perché il re sa bene che quella massa che vive ai margini della società non può permettersi una tunica da festa... Da dove è entrato? Come ha fatto ad entrare? Perché non hai l’abito nuziale, amico? E lo fa buttare fuori, a piangere e battere i denti insieme a quelli che avevano rifiutato di entrare. Questo non c’è scritto, nel testo, ma più avanti vedremo...

Allora non c’è proprio alcun automatismo: non basta essere “uno/a degli ultimi”, uno/a degli esclusi dalla società opulenta, per essere “degni” del Regno. Bisogna rispettare “la” regola. Anche il sottoproletario più sfigato delle nostre periferie metropolitane, anche l’abitante della bidonville più miserabile di Korogocho o di Rio de Janeiro... se picchia moglie e figli, se si abbrutisce con l’alcool e stupra bambini... non “merita” il Regno, dove si entra solo se si pratica l’amore, la giustizia, la condivisione. Si può essere esclusi anche se si è ultimi. Non basta essere poveri (Lc 6,20), bisogna anche esserlo in spirito (Mt 5,3). Non chi dice “Signore, Signore!, ma chi “fa” la volontà di Dio... E così via.

Giudizio finale?

Ma c’è un altro “nodo” che incontro ogni volta che leggo questa parabola: Dio, che è chiaramente rappresentato dal re in questione, appare come il giudice finale, inappellabile e definitivo, che condanna all’inferno eterno chi proprio non ne vuol sapere di cambiare in meglio il proprio modo di stare al mondo. Non importa disquisire se siano parole autentiche di Gesù o commenti dell’evangelista-catechista: “nelle tenebre di fuori”, come altre volte è detto della Geenna, “sarà pianto e stridor di denti” (Mt 22,13) e “nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà della mia cena” (Lc 14,24). L’immaginario che queste parabole ci consegnano è quello del giudizio finale descritto da Matteo nel successivo capitolo 25, versetti 31-46: “E se ne andranno costoro al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna”.

Ora, la storia ci insegna che neanche l’inferno eterno è un deterrente efficace, proprio come la pena di morte: l’ingiustizia e la violenza ci accompagnano nella quotidianità e continuano a mietere vittime. Evidentemente pochi ci credono. Ma tra coloro che ci credono c’è chi si è posto presto la domanda: “Possibile che Dio, che è amore allo stato puro, possa condannare qualcuno, per quanto incallito peccatore sia, alla morte eterna?”.

Origene (teologo e scrittore cristiano vissuto a cavallo tra il secondo e il terzo secolo d.C.) ha sviluppato una bellissima riflessione a partire dalla parabola della pecorella smarrita (Lc 15,4-7): e se la pecorella smarrita fosse proprio Lucifero, l’amministratore delegato dell’inferno? Alla fine dei tempi vedrai che Dio scenderà fino all’inferno per cercarla e anche Lucifero accetterà finalmente di riunirsi al suo Creatore; così l’inferno sarà cancellato per sempre e verrà definitivamente instaurato il regno assoluto e unico dell’Amore.

Peccato che abbiano bruciato quasi tutti i suoi libri! Altrimenti sarebbe stata meno cupa e pericolosa la vita nei territori del cristianesimo dominante.

Meta irraggiungibile

Mi sembra che il pensiero di Origene possa fungere da cerniera di collegamento con un immaginario diverso. Io (ma sono in buona compagnia) credo che non esista l’inferno, tantomeno quello eterno. Ma credo altresì che il Regno dell’Amore resterà una meta irraggiungibile se continuerà ad esserci chi non ne vuol sapere. Giustizia e condivisione solidale sono la legge di Dio per il qui e ora dell’umanità e dell’intero creato. E’ inutile illudersi di andare in paradiso perché si va a messa tutte le domeniche, mentre nel resto della settimana si sfrutta, si violenta, si affama...

Amore e giustizia bisogna praticare nella nostra quotidianità! Se poi ci sarà il paradiso, tanto meglio... Ma non è quello che conta; per arrivarci bisogna praticare la giustizia in tutte le relazioni. Questo ci chiede Dio per bocca di tutti i profeti e di tute le profete di ogni epoca e cultura. Non c’è santo che tenga!

Lo so: il regno di Dio, così globale, resterà comunque una meta irraggiungibile, perché le creature non sono capaci di amore perfetto. Ma conta camminare, non arrivare. Con il paradiso, in realtà, abbiamo fatto l’operazione inversa di chi ha immaginato e descritto l’Eden di Genesi 1 e 2: proiettiamo in avanti, invece che nel passato, il desiderio fortissimo di poter finalmente vivere in pace e sicurezza totali, in armonia con tutte le creature e senza per questo annoiarci.

A questo punto mi viene da pensare che chi si proclama cristiano e continua a sfruttare, speculare, affamare, uccidere, schiavizzare, stuprare... non solo non crede all’inferno, di cui dimostra di non aver alcun timore, ma neppure crede al messaggio evangelico del Regno di Dio che è Regno dell’Amore: perché ignora le pratiche di Giustizia.

Allora capisco meglio, mi pare, le loro proclamazioni di fedeltà alla “civiltà cristiana”: è un patto tra dominanti, tra chi offre il sostegno di una dottrina funzionale e chi in cambio offre soldi e privilegi. Si chiamerà anche “cristianesimo”, da quando papa e imperatore romano si sono fusi nell’unico “pontifex maximus”... ma certo non c’è nulla di evangelico in tutto ciò, se siamo d’accordo di definire con “evangelico” il messaggio di Gesù, la buona notizia dell’Amore universale che è Dio.

Beppe Pavan


Venite alla festa


Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. All'ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: Venite, è pronto. Ma tutti, all'unanimità, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato. Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato. Un altro disse: Ho preso moglie e perciò non posso venire. Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone. Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi. Il servo disse: Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c'è ancora posto. Il padrone allora disse al servo: Esci per le strade e lungo le siepi, spingili a entrare, perché la mia casa si riempia. Perché vi dico: Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena (Luca 14, 16-24).



Nel capitolo 14 del Vangelo di Luca in cui è situata questa parabola, l'evangelista raccoglie insieme quattro diverse unità di materiale letterario nello stesso contesto: quello di un pasto a casa di un fariseo. I quattro episodi riportati non dipendono l'uno dall'altro per il significato, ma è importante che tutti e quattro avvengano “a tavola”.

I discorsi a tavola non costituivano solo un espediente letterario abbastanza usato per raccogliere insieme ed aprire discussioni su di un'ampia varietà di argomenti, ma i banchetti erano un'occasione reale per maestri e filosofi di impartire la loro sapienza.

Per il giudaismo, per Gesù e per le comunità cristiane delle origini il mangiare insieme rivestiva inoltre molti ed importanti significati: religiosi, sociali, economici. Era un momento per condividere qualcosa di importante e, forse, come ci viene narrato nello Prima lettera ai Corinti, anche per garantire che tutti/e almeno una volta nella giornata potessero mangiare e fossero egualmente sazi, un'occasione per raccontarsi le vicende trascorse, per stare insieme con la famiglia, amici ed amiche, per parlare, riflettere, discutere, pregare.

Nonostante le evidenti differenze dei due testi, quella di Matteo (cap 22, 1-14) e questa di Luca costituiscono diverse versioni di una stessa parabola adattata a due contesti, a due comunità con esigenze differenti. Per Luca siamo davanti a una ”grande” cena, forse a qualcosa di eccezionale, sicuramente da non perdere. Diversamente dalla narrazione riportata da Matteo, la parabola in Luca è tuttavia più semplice ed in linea con la vita del tempo. Un uomo decide di fare un banchetto ed invita molte persone. La parabola rispecchia la consuetudine di un invito fatto pervenire in anticipo e di un secondo invito di conferma con l’orario del banchetto agli invitati che avevano accettato il primo.

Tuttavia fra il primo ed il secondo invito le circostanze sono cambiate. Gli invitati cominciano a trovare scuse per tirarsi indietro. Luca sceglie di illustrarci le posizioni di tre tipi di invitati e le loro scuse. Mentre l’uomo che ha imbandito la grande cena cerca gli invitati e li sollecita, li cerca per stare con loro e farli partecipi del pasto,  i tre personaggi che si scusano pare non siano interessati a diventare suoi commensali, addirittura “fuggono” da lui e vanno per “i loro affari”.

Le motivazioni addotte per il rifiuto non sono a prima vista né deboli né vacue. Quelli che al secondo invito rifiutano non si stanno aggrappando ad una qualche scusa per dissociarsi da un impegno verso cui non sentono alcuna responsabilità. Le incombenze economiche di cui narrano i primi due invitati e il recente matrimonio del terzo costituivano nella maggior parte delle società di allora dei validi motivi per rifiutare un invito. Comperare un campo e doversene occupare, acquistare dei buoi per il lavoro, sposarsi... sono tutte cose in sé buone e oneste. Ma proprio queste situazioni diventano di fatto “pretesti” per rifiutare le premure dell’uomo che ha preparato il banchetto. I tre rifiuti avvengono con motivazioni “ragionevoli” e con espressioni piene di cortesia: “ti prego di scusarmi, non posso venire”. Motivi di per sé ragionevoli hanno causato un rifiuto.

Quale sarebbe il nostro atteggiamento di fronte a quell'invito? Avremmo anche noi rifiutato con motivazioni seppur valide o vi avremmo partecipato magari “solo perché bisognava farlo”, per non “macchiare” la nostra rispettabilità e immagine? Oppure, avremmo accolto con gioia l'invito, magari preparandoci per tempo, curando noi stessi/ dentro e fuori, aprendo il nostro cuore e indossando “l’abito nuziale”.  Ci saremmo fatti coinvolgere dalla gioia della festa, dall'accoglienza del padrone di casa? Avremmo saputo cogliere l'opportunità offertaci magari rinunciando ad altro, di primo acchito più accattivante e, magari, più gratificante per la nostra carriera, apparenza, immagine?

Non vi è alcun motivo finora perché qualcuno dei presenti rimanesse scosso dal racconto di Gesù, per lo meno fino a momento in cui si parla di altre persone per rimpiazzare gli invitati. E’ certamente una cosa spiacevole ma… potrebbe succedere. A questo punto, però, la parabola diviene “sconvolgente”: il padrone di casa, anziché invitare altri dello stesso livello sociale o scoraggiarsi e, deluso, rinviare o annullare il tutto, come d'altra parte gli uditori del racconto si sarebbero potuti aspettare, decide di rivolgere il suo invito agli ultimi e alle ultime della società di allora: poveri, storpi, ciechi, zoppi. E poi...,  siccome c'era ancora del posto, manda i suoi servi ad invitare con sollecitudine quelli/e che si trovavano di passaggio per strada.

Ed oggi che cosa accade? Quando i primi invitati rifiutano o, troppo sazi di tutto, non fanno neppure caso all'invito, viene realmente offerta la possibilità agli ultimi, ai poveri, ai dimenticati? O, meglio noi mondo ricco facciamo sì che questa opportunità di festa, gioia, redistribuzione, giustizia, non venga sprecata e venga effettivamente offerta a chi ha di meno o non ha nulla? Non si tratta e non dobbiamo neppure pensare di sostituirci al padrone di casa ma, forse, cercare di essere un po' come il servo della parabola che si impegna, accoglie e capisce il pressante invito del suo padrone e va per le strade della città a chiamare, ad invitare, a rendere partecipe della ricchezza e delle opportunità offerte dal padrone gli ultimi e le ultime.

E anche possibile, con uno sguardo all'oggi, e come d'altra parte ci invita la medesima narrazione riportata nel Vangelo di Matteo andare oltre le tre esemplificazioni di Luca e parlare più in generale di “affari”, di incombenze che distolgono dall’accogliere l’invito. Quando la vita gira intorno “qgli affari”, al “fare” e ci si lascia prendere nel giro vorticoso, noi veniamo completamenti travolti e progressivamente perdiamo “passione” per l'invito del Regno di Dio. Questa parabola indica non solo la necessità di una continua conversione ma sottolinea anche l’importanza di una grande e continua vigilanza.

Proprio gli “affari di ogni giorno”, le incombenze e la routine delle nostre giornate ma, talvolta, anche del nostro tempo libero che da mille parti veniamo invitati/e a riempire del nulla, possono diventare un inciampo, un'ostacolo alla sequela di Gesù. Per allontanarsi dall'insegnamento di Gesù non c’è bisogno di un voltafaccia deciso, magari “realmente consapevole”, basta un defilarsi lento, persino “ragionevole” come quello degli invitati al banchetto.

L’invito a partecipare al banchetto e, come dice Matteo, a starci con l’abito e il cuore nuziale significano “esserci”, con un coinvolgimento reale, nella nostra vita. Per accettare l'invito dell'evangelo ci vuole un cuore che non si lascia soffocare nelle “cose di ogni giorno”. Per poter accettare l'invito alla festa bisogna sapere anche dire di no ai “troppi inviti” che ci piovono da tutte le parti.

Paolo Sales

 

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