Comunità di san Paolo, Roma gruppo di Montesacro

3 dicembre 2006

 

Mutamenti: sofferenze, limiti e percorsi dell’invecchiare

 


 

Dal Qoelet 12, 1-8

 

Ricordati del tuo Creatore finché sei giovane, prima che arrivi l’età degli acciacchi.

Verranno gli anni in cui dirai: “Non ho più voglia di vivere”.

Allora il sole, la luna e le stelle per te non saranno più luminosi e il cielo sarà sempre nuvoloso.

Allora le tue braccia, che ti hanno protetto, tremeranno;

le tue gambe che ti hanno sostenuto, diventeranno deboli.

I tuoi denti saranno troppo pochi per masticare il cibo;

i tuoi occhi non vedranno più chiaramente.

Le tue orecchie diventeranno sorde al rumore della strada.

Non sentirai quasi più il rumore della macina del mulino e il canto degli uccelli.

La tua voce sarà debole e tremante.

Avrai paura di camminare in salita e ad ogni passo sarai in pericolo di cadere.

I tuoi capelli diventeranno bianchi come i fiori di mandorlo;

ti sarà difficile muoverti.

Ogni desiderio scomparirà.

Poi te ne andrai alla dimora eterna, mentre per le strade piangeranno e faranno lutto.

Godi la vita.

La vita finirà come si rompe un filo d’argento,

o come va in pezzi una lampada d’oro,

come s’infrange una brocca per l’acqua

e si schianta la carrucola del pozzo.

Il tuo corpo ritornerà alla polvere della terra dalla quale fu tratto;

il tuo spirito vitale ritornerà a Dio che te l’ha dato.

“Tutto è come un soffio di vento: vanità, vanità, tutto è vanità”, dice Qoelet.

 

 

Da I Ching

Dopo un tempo di declino viene il punto di svolta. La luce intensa che era stata scacciata ritorna. C’è movimento, ma non è determinato per violenza…

Il movimento è naturale, sorge spontaneamente. Perciò la trasformazione di ciò che è invecchiato diventa facile. Il vecchio viene rifiutato e ad esso subentra il nuovo. Entrambe le misure sono in accordo col tempo; perciò non ne risulta alcun danno.

 

Dal vangelo di Matteo 25,14-30

”Così sarà il regno di Dio.

“Un uomo doveva fare un lungo viaggio: chiamò dunque i suoi servi e affidò loro i suoi soldi. A uno consegnò cinquecento monete d’oro, a un altro duecento e a un altro cento: a ciascuno secondo le sue capacità. Poi partì. Il servo che aveva ricevuto cinquecento monete andò subito a investire i soldi in un affare, e alla fine guadagnò altre cinquecento monete. Quello che ne aveva ricevute duecento fece lo stesso, e alla fine ne guadagnò altre duecento. Quello invece che ne aveva ricevute soltanto cento scavò una buca in terra e vi nascose i soldi del suo padrone.

“Dopo molto tempo il padrone tornò a casa e cominciò a fare i conti con i suoi servi.

“Venne il primo, quello che aveva ricevuto cinquecento monete d’oro, portò anche le altre cinquecento e disse:

- Signore, tu mi avevi consegnato cinquecento monete. Guarda: ne ho guadagnate altre cinquecento.

“E il padrone gli disse:

- Bene, sei un servo bravo e fedele! Sei stato fedele in cose da poco, ti affiderò cose più importanti. Vieni a partecipare alla gioia del tuo signore.

“Poi venne quello che aveva ricevuto duecento monete e disse:

- Signore, tu mi avevi consegnato duecento monete d’oro. Guarda: ne ho guadagnate altre duecento.

“E il padrone gli disse:

- Bene, sei un servo bravo e fedele! Sei stato fedele in cose da poco, ti affiderò cose più importanti. Vieni a partecipare alla gioia del tuo signore!

“Infine venne quel servo che aveva ricevuto solamente cento monete d’oro e disse:

“Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che raccogli anche dove non hai seminato e che fai vendemmia anche dove non hai coltivato. Ho avuto paura, e allora sono andato a nascondere i tuoi soldi sotto terra. Ecco, te li restituisco.

“Ma il padrone gli rispose:

- Servo cattivo e fannullone! Dunque sapevi che io raccolgo dove non ho seminato e faccio vendemmia dove non ho coltivato. Perciò dovevi almeno mettere in banca i miei soldi e io, al ritorno, li avrei avuti indietro con l’interesse.

“Via, toglietegli le cento monete e datele a quello che ne ha mille. Perché, come dice il proverbio, chi ha molto riceverà ancora di più e sarà nell’abbondanza; chi ha poco, gli porteranno via anche quel poco che ha. E questo servo inutile gettatelo fuori, nelle tenebre: là piangerà come un disperato.

 


 

Introduzione al tema dell’ eucaristia del 3 dicembre 2006

 

Oggi è la prima domenica di avvento, tempo di attesa e di preparazione ad un evento, ad una venuta. Ma il tempo dell’attesa, come sappiamo, non è vuota immobilità, momento di sospensione. Può essere un tempo fecondo, quello in cui si rallenta, spesso quello in cui ci si ferma, non solo per riflettere sull’evento che si attende, ma anche per capire come ci poniamo nei confronti di esso, per capire cosa significa per noi questa attesa. Il tempo dell’attesa se ci conduce all’evento, ci riconduce inevitabilmente a noi stessi, ci riporta alla nostra interiorità, a quello che siamo.

Ci sembra significativo iniziare a condividere con voi le nostre riflessioni sui temi che vi proporremo proprio all’inizio del tempo dell’attesa. Perché vogliamo partire da noi stessi, donne e uomini che hanno percorso già tratto più o meno lungo della loro strada sia come persone singole che come comunità. Abbiamo maturato molteplici esperienze, individuali e collettive, vissute sulla nostra pelle, abbiamo incontrato o ci siamo scontrati con eventi che hanno influito sul nostro modo di essere. La nostra identità si è modellata a mano a mano che procedeva il nostro vivere, è cambiata lapercezione di noi stessi e della realtà checi circonda.

Allora ci siamo chiesti: in questo momento della nostra vita, le persone reali che noi siamo, ciascuno con la nostra storia, la comunità che siamo diventati, come ci poniamo di fronte alle domande di senso della nostra esistenza?

Che cosa è stato ed è per noivivere, mutare, incontrare la sofferenza e il limite, invecchiare? (Abbiamo usato dei verbi per indicare che si tratta in tutti i casi di situazioni dinamiche, in movimento, spesso di fasi della nostra vita.)

Quali contenuti, quali significati hanno assunto questi temi nel dipanarsi della nostra esistenza?Quante volte, nel silenzio della nostra interiorità, ci siamo posti domande e cercato delle risposte, sollecitatidalla spinta di ciò che ci accadeva?

Come le esperienze, le emozioni, le sensazioni vissute hanno segnato il modo di porci nei confronti degli interrogaitvi fondamentali dell’esistere, hanno svilupato la nostra coscienza e consapevolezza?E la fede, che ruolo ha avuto?

Ci è sembrato importante tentare di mettere in comune le nostre esperienze individuali e fare insieme questo percorso di riflessione che si prospetta difficile non solo per la complessità delle questioni da affontare, per il coinvolgimento emotivo e le sensazioni che ci suscitano.Ma anche perchè nella concretezza e nella quotidianità della vita di ognuno i problemi dell’esistere si incontrano, si intrecciano, si attraversano, si completano, si condizionano a vicenda.

Sarà quindi un percorso lungo e che si svilpperà nel tempo. Di volta in volta faremo delle tappe, focalizzeremo l’attenzione e ci soffermeremo su taluni temi e su taluni aspetti di questi.

Oggi affromteremo l’ invecchiare, mutamento a cui non possiamo sfuggire perchè strettamente legato al fatto di vivere e del passare del tempo.

Anche abbozzare delle risposte sarà arduo. Cercheremo aiuto nelle scritture, negli scrittie nelle parole di chi riesce a cogliere in profondtà l’animo umano, ma soprettutto in noi stessi. Questa volta non avremo tanto bisogno di esperti, competenti lo siamo tutti perché questa competenza e questa conoscenza provengono dalla nostra imprescindibile condizione di essere al mondo.

Anna Cavallaro


Commento introduttivo alle letture

 

Mai come in questa circostanza abbiamo trovato difficoltà nell’inquadrare il tema, nel metterlo a fuoco, nel trovare un minimo comun denominatore fra noi, fra le nostre diverse sensibilità anche perché sedimentate da esperienze diverse.

Questo è quello che vogliamo dirvi in apertura di questa eucaristia della prima domenica d’Avvento, anche perché guardandoci intorno scopriamo, per esempio rispetto all’altr’anno, dei vuoti: fratelli che vivono nel nostro ricordo ma a cui non stringiamo più la mano al momento dello scambio della pace, o al momento del padrenostro.

Invecchiamo come singoli e come comunità: prenderne coscienza è misurarci consapevolmente con i mutamenti, con le sofferenze e i limiti che spesso i percorsi dell’invecchiare propongono a ciascuno di noi.

 

La lettura del Qoelet ci fa conoscere un uomo tormentato dalla paura della malattia e della vecchiaia, vista soltanto come tempo di rinuncia, di attesa della morte. Non c’è atteggiamento positivo, c’è rimpianto per quello che è perduto per sempre. La poesia di cui è intrisa non cancella la crudezza di una realtà e di un destino comune ad ogni esistenza umana.

C’è soltanto la speranza di un ritorno dello spirito vitale a Dio.

 

Vivere il proprio declino non è tuttavia una condanna senza speranza se assumiamo che ogni stagione della vita presenta dialetticamente una pluralità di opzioni: il tempo dell’attesa implica sempre un mutamento possibile, dentro e fuori di noi.

Tutti, anche il più anziano, hanno diritto al futuro e alla speranza, ad un’altra possibilità.

 

E’ per questo che abbiamo scelto, non senza dubbi e contrasti fra noi, di leggere e commentare la parabola dei talenti, dal Vangelo di Matteo.

Abbiamo rifiutato di questo testo una lettura ideologica che, pure è stata fatta in passato, apologetica del mercato, della sfida a diventare uomini e donne di successo. Ci sembra, invece, di poterla leggere come un invito alla creatività. In ogni età della vita. L’abbiamo letta avvertendo una condanna per chi di noi non mette a frutto le proprie capacità, i propri talenti, pochi o molti che siano, nelle diverse età della vita.

Non possiamo, in ogni circostanza, permetterci di seppellire le risorse che ci sono state date; non possiamo vivere chiusi in noi stessi e per noi stessi.

Se assumiamo questo punto di vista, l’egocentrismo, allora non ci resta che il ripiegarsi, la disperazione della vecchiaia e poi della morte.

Come dice Filippo Gentiloni ne “La vita breve”, “ il morire potrebbe, forse, assumere un volto più umano se a una cultura accentrata sull’io si cominciasse a sostituire una cultura dell’<altro>.

Il mio volto è quello dell’<altro>. Sono per l’<altro>.

Proprio nell’età avanzata, dal momento che si ha più tempo, occorre trovare la forza per stabilire relazioni con altri, dividere con loro speranze e progetti, regalare esperienze, comunicare quel bagaglio di amore che forse negli anni dell’attività frenetica non siamo riusciti a esprimere compiutamente.

Vivere con le generazioni future implica un passaggio di scambio con coloro che oggi sono protesi verso il tempo che verrà; se noi prendiamo atto che il nostro tempo è al limite, possiamo però con loro immaginare una continuazione almeno ideale, se non fisica, che ci renda partecipi dei progetti, delle ipotesi di vita che i più giovani provano a costruire, provando ancora a mettere in campo unitamente i loro entusiasmi e le nostre capacità, il loro giovane sapere e le nostre esperienze.

Se sotterriamo i talenti non possiamo pretendere di essere presenti, di partecipare, di condividere. Dobbiamo perciò fare uno sforzo per rendere ancora positivo il trascorre degli anni della vecchiaia, con la solidarietà, con lo stare insieme, col giocare con i bambini come non abbiamo fatto quando eravamo giovani e ora abbiamo tempo di fare, se vogliamo.

 

Quello che vale per ciascuno nella sua individualità vale poi anche a livello della Comunità: se in prima fila non siamo in grado di condurre battaglie, possiamo però comunicare il bagaglio culturale e spirituale accumulato in questi anni. Raccontare con spirito critico le lotte, le attese, le difficoltà incontrate.

Sarebbe grave chiudere la porta e attendere nel silenzio la consunzione della Comunità: sarebbe un difetto di egoismo, un mancanza di comunicazione, una presunzione di essere stati unici.

Il Laboratorio, il Gruppo Giovani, l’impegno con il Soccorso Sociale Palestinese,il lavoro per Amistrada e tutti gli altri impegni della Comunità sono piccoli passi su un cammino comune con altri che, speriamo, lanceranno altre nuove parole di speranza e di fede.

Anna Maria Marlia

 

 

 

 

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