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Una Chiesa a più voci – Ronco di Cossato (Biella)

CHE COSA SI PUÒ CREDERE OGGI?

Una giornata con Antonio Thellung

Trascrizione delle conversazioni tenute della chiesa di San Defendente domenica 16 maggio 2010

Terza riflessione

Alla ricerca d'un cristianesimo dell'insieme

 

Che cosa si può credere oggi? Le letture della celebrazione di stamattina descrivono l'ascensione di Gesù al cielo. Ovvio che oggi non è credibile immaginare un corpo fisico che s'innalza verso il cielo fino a scomparire lassù, oltre il visibile. Venti secoli orsono poteva apparire meno assurdo perché l'opinione comune concepiva il cosmo fatto a strati, con pianerottoli sovrapposti. La terra era il piano terreno, sotto c'era il sotterraneo (lo Scheol, gli inferi) e sopra i sette cieli, nell'ultimo dei quali dimorava Dio, l'Altissimo. Gesù risorto era da concepirsi lassù, nel seno del Padre. Oggi sappiamo che i cieli più alti sono sempre parte dello stesso cosmo, eppure, anche se nella descrizione l'ascensione appaia non credibile, nel significato può continuare a mantenere un senso, se viene richiamata per affermare che Gesù è risorto e continua a vivere in altra dimensione: nella dimensione divina.

Le metafore sono capaci di esprimere, attraverso descrizioni di per sé fantastiche, un senso reale, purché affrontate con la corretta chiave di lettura. Per esempio, se qualcuno si accostasse con scetticismo alle favole di Esopo pensando che non sono credibili perché gli animali non parlano, si perderebbe tutte le verità profonde che esprimono. Per fare un altro esempio, pur sottolineando ancora che non possiamo sapere nulla del volto di Dio, mi sento però di affermare che ha i baffi. E lo dico perché in certi momenti nei quali mi sento sconsolato, triste, abbandonato al mio destino per qualche contrattempo che mi disturba, ho talvolta la chiara sensazione che qualcuno mi sta guardando e ride sotto i baffi. Fuor di metafora, potrei dire che credo l'umorismo una delle qualità divine, mentre penso sia stufo di sapersi rappresentato un vecchio con la barba bianca e il dito alzato come ammonimento. Credo che l'immagine di un Dio severo abbia fatto abbastanza danni, e mi piacerebbe vedere ora più accentuata quella di un Dio sorridente, dispensatore di speranze.

Il problema investe il senso stesso della verità, che può essere di tipo storico, oppure teologico-sacramentale. Qual è la differenza? La verità storica si rifà a personaggi ed eventi accaduti in certi luoghi, tempi, modi, e sovente non si riesce a afferrarla esattamente. Ma in fondo può avere scarso interesse, agli occhi della fede. La verità teologico sacramentale richiama invece significati precisi, al di là di descrizioni che possono anche essere simboliche. Per esempio, quando si va in Terra Santa, condotti a visitare luoghi come il Santo Sepolcro, la casa di Maria, il Monte delle beatitudini, il Cenacolo eccetera, c'è sempre qualcuno che chiede se è certo che sono quelli i luoghi esatti, senza rendersi conto che dal punto di vista della verità sacramentale la cosa è assolutamente insignificante. Personalmente mi sono sentito profondamente emozionato sulla tomba di Cristo. Ora, supponendo che qualcuno mi avesse detto: guarda che il luogo esatto non è qui ma qualche centinaia di metri più in là, che avrei dovuto fare? Emozionarmi un po' meno? Oppure prendiamo ad esempio la Sindone, esposta in questi giorni. Sono tuttora in corso più ipotesi: è autentica, nel senso che è proprio quella che ha avvolto il corpo martoriato di Gesù, oppure è una ricostruzione iconografica, magari medievale? Personalmente confesso che davanti alla Sindone, o una qualche sua riproduzione, mi sento proiettato al cospetto della passione di Cristo, con tutto il relativo coinvolgimento. Sarà autentica? O avrà avvolto il corpo di qualcun altro martirizzato allo stesso modo? Oppure darà una riproduzione? Anche se mi metto a pensarci in questi termini, mi accorgo che in ogni caso la partecipazione emotiva non cambia. Perché non è quel lenzuolo in sé che mi emoziona, ma il rimando sacramentale che rappresenta. Così come non è il pane dell'eucarestia che mi coinvolge, ma la presenza di Cristo alla quale mi richiama e mi rimanda.

Leggere le verità di fede come fossero verità storiche, e non teologico-sacramentali, rischia di introdurre una sorta di fondamentalismo fuorviante. Per restare fedeli ai significati della tradizione, può essere necessario mutare le descrizioni che non si adattano più ai criteri odierni, proprio per mantenere vivi i significati di fondo, irrinunciabili, della fede. Pena, altrimenti, il rischio di finire per credere a tutt'altro di quanto aveva inteso trasmettere Gesù. Proviamo quindi a formulare qualche ipotesi su quel che si potrebbe credere, senza alcuna pretesa, sia ben chiaro, di dire che le cose stanno proprio così, senza nessuna pretesa di inseguire "la verità", ma sperando di poter intuire qualche significato vitale.

Se prendiamo sul serio San Paolo quando dice che Dio è tutto in tutti, possiamo partire da questo punto fermo per ricavare interessanti deduzioni. La prima, mi pare, è che se Dio è tutto in tutti, allora non ce lo troviamo di fronte, ma siamo immersi in lui. La cosa non è di poco conto, come vedremo. Teologi del calibro di Teilhard de Chardin, o di Panikkar, o anche più recentemente di Mancuso e altri, parlano di materia mater dalla quale nasce non solo la vita biologica ma anche lo spirito, parlano di polvere dell'universo intrisa fin dalle origini di soffio divino, parlano di un'unica stoffa nella quale è tessuta tutta la realtà, Dio compreso. Il primo interrogativo che affiora è se si tratti di panteismo, sul tipo oggi particolarmente di moda anche secondo criteri New Age. E l'interrogativo di sempre è: il panteismo è da considerarsi teismo, oppure è ateismo? Secondo me c'è un modo per uscire dalle ambiguità. Se questo tutto ha coscienza di sé, allora merita di essere chiamato Dio. Se è concepito invece come insieme di energia inconsapevole, allora non sarebbe corretto scomodare la parola Dio. Insomma, se l'insieme cosmoteandrico, come lo chiama Panikkar, è un organismo vivente consapevole della sua esistenza, allora è da considerarsi una vera e propria persona, sia pure in senso non antropomorfico. Su questo punto di partenza mi pare si possano costruire nuove formulazioni interessanti e credibili, almeno ipoteticamente. Aggiungo che tutto quello che dirò credo possa rientrare nei significati propri della tradizione cristiana e cattolica, anche se con interpretazioni che altri, immagino, troveranno discutibili (ma io stesso le considero discutibili).

La prima deduzione è che esisterebbe una realtà d'insieme unica e unitaria che si esprimerebbe attraverso due interfacce. Una fatta di coscienze frazionate, limitate, contraddittorie, che sperimentano porzioni di esistenza nello spazio e nel tempo, che è poi l'individualismo della nostra realtà umana e terrena. L'altra, quella divina, è coscienza d'insieme, non prescinde mai dalla visione complessiva restando sostanzialmente sempre se stessa, malgrado qualsiasi mutazione a livello particolare. Questa immagine a due facce, per quanto mi è concesso di capire, mi sembra d'importanza capitale, perché significherebbe che noi non potremmo mai essere separati ed esclusi da una simile realtà divina.

Per tentare un esempio, mi sembra che questo insieme potrebbe essere paragonato a un immenso computer formato dall'unità centrale e da innumerevoli operatori terminali, che agirebbero tutti con gli stessi programmi software. Mentre però ciascun terminale vive e lavora nel proprio individualismo, l'unità centrale li conoscerebbe personalmente tutti, rielaborandone i dati nella memoria d'insieme. Ciascun terminale può svolgere il suo compito con miopia, senza neppure interrogarsi sul senso e il valore dei suoi collegamenti; ma potrebbe anche rendersi conto di far parte di un grande insieme e desiderare integrarsi nella realtà d'insieme.

Lungi da me l'intenzione di fare affermazioni categoriche, sia chiaro, e tuttavia, se le cose stessero così, gli esseri umani potrebbero essere definiti porzioni temporanee di Dio (proiezioni divine), perché tutto quel che ciascun individuo vive dal proprio punto di vista, anche Dio lo vivrebbe contemporaneamente nella sua consapevolezza. Incarnandosi in ciascun essere umano, tutti aspetti pluriformi del suo figlio unigenito, sperimenterebbe tutte le varianti vitali possibili, anche le peggiori, sopportando in prima persona ogni tribolazione e riscattando così la vita dai limiti e dagli aspetti negativi dell'esistenza. Ogni evento verrebbe visto e vissuto contemporaneamente attraverso le due interfacce: quella individualistica che solo in parte ne capisce il senso (quando lo capisce), e quella d'insieme che vive ciascun avvenimento in prima persona, quasi a voler dire: sono sempre io.

Le differenze sulla buona o cattiva sorte di ciascuno, che valutate a livello individualistico possono suonare come ingiustizie, se sono tutte vissute personalmente da Dio finiscono per acquistare ben altro significato. Infatti, se si passa dall'idea di un Dio che condanna altri a subire una qualsiasi forma di giustizia, a quella di un Dio che sperimenta su di sé per essere se stesso, allora qualsiasi itinerario personale, vissuto contemporaneamente dalle due interfacce, acquisterebbe valenza positiva. Dio Padre, che secondo la teologia tradizionale vive in prima persona (dal suo punto di vista) tutto quello che vive suo figlio Gesù, vivrebbe in prima persona anche tutte le vicende vissute da qualsiasi essere umano (da qualsiasi vivente).

È fondamento primario della fede cristiana che Dio-Padre si è incarnato sulla terra in suo figlio Gesù, cosa che verrebbe confermata anche dalla tesi che si sta delineando, secondo la quale, anzi, Dio-Padre s'incarnerebbe in tutti gli esseri viventi. La differenza starebbe nella risposta: Gesù, che ne era pienamente consapevole al punto da vivere un profondo anticipo escatologico, poteva dire: io e il Padre siamo una cosa sola. La maggior parte di noi, che siamo ben lungi da tale consapevolezza, possiamo accontentarci di quei momenti di grazia illuminante che ci consentirebbero di dire: io e il Padre abbiamo qualcosa in comune. Ma qualitativamente il risultato sarebbe alla nostra portata. Il Credo che recitiamo abitualmente definisce Gesù della stessa sostanza del Padre, e anche questo verrebbe confermato da questa visione d'insieme, secondo la quale saremmo tutti della stessa e unica sostanza esistente (la stessa unica stoffa universale), che è sostanza divina. L'incommensurabile differenza di qualità tra creatore e creature non sarebbe di tipo sostanziale ma dimensionale (spaziotemporale): dipenderebbe dai limiti individuali che rendono assai difficile comprendere la realtà (ma chi può capire capisca).

Come si può vedere, posta una premessa, le deduzioni s'incatenano poi l'una all'altra. Tentiamo perciò un ulteriore passo. Se tutta la materia dell'universo fosse composta da particelle di natura divina (che si potrebbero definire cromosomi divini), allora tutte le singolarità si esprimerebbero secondo un'evoluzione naturale analoga a quella descritta nelle classiche teorie scientifiche, e tuttavia intrise in ogni loro aspetto di potenzialità divina. Tutto quel che avviene farebbe parte di una realtà d'insieme che renderebbe significativa ogni cosa, e la volontà di Dio non sarebbe quella di stabilire come debba o dovrebbe essere ogni singolo evento, ma di porre le premesse perché qualsiasi cosa evolva in qualche modo, secondo significati positivi. Nell'unico sacroprofano dell'insieme, spirito e materia sarebbero il tessuto dell'universo, e per far sì che le singole potenzialità si esprimano non ci sarebbe bisogno di alcun disegno intelligente che provenga dall'alto: Dio, con la sua presenza distribuita dappertutto, gestirebbe se stesso offrendo a ogni aspetto limitato della realtà, a ogni sua porzione temporanea, la possibilità di ritornare a vivere il rapporto d'insieme, se vuole.

Si può dire dell'altro? Penso di si, perché un simile Dio sarebbe l'insieme di se stesso e di tutti i suoi cromosomi, sia allo stato potenziale che sviluppati, e la sua consapevolezza assoluta si offrirebbe come bacino comune utilizzabile da qualsiasi forma di vita, in particolare dall'individuo umano, che vi attingerebbe la propria porzione di coscienza limitata. Quest'insieme consapevole avrebbe comunque le caratteristiche di un essere personale, capace di interagire con se stesso e con altri, e in quanto fonte della vita sarebbe perfettamente corretto definirlo padre, madre, genitore dei suoi stessi limiti presi singolarmente, che vivrebbero in lui l'esperienza temporale di figli, sia che lo sappiano, sia che non se ne rendano conto. Inoltre, anche secondo queste ipotesi le realtà limitate avrebbero comunque tutte un difetto di origine (peccato originale) per la totale dipendenza dall'insieme, che rende loro impossibile consolidarsi in una vita autonoma. L'unica via d'uscita sarebbe la possibilità di trascendere i limiti per fondersi nell'unità d'insieme. Per questo motivo, di quelle esperienze viventi che finissero per restare prigioniere dell'individualismo, alla fine della loro parabola terrena non resterebbe nulla (che l'inferno equivalga al nulla è ormai tesi condivisa da numerosissimi teologi). Chi invece costruirà armonia sentendosi figlio dell'insieme e autenticamente fratello di tutti gli altri, parteciperebbe consapevolmente (in qualche modo) alla vita divina (paradiso). Come si può capire, i significati fondamentali della tradizionale teologia cattolica vengono confermati.

Qualsiasi individuo vissuto in un certo contesto storico/culturale, con la morte verrebbe comunque annullato per sempre. La differenza tra l'individualità che si perde nel nulla e l'individualità che si perde in Dio è che la prima, una volta morta, è come se non fosse mai esistita, mentre la seconda si completerebbe trasformandosi (la vita non è tolta ma trasformata, recita la preghiera dei defunti). In entrambi i casi l'esperienza umana sarebbe esperienza divina in terra: nel primo caso dimostrando concretamente che oltre a Dio non c'è altro che il nulla, nel secondo realizzando attraverso un percorso dinamico quello che Dio è già in essenza, confermando che solo Dio vale. La vita, che è solo divina, attraversando i limiti terreni ritornerebbe nella coscienza di Dio, suo punto d'origine. Da parte mia, se provo a personalizzare l'ipotesi mi spavento, perché il significato mi appare sconvolgente: se riuscissi a sviluppare la potenzialità divina che è dentro di me, allora entrerei anch'io nella coscienza di Dio, allora la mia coscienza limitata di oggi, ma con la stessa percezione di essere me stesso, si ritroverebbe senza limiti in Dio. Sarei sempre io, continuerei a vivere, sarei un tutt'uno con Dio, conservando la precisa consapevolezza dell'itinerario compiuto.

Per concludere, se qualcuno dei presenti mi chiedesse: credi che quanto hai esposto in questa conversazione sia verità? risponderei che me ne guardo bene. Che posso saperne, me meschino, della verità divina, che è incommensurabilmente più grande di me? Posso però dire di sentirmi irresistibilmente attratto verso l'insieme. Anzi, se dovessi fare una sintesi estrema direi che il senso di tutta la mia fede è contenuto nel primo versetto del vangelo di Giovanni, dal quale traspare che Dio è, per sua essenza, creatore e redentore a un tempo. Questa mi appare la genialità divina: trasformare sempre e comunque il male in bene, cioè riportare i limiti all'insieme.

Credo che tutto il resto (o almeno l'essenziale) possa essere interpretato e spiegato partendo da queste premesse. Credo che con la sua vita e il suo messaggio Gesù abbia manifestato il Dio dell'insieme. Credo che il cristianesimo dell'insieme sia capace di superare divisioni e contrapposizioni, per indicare la via, la verità, la vita. Grazie.