Testata sito CdB
CHIUDIVAI AL SITO

LA DEMOCRAZIA NON SI ARRESTA

Peppino Coscione   

21 marzo 2010, ore 13. 30. Dal palco allestito per la festa del Newroz (in turco Nevroz) nel campo della municipalità Baglar di Amed (in turco Diyarbakir) sul grande schermo viene  proiettata, a sorpresa, la figura di Ocalan che parla: un boato si eleva verso il cielo dal milione e mezzo di kurde e di kurdi presenti alla festa del ‘nuovo giorno’, del ‘nuovo sole’, della primavera che scaccia l’inverno: HerBiji  Serok Apo”  , Newroz Piroz be!

I dirigenti del nuovo partito filo kurdo BDP (partito della pace e della democrazia), nato dopo la dichiarazione, da parte della Corte Costituzionale turca, della illegalità del DTP (partito della società democratica), per un suo presunto fiancheggiamento con il PKK (dichiarato terrorista dagli Stati Uniti che di terrore se ne intendono  e  dall’Europa nel cui seno ben altro terrorismo è stato partorito) hanno apertamente e coraggiosamente sfidato un potere politico e militare ottuso che si ostina a non riconoscere il popolo kurdo, un popolo che continua a urlare:  edi bese!, ora basta!, nonostante che non si fermi la brutale, cieca violenza di Stato.

Ed è palpabile, concreta come un abbraccio caldo e profondo, forte come i colori giallo-rosso-verde  delle kefie indossate e sventolate al cielo, la presenza di un popolo indomito, fiero, deciso a raggiungere la meta.

L’obiettivo del governo turco è quello di distruggere il forte movimento politico  kurdo, che nel 2009 infatti è stato fatto oggetto di una feroce repressione:

-          chiusura del DTP ( partito della società democratica )

-          500 dirigenti politici ed esponenti della società civile  arrestati, tra i quali anche  l’avvocato Muharrem Erbey, vice presidente dell’Associazione turca per i diritti umani, accusato di aver parlato della questione kurda in alcune sedi istituzionali europee, tra cui Roma nell’ottobre del 2009;

-          18 esecuzioni extragiudiziali

-          177 minori condannati a 772 anni di carcere

-          18569 minori arrestati

-          140 attacchi alle sedi del DTP

-          31 giornali chiusi

-          36 giornalisti arrestati

-          12976 arresti, 39 morti e 356 feriti in manifestazioni di piazza

-          46 persone morte a causa di esplosioni o malfunzionamento di equipaggiamenti militari (fra i quali 7 bambini)

 Nella tribuna riservata a ospiti di altri paesi, si percepisce sia uno stupore per l’audace scelta di “mandare in onda Ocalan” sia la profonda empatia con questo popolo così legato ad  un condottiero, ad un politico, a colui che ha dato voce ad un popolo discriminato, emarginato, offuscato da cinici  interessi degli stessi paesi democratici.

Sono ritornato quest’anno, con mia moglie, in quei territori grazie al viaggio organizzato dall’Associazione “Verso il Kurdistan”; tramite questa associazione diamo un contributo, anche finanziario,  ad una associazione che tutela famiglie di  detenuti politici.

Questa volta l’esperienza nel Kurdistan turco la viviamo e la condividiamo con due gruppi di giovani vivaci, interessati, sensibili: uno impegnato con l’associazione “Un Ponte per” , l’altro con l’ Arci, provenienti da diverse regioni dell’Italia; ci salutiamo per la prima volta la sera di mercoledì 17 marzo all’Hotel Gran Guler di Amed.

Giovedì 18 marzo,  alle 9.30 siamo già nel Tribunale della città dove si celebra il processo contro Vedat Kursun, editore del giornale kurdo ‘Azadiya Welat’  (‘Paese della Libertà’) per il quale il pm ha chiesto 525 anni di carcere (quale somma di più accuse  conseguenti al crimine di aver  pubblicato diversi articoli apparsi sul giornale, sia quelli scritti da lui che da altri dal 2007 al 2009). Ma qui in Turchia  costituisce un crimine il solo fatto di  scrivere in kurdo, figurarsi  se  si pubblicano  riflessioni sulla situazione del popolo kurdo, sui  guerriglieri o su Ocalan detenuto nel carcere di Imrali. L’udienza dura poco, perché, dimessosi l’avvocato difensore nominato d’ufficio, il nuovo difensore, una coraggiosa avvocata donna, ha chiesto di rinviare l’udienza al 6 maggio per avere il tempo di leggere le accuse e gli incartamenti del processo.

Nel pomeriggio andiamo alla sede dove si riuniscono le Madri per la Pace; abbiamo il compito di portare una somma di danaro utile a sostenere la causa della loro Associazione ben descritta in un depliant: “Noi madri  conosciamo meglio le indicibili conseguenze della guerra che c’è stata in questi 30 anni ; una guerra nella quale sono stati distrutti 4500 villaggi, sono state uccise 50.000 persone e milioni di persone sono scappate. Noi madri per mancanza di una soluzione della questione kurda in Turchia, ci siamo messe assieme per la prima volta nel 1999; allora  eravamo 15 madri. Ora siamo 1000.  L’Iniziativa delle Madri per la Pace che abbiamo costituito è ora attiva in Diyarbakir, Van, Istanbul, Izmir, Yuksekova e Siirt.  Noi, madri di guerrigliere/i e di soldati che hanno sofferto moltissimo a causa del conflitto, noi, madri  kurde e turche che hanno perso i loro figli a causa di esecuzioni extragiudiziali e assassinii ad opera di sconosciuti, noi che abbiamo sofferto il forzato sfollamento e l’oppressione di stato, noi che vogliamo assicurare un luminoso futuro ai nostri figli, ci siamo messe assieme. L’obiettivo della nostra lotta e della nostra voce organizzata è assicurare un paese e un mondo di pace per i nostri figli/e, dove possiamo vivere tutti/e assieme senza guerre e senza sfruttamento, senza la negazione delle nostre lingue e delle nostre identità”.

Oggi incontriamo soltanto quattro donne ma due giorni dopo ritorniamo per incontrare una decina di donne ed ascoltare dalla loro viva voce il dramma dei loro mariti, dei loro fratelli, delle loro sorelle e specialmente dei loro figli, delle loro figlie, in carcere o scappate sulle montagne, entrando a far parte della guerriglia, come scelta per sfuggire alla repressione e alle minacce quotidiane. Alla domanda di una donna, che dopo aver raccontato della figlia che ha scelto la guerriglia perché non ne poteva più , ha domandato : “Voi cosa avreste fatto?”  è seguito da parte nostra  un silenzio imbarazzante, forse anche un po’pavido.

Quando non scelgono di andare sulle montagne, ragazzi e ragazze esprimono la loro indignazione contro la brutalità delle forze armate scagliando qualche pietra, innalzando la bandiera con la figura di Ocalan, facendo resistenza nelle manifestazioni e rischiando anni di carcere, soprattutto dopo le famigerate leggi antiterrorismo del 2006.

Della situazione carceraria dei ragazzi e delle ragazze, quasi tutti/e kurdi/e,  parliamo nella mattinata di venerdì 19 marzo con l’avvocatessa Canan Atabey , esperta di diritto dei minorenni e che difende più di 100 ragazzi/e. Il quadro che ci presenta è drammatico: le leggi antiterrorismo colpiscono con condanne dai 3 ai 15 anni di carcere , ragazze e ragazzi dai 12 fino ai 18 anni , condannate/i, salvo pochi casi, a vivere in carcere per adulti, con gli annessi meccanismi di segregazione, di violenze, di abusi sessuali. L’avvocata manifesta il suo rammarico per lo scarso impegno  che organismi europei ed internazionali deputati al rispetto dei diritti umani pongono per porre fine a questa situazione contro la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e della Convezione sui diritti e tutela dei minori.

Giustizia per i minori è il leitmotiv che ascoltiamo ripetere con passione anche nell’incontro che sabato 20 abbiamo con il segretario della Insan Haklari Dernegi (Associazione per i diritti umani ) e con l’avvocata che lavora con  l’Associazione per i diritti dei minori. La forza d’animo che sprigionano queste persone che lottano per la difesa dei diritti dei minori in un contesto di intenso rischio, la senti penetrare come energia che riscalda cuore e mente.

Nel tardo pomeriggio, al centro culturale della municipalità, abbiamo un incontro con alcuni  giovani che sono parte dirigente del Mesopotamia Social Forum. E’ in ballo la preparazione del Social Forum Europeo che si terrà a Istanbul dal 1 al 4 luglio, forum che concentrerà la sua attenzione ed il proprio protagonismo su: diritti collettivi, ecologia e acqua, rifugiati e migrazione interna, donne. Chiaramente la questione kurda non poteva mancare, ma con chiara intelligenza politica  hanno deciso di non dedicare seminari specifici alla questione kurda ma di inserirla all’interno dei dibattiti internazionali.

Ed è proprio il tema “ecologia ed acqua” che ci porta, lunedì 22 marzo, il giorno dopo il Newroz,  attraverso paesaggi stupendi, ad Hasankeyf sul Tigri, un villaggio unico al mondo, incastonato nella roccia,   con 12.000 anni di storia alle spalle. sorto in mezzo al grande patrimonio naturalistico del fiume Tigri.

Vi giungiamo assieme a gruppi di altra nazionalità, dopo aver superato la città-provincia  di Batman. Ci attendono  persone del posto che ci coinvolgono in balli ritmici accompagnati da tamburelli, che rimandano a tempi antichi.

 Dal 1978  Hasankeyf è un sito archeologico di primo grado ed è diventato un simbolo del patrimonio storico dell’Anatolia Sud-orientale, soprattutto da quando il progetto di costruzione della diga Ilisu, la più costosa delle 22 dighe che il governo vuole costruire sul Tigri e sull’Eufrate (il cosiddetto Progetto dell’Anatolia meridionale) ha messo in moto un movimento tale da convincere le agenzie per l’esportazione del credito di Germania, Austria e Svizzera a ritirarsi dal finanziamento dell’opera.

Il governo insiste sorvolando sulle disastrose conseguenze interne (la sommersione del sito archeologico, la deportazione di circa 5 mila persone, la devastazione dell’ambiente ) ed esterne ( il controllo delle acque del fiume Tigri che lungo il suo corso attraversa  parte del territorio della Siria e dell’Irak).

Siamo venute/i qui per compiere un gesto simbolico che sta ad esprimere la nostra condivisione alla lotta di un vasto movimento internazionale; piantiamo degli alberi lungo la riva del fiume, nell’auspicio che essi diventino custodi di una memoria piena si sapienza.

Ci rimane un po’ di tempo per conoscere l’antico borgo, per godere, dal nuovo ponte, di una bella vista sull’abitato, che conserva nella parte bassa moschee in degrado ma testimoni di un passato pieno di vita,  e sull’antico ponte a quattro arcate, costruito agli inizi del II secolo, di cui oggi rimangono le enormi pilastrate in mezzo al fiume.

Sono il passato e il presente di un territorio e di un popolo alla ricerca di una forma di vita che coniughi tradizione e modernità in una convivenza che superi ogni  discriminazione, etnicismo,  integralismo politico e religioso: è l’augurio ma anche la convinzione con cui martedì 23 marzo lasciamo il Kurdistan per rientrare in Italia.

Peppino Coscione