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QUALITÀ DELLA VITA E QUALITÀ DELLA FEDE

Una medicina responsabilmente laica per credenti che di “sacro” hanno solo il rispetto degli altri.

 

Le comunità cristiane di base, come tanti cittadini responsabili, credenti o meno, si sono sentite interpellate dal dibattito in corso nel paese sui temi della vita e della morte; come cristiani ci sentiamo particolarmente interrogati circa i principi etici scelti per interpretare la realtà attuale, alla luce e con gli stimoli che ci vengono dal confronto con il Vangelo di Gesù. Per questo proponiamo alcune nostre riflessioni.

Innanzitutto va ricordato come il caso di Eluana sia stato ampiamente strumentalizzato e stravolto dall’uso che ne hanno fatto il vaticano e la destra: non si trattava infatti di una condizione vitale da interrompere, come è stato detto o lasciato credere, ma di uno stato di coma permanente, con perdita di ogni funzione cerebrale; la sentenza della Cassazione aveva imposto di verificare l’esistenza di due condizioni essenziali: la reale volontà espressa in precedenza dalla ragazza e l’effettiva irreversibilità della sua condizione. Dalla verifica di queste due condizioni che è scaturita la possibilità di interrompere le cure che tenevano in vita artificialmente, con grande dispendio di supporti medici sofisticati, solo un corpo biologico.

Dalla semplificazione e dalla distorsione delle informazioni su questa complessità sono nate parole terribili, come definire “omicidio” l’interruzione di quelle cure, o espressioni deformanti quali “l’idratazione e l’alimentazione non si negano a nessuno”, che poi hanno fanno da sostegno ideologico alla legge approvata dal senato. Con questi pretesti si sta giungendo ad una situazione nella quale saranno prolungate oltremisura le sofferenze ad ogni malato terminale che non sia in grado di rifiutarle esplicitamente, ignorando anche le volontà eventualmente espresse in precedenza, attraverso le procedure del consenso informato, ed ostacolando il processo di accettazione della morte anche quanto tale evento diventa imminente ed ineluttabile.

In questo dibattito hanno una grave responsabilità i vertici del cattolicesimo, soprattutto se pretendono di interpretare la volontà o la fede di tutti i credenti. E’ proprio su questi aspetti che vogliamo e dobbiamo intervenire.

Intendere la vita quale “dono di Dio” non significa dichiarare che essa sia proprietà di Dio: nelle scritture vi è un invito a vivere la vita con pienezza, con attenzione ai valori, all’etica, assumendosi responsabilmente la cura dell’altro, seguendo la prassi di Gesù; l’indicazione è quella di vivere la vita senza dilapidarla in frivolezze o dedicandosi alla ricerca del potere o della ricchezza. Soprattutto ritorna nei testi biblici l’ammonimento a non cercare attraverso di essi l’immortalità, che è attributo solo di Dio; il messaggio è quello che la vita non è proprietà dell’uomo, ma fa parte della creazione, e per questo va vissuta responsabilmente.

Il mito della creazione, nella Genesi, rimanda al fatto che l’umanità, assumendo e riconoscendo la sua vocazione alla consapevolezza (espressa nell’immagine dell’assaggiare i  frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male), entra autonomamente in un percorso che sarà insieme scientifico e culturale, del quale mantiene evidentemente la responsabilità. L’invito che Dio ci fa è costantemente quello di mantenere fermo in tutto questo il principio dell’amore, espresso nella forma del non idolatrare altri dei (la ricchezza, il potere, ma certo anche l’immortalità).

Anche Gesù poi ci esorta a vivere la vita con pienezza: “Non vi affannate per la vita” (Mt 6,25); “chi perde la propria vita la troverà” (Mt 19,39 e 16,25); “chi di voi con tutte le sue preoccupazioni può vivere un giorno in più di quello stabilito?” (Lc 12,25): tutto il suo messaggio invita alla ricerca dei valori veri (visualizzati nelle immagini del tesoro nel campo, la casa sulla roccia, le vere ricchezze,…) ricordandoci che ciò per cui vale la pena vivere è l’amore per gli altri.

Anche nel vangelo di Giovanni poi troviamo parole come: “Io sono venuto perché abbiate la vita” (10,10); “In lui era la vita” (1,4); “Io sono la via, la verità e la vita” (14,6) le quali, ricordando che il riferimento alla persona di Gesù intendeva riferirsi al suo messaggio di amore, escludono anch’esse un’interpretazione della vita biologica come valore in se stessa. Tutto il vangelo ci parla della vita come possibilità, responsabilità, prodotto dell’amore creaturale di Dio e quindi invito alla relazione, nella centralità dell’amore per gli altri, privilegiando gli ultimi, verso la realizzazione della vocazione di apertura, propria dell’umanità. 

Mai si trova invece il concetto di sacralità della vita, né di obbligo a viverla in un certo modo (perfino il sabato, il tempo sacro dedicato a Dio, è fatto per l’uomo); tantomeno si trova nel vangelo l’imposizione a conservare la vita come una reliquia sacra.

Del resto, il sacro non è nemmeno un concetto biblico (così come il sacramento). Nella Scrittura troviamo il Santo che significa separato, distinto, e che è solo riferito a Dio: il concetto ci ricorda che solo Lui non dipende da altri, ed è perfetto in sé (potremmo tradurlo con assoluto, ab-solutus: sciolto da). C’è il concetto del sangue come simbolo della vita stessa, con tutto il rispetto che esso merita (da cui tutte le norme in caso di contatto con esso). Forte è soprattutto nella Bibbia l’idea del non uccidere: prima in Genesi 9, la legge noachica (chi uccide un uomo verrà ucciso dall’uomo); poi in Es 20,13 (i dieci comandamenti mosaici); ma anche in Lv 24: occhio per occhio, … (la cosiddetta legge del taglione, in realtà un esempio di moderazione e di proporzionalità attuale ancora oggi!). Mai si trova nel testo biblico l’idea della sacralità della vita in se stessa. 

Al contrario, Gesù ha lottato tenacemente proprio contro le strutture (concrete e mentali) del sacro, come espressione dell’alienazione dell’umanità da se stessa e controllo delle coscienze da parte del potere. Si è scagliato contro le strutture del Tempio e della casta sacerdotale, con le sue leggi fatte non per interpretare la proposta di Dio ma per controllare ed opprimere le coscienze. In questo il potere ecclesiastico di ogni tempo è sempre stato abile nell’utilizzare la paura di tutti verso la morte, alimentando superstizioni e terrore invece di predicare la buona novella dell’amore di Dio. 

Pensiamo quindi che il vangelo ci inviti a compiere un percorso personale e collettivo rivolto da un lato alla liberazione interiore ed alla ricerca del benessere con se stessi, accettando anche la morte del corpo come uno dei limiti intrinseci alla condizione umana; ma dall’altro indirizzato soprattutto all’assunzione dell’amore come regola di vita e di relazione: l’attenzione all’altro, la rimozione delle disuguaglianze, la lotta contro l’emarginazione, il privilegiare i poveri e la rinuncia alla ricerca del potere e della ricchezza.

Nell’attualità del dibattito sul testamento biologico oggi ciò comporta:

- Il rifiuto di una concezione biologica della vita, che evidentemente è molto più complessa e costituita da relazioni, coscienza, scelte, etica, progetti…

- L’accettazione di una condizione umana dove la morte sia la naturale conclusione di un ciclo vitale, da non demonizzare né vivere con angoscia. Quando nel vangelo si dice che Gesù ha vinto la morte, non si afferma un concetto biologico di immortalità, ma la scoperta della possibilità di un senso pieno e positivo, anche in un’esistenza naturalmente connotata da limiti temporali e spaziali, se la vita viene vissuta al cospetto di Dio (cioè con i valori ai quali Gesù ci chiama).

- Il rifiuto quindi di una medicina che oggi sembra lottare non solo per migliorare le condizioni umane, ma spesso per prolungare ad ogni costo, in qualunque condizione, una vita sempre più solo biologica, in condizioni a volte disumane nelle quali la complessità esistenziale della persona è ridotta al mero stato biologico. Al contrario, facciamo nostro l’invito a riconoscere risorse e mezzi alla medicina palliativa ed a tutte le misure sanitarie e psicologiche di sostegno ed accompagnamento ai morenti e di alleviamento per quanto possibile di ogni sofferenza.