Dal sommario del n. 4/2007 di Micromega

Che fine hanno fatto i cattolici democratici?

interventi di:

Mauro Pesce / Paolo Prodi / Alberto Melloni / Giovanni Franzoni / Renato Balduzzi / Aldo

Maria Valli / Vittorio Bellavite / Marcello Vigli / Mario Motta / Ettore Masina / Domenico Rosati

 


Marcello Vigli

Il problema è il Concordato

Micromega n. 4/2007

 

Per riflettere sulla situazione e sulle prospettive del cattolicesimo in Italia è bene ricordare che tutte le religioni e le strutture che ne organizzano i fedeli sono dialetticamente integrate nelle società e nelle culture dei paesi nelle quali si esprimono. Questa regola vale anche per la Chiesa cattolica romana pur se il suo assetto istituzionale, che ha una valenza tutta particolare nella sua struttura complessa e articolata, rende meno permeabile la sua identità.

Nessun’altra religione al mondo ha una struttura centralizzata e gerarchizzata come la sua e nessun capo religioso ha rappresentatività e potere morale pari a quelli del sommo pontefice romano. Irriverente e del tutto inadeguata, ma funzionale, è l’immagine di multinazionale che le è stata attribuita. Dotata di oltre tremila diocesi, vere e proprie sedi locali prive di reale autonomia, di oltre 400 mila funzionari fortemente motivati e sostanzialmente obbedienti, ispira cultura e comportamenti di oltre un miliardo di persone di diversa condizione sociale e culturale sparse in tutto il mondo, organizzate in gruppi e movimenti fortemente radicati sul territorio. Ha rappresentanze diplomatiche in quasi tutti gli Stati del pianeta e un ruolo internazionale confermato dallo status particolare attribuito al suo rappresentante permanente presso l’Onu.

L’essere sede di questa centrale internazionale di potere ha pesato non poco sulla Chiesa italiana e continua a condizionare la sua vita interna – il papa è primate d’Italia e conserva il diritto di nomina del presidente della Conferenza episcopale scelto, invece, negli altri paesi dall’episcopato locale – e i suoi rapporti con lo Stato. Questo, responsabile con la sua formazione unitaria della fine del potere temporale, è considerato dalla curia romana come sostituto del vecchio Stato pontificio e da certi settori del clero e dell’integralismo cattolico come usurpatore. Ne è conferma la permanenza di tendenze revisionistiche che mettono in discussione la narrazione storica del Risorgimento.

Di questi condizionamenti si nutrono le profonde lacerazioni fra fanatici clericali e intransigenti anticlericali, che non coinvolgono in verità la maggioranza del paese, ma forse contribuiscono a spiegare la rapida obsolescenza della primavera conciliare. In verità la crisi del vivace movimento, nato al suo interno e non riducibile a quello che si è usi chiamare dissenso, è legata al venir meno delle condizioni che lo rese possibile.

Sono oggi un lontano ricordo le radicali e conflittuali trasformazioni sociali e politiche che accompagnarono l’accelerato sviluppo economico nell’ambito dell’allentamento della tensione mondiale nella breve stagione aperta da Kennedy e Chrusˇcˇëv. Fu in quel contesto che l’evento Concilio Vaticano II si trasformò in occasione di svolta teologica, pastorale, istituzionale per una Chiesa cattolica ingessata dai vincoli dell’antimodernismo e dell’autoritarismo modellato sui regimi dittatoriali erroneamente considerati da Pio XI e Pio XII l’epilogo della versione democratica dello Stato moderno. Tale svolta, pur scritta in alcuni testi conciliari, fu soprattutto evidente nello spirito nuovo nato nell’assemblea dei tremila padri che per quattro anni furono capaci di neutralizzare le manovre della curia e dei settori conservatori del cattolicesimo mondiale e di portare la Chiesa cattolica alla pace con la modernità. A questo spirito e alla riforma liturgica, la prima di quelle avviate dal Concilio, si deve la promozione in Italia del clima favorevole alla partecipazione attiva dei fedeli alla vita della comunità ecclesiale e la sua apertura alle tematiche e alle prassi già da tempo presenti in altre chiese d’Europa e dell’America Latina.

Pochi all’interno di questo ampio movimento e fra gli stessi gruppi del dissenso colsero, però, l’esigenza di impegnarsi, anche, nella lotta contro il regime concordatario e di non ridursi solamente a proporre nuove forme di partecipazione, a moltiplicare le forme di presenza sociale o, peggio, a coinvolgersi in diatribe teologiche e sterili polemiche antistituzionali. Nato con i Patti lateranensi, legittimato, dopo l’avvento della Repubblica, con l’articolo 7 della Costituzione, messo in discussione dalla spinta del rinnovamento democratico degli anni Sessanta e dagli esiti, disastrosi per la gerarchia ecclesiastica, del referendum del 1974 per abrogare la legge sul divorzio, è stato sottoposto a «revisione» nel 1984 con la firma di nuovi accordi fra la Santa Sede e il governo di Bettino Craxi. Il nuovo Concordato si è limitato ad aggiornare e per certi versi ad aggravare il regime di privilegi e di compromissioni presenti in quello mussoliniano. I parlamentari cattolici della sinistra indipendente furono lasciati soli dai cattolici «democratici» di tutti gli altri partiti a opporsi in parlamento alla sua approvazione.

In questo nuovo patto, in verità, ha le sue radici il male oscuro che ha portato la vivace Chiesa del post-Concilio all’attuale condizione di silenzio e di subalternità, all’ombra del pontificato di Giovanni Paolo II.

Con esso la Conferenza episcopale, diventata il diretto referente del governo in rappresentanza dei cattolici italiani, è stata dotata di un finanziamento statale che la rende autosufficiente dal contributo dei fedeli, chiamati solo a destinare alla loro Chiesa l’otto per mille dell’intero gettito dell’imposta sulle persone fisiche. Le risorse che ne derivano alla Cei – anche grazie alla ridistribuzione percentuale della parte su cui non sono state espresse opzioni – consentono alla sua presidenza di controllare le attività culturali, gli strumenti d’informazione e le strutture formative, scolastiche e universitarie del mondo cattolico, riducendone notevolmente gli spazi di libertà. Gli effetti sono apparsi evidenti nei vent’anni di gestione del cardinale Camillo Ruini, prima da segretario poi da presidente.

Fedele interprete dell’esortazione di papa Giovanni Paolo II, che all’indomani del sua elezione aveva invitato l’episcopato ad assumere direttamente la rappresentazione politica dei cattolici ritirando l’implicita delega fino ad allora data alla Dc, ormai sulla via del tramonto, ha messo a frutto la funzione riconosciuta dal nuovo Concordato facendo della Cei un soggetto politico e soffocando progressivamente ogni autonoma espressione della comunità ecclesiale. Le associazioni tradizionali sono totalmente private della loro autonomia: coinvolte nella campagna astensionista nel referendum abrogativo della legge 40, sono state imbrigliate nel comitato promotore del Family day candidato a restare una permanente struttura di collegamento. I teodem della Margherita sono diventati il modello dei cattolici impegnati in politica desiderosi di godere dei favori della gerarchia. Dagli spalti di questa fortezza assediata la gerarchia dialoga volentieri con gli atei devoti mentre demonizza ogni voce critica e lancia anatemi contro i laici «relativisti».

In questo contesto si colloca l’interrogativo sulla possibilità che torni a fiorire una nuova primavera conciliare in assenza di una prospettiva di rinnovamento della società italiana e della situazione internazionale che avevano favorito la precedente.

Oggi, quanti auspicano una radicale riforma, indispensabile perché la Chiesa in Italia sia pronta ad inserirsi nel processo di rinnovamento della società e, al tempo stesso, possa contribuire ad esso, devono trarre frutto dai fallimenti del passato liberandosi innanzitutto dalla convinzione che «cattolico» possa essere una categoria «culturale» e, tanto meno, «politica»: chi l’assume resta alla mercè di chi dell’identità cattolica si proclama supremo interprete. Che può facilmente sconfessarlo o marginalizzarlo.

Devono, pertanto, impegnarsi a fare i conti fino in fondo con la laicità, cosa che i cattolici conciliari fin qui non hanno fatto, restando invischiati in ambigue contraddizioni fra laicità e laicismo alla ricerca di una «buona» laicità» in nome della quale mercanteggiare sulle competenze della Chiesa e dello Stato reso pluriconfessionale, ispirato non al principio della laicità ma del comunitarismo: dello status privilegiato della religione sarebbero partecipi le altre confessioni, magari anche i musulmani moderati.

Devono coinvolgersi, invece, nella ricerca di una nuova cultura della laicità adatta all’era della planetarizzazione della convivenza umana, che impone il ridimensionamento non solo del predominio politico dell’occidente, ma anche dell’egemonia della sua cultura. Di questa è necessario salvare il patrimonio di princìpi e di valori posti a fondamento della modernità, premessa indispensabile per garantire un esito democratico agli sviluppi della modernizzazione scientifica e tecnologica e per salvare dai rischi dell’uso dissennato e consumistico delle loro conquiste i sei miliardi di abitanti del pianeta. Nel patrimonio genetico della modernità c’è il frutto dell’innesto del messaggio evangelico sulla cultura mediterranea che ha fra i suoi frutti il secolo dei Lumi e con esso la chiave di volta del sistema di valori universali tradotti in diritti dell’uomo, ieri bianco, maschio borghese, ricco, occidentale, oggi, anche donna, colorato, proletario, povero… planetario. Questo frutto si chiama laicità che, al di là della secolarizzazione, riscopre la religione come una delle forme, accanto alle ideologie, con cui donne e uomini, etnie e popoli si rappresentano e progettano il loro futuro, ma al tempo stesso non ne privilegia nessuna in nome dell’origine storica di tutte le verità. Laicità significa riconoscere l’autonomia dell’umano come cifra della modernità e della democrazia nel quadro della storicità della dimensione umana che rende parziale ogni verità pur se vissuta come assoluta, l’accettazione dell’altro e del diverso non ridotta a tolleranza, il riconoscimento del primato del pubblico sul privato da realizzare anche a livello planetario.

La laicità diventa così il fondamento di una nuova koiné culturale capace di consentire reale dialogo e autentico confronto tra le diverse narrazioni «religiose» o «ideologiche» che animano etnie e popoli emergenti dalla marginalità o che accompagnano nel loro declino le nazioni fin qui protagoniste della storia mondiale.

Per i cattolici di «buona volontà» questo modo di ripensare la laicità impone una radicale revisione del modo di costruire la Chiesa, nel difficile rapporto fra istituzione e profezia, e di fare teologia a partire dalla consapevolezza che l’una e l’altra sono nate nella storia assumendo strutture e categorie dalle società nelle quali vivevano le donne e gli uomini che avevano accolto l’annuncio di salvezza.

L’assenza di tale consapevolezza indusse i custodi del tempio a imporre come verità vincolanti le tesi risultate vincenti nelle controversie teologiche su tutte le altre nei primi concili rendendo impossibile ogni successiva inculturazione e aggiornamento. Ne sono derivate, fra l’altro, da un lato la legittimazione del genocidio culturale degli indios sudamericani e la condanna dei «riti cinesi», dall’altro, la trasformazione in sanguinose guerre di religione dei conflitti per l’egemonia nell’Europa del XVI secolo nutrendoli di diatribe teologiche, su questioni di cui oggi si fa fatica a cogliere il significato.

Da questa consapevolezza devono, invece, muovere i cristiani per costruire una «Chiesa altra» capace di evangelizzare oggi e contribuendo al tempo stesso a promuovere la declericalizzazione di «questa Chiesa». Alla prima non servono grandi elaborazioni teologiche o impossibili bagni di folla, ma la prassi dei preti e laici impegnati non a costruire nuovo associazionismo «cattolico» ma a contaminarsi con altre donne e uomini di «buona volontà» nel movimento per la pace nella rete Lilliput, nella lotta contro la mafia nell’Associazione Libera e con chi si batte per la laicità della scuola o per l’approvazione di Dico.

Per declericalizzare la Chiesa della Cei bisogna contribuire a privarla degli strumenti di potere e delle rendite di posizione garantite dal regime concordatario che consentono alla sua gerarchia di costringere i fedeli, preti e laici, a vivere la contraddizione di essere «sudditi» nella comunità ecclesiale e «cittadini» nella società civile.

Due secoli fa, paradossalmente, al rinnovamento della Chiesa giovò più delle tesi giobertiane o delle timide denunce rosminiane delle sue cinque piaghe, il coraggio di Giuseppe Siccardi, nel promuovere leggi contro lo statuto privilegiato dei chierici, e di Alessandro Manzoni, reo di aver votato per Roma capitale, che rischiarono e patirono la scomunica.