CREDENTI NEL TEMPO DELLA GLOBALIZZAZIONE

di Franco Giampiccoli

 

 

Nel tempo ovviamente contenuto previsto per questo intervento, vorrei limitarmi a tre accenni alla globalizzazione, basati su altrettante citazioni, per poi passare al tema della responsabilità dei credenti nell’ambito della globalizzazione.

 

1. La globalizzazione della distruzione ambientale.

Si sta svolgendo in questi giorni a Milano la nona Conferenza delle Parti indetta dall’ONU sul tema del Cambiamento climatico, all’insegna dello stallo, se non del fallimento. Lester R. Brown riporta delle cifre impressionanti sui costi che il cambiamento climatico comporta e ancor più comporterà nel futuro. Ma la citazione che voglio fare dal suo libro Eco-Economy non è specificamente sul problema della distruzione dell’atmosfera, quanto su una visuale generale del danno ambientale per ciò che concerne i 4 ecosistemi fondamentali: colture, pascoli, foreste e pesca.

 

All’inizio del XXI secolo, la nostra economia sta distruggendo i sistemi che la sostengono e dilapidando le risorse che costituiscono il suo capitale naturale. Le domande dell’espansione economica, così come sono strutturate oggi, stanno superando le capacità produttive degli ecosistemi. Un terzo delle terre coltivate è soggetto a erosione, a una velocità tale da diminuire la produttività a lungo termine; una buona metà dei pascoli della terra è troppo sfruttata e si sta trasformando in aree desertiche; dagli albori dell’agricoltura le foreste del mondo si sono ridotte di circa la metà e continuano a ridursi; due terzi delle aree di pesca oceaniche sono sfruttate al limite o oltre la propria capacità, in una logica che vede già come regola, e non eccezione, il depauperamento delle risorse ittiche. E il sovrasfruttamento delle acque sotterranee è la norma nei paesi chiave per la produzione alimentare[1].

 

In sintesi l’avvertimento di Brow è questo: dal 1950 al 2000 l’economia è cresciuta di 7 volte, ma nel frattempo i danni ambientali sono arrivati al limite: ci stiamo mangiando il capitale naturale; non gli interessi, bensì il capitale stesso.

 

2. La globalizzazione della violenza.

Ricordo l’ansia con cui negli anni ’70, tornando a casa dopo una giornata di lavoro, passavo davanti all’edicola guardando se un’edizione straordinaria annunciava qualche nuovo fatto di sangue. Si viveva un’esclation della violenza terroristica, ma nell’ambito di un paese. Oggi, quando la sera accendiamo il televisore, la stessa ansia-timore di qualche nuovo attentato riguarda non un paese ma il mondo intero. C’è poi il pendant del terrorismo, la guerra. Non entro nella discussione se sia nato prima il terrorismo o la guerra. Mi limito ad osservare che la guerra, lungi dall’essere un adeguato strumento di depotenziamento del terrorismo, si è manifestata come strumento di potenziamento del terrorismo. L’immagine che, sia pure in modo estremo, descrive questo rapporto è stata formulata: cercare di soffocare il terrorismo con la guerra è come cercare di spegnere il fuoco con la benzina. E allora, sul retroterra di questa violenza, ecco un’autorevole citazione:

 

Tale progetto [il progetto di dominio mondiale della destra radicale degli Stati Uniti], con l’indizione della guerra perpetua, ha rovesciato il principio pacificsta della Carta dell’ONU; con la teorizzazione della guerra preventiva ha istituito una motivazione universale per qualsiasi guerra cancellando la vecchia necessità di una sua legittimazione almeno politica e morale; con l’assimilazione al terrorismo di ogni nemico ha negato qualsiasi giusta causa altrui…;  con la negazione ai nemici catturati dello status di prigionieri di guerra ha ricusato il diritto umanitario di guerra; con l’assolutizzazione della sicurezza nazionale per un solo Paese, gli Stati Uniti, l’ha tolta a tutti gli altri…; con la rivendicazione della superiorità della potenza americana su ogni altra potenza presente o futura, ha negato in via di principio ogni altra sovranità. Insomma, ha tolto al mondo il diritto, quello già edito, e ha sterilizzato le forze creative di nuovo diritto, dal trattato di Kyoto al controllo degli armamenti, al regime delle risorse e del debito, al Tribunale penale internazionale, eleggendo ad arbitra la forza e a norma universale l’interesse particolare del più forte[2].

 

Nella globalizzazione della violenza c’è un ruolo non unico, ma preponderante, di questo governo degli Stati Uniti; non del popolo statunitense, ma del suo governo attuale.

 

3. La globalizzazione economica.

L’economia neoliberista è il motore della globalizzazione. Non qualsiasi economia, ma il neoliberismo fondato, a partire dagli anni ’80, sul Consensus di Washington con il suo triplice dogma che impone di liberalizzare, privatizzare e deregolamentare. La ricetta di questo Consensus propugnata dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca mondiale e dal Tesoro degli Stati Uniti, è stata applicata in modo miope e unilaterale ai paesi del III Mondo in crisi con risultati disastrosi. La Conferenza ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Cancun, Messico, settembre 2003) ha messo in luce non solo la straordinaria rivolta dei paesi più o meno poveri, ma il motivo di questa rivolta: si tratta della ribellione nei confronti della pretesa di Stati Uniti e Unione europea di esigere la liberalizzazione dei mercati del III Mondo esercitando nello stesso tempo il protezionismo dei propri mediante sussidi governativi o comunitari, ciò che permette di eliminare la concorrenza dei mercati più deboli. Questo nella pratica. Nella teoria vengono smerciate ottimistiche metafore che parlano di un trasferimento di vantaggi economici dai ricchi ai poveri: lo “sgocciolamento” dei beni della società opulenta sulla terra arida dei poveri, o la crescita che avvantaggia tutti perché “l’alta marea solleva tutte le barche”. Ecco come valuta queste teoria Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, che fu a capo del gruppo di consulenti economici del governo Clinton e fu vice-presidente della Banca mondiale prima di abbandonarla per dissidi sulla linea politica di quell’istituzione:

 

Le politiche del Washington Consensus hanno prestato scarsa attenzione ai temi della distribuzione e dell’equità. Messi sotto pressione, molti suoi fautori sosterrebbero che il modo migliore per aiutare i poveri è favorire la crescita dell’economia. Essi credono nell’economia del trickle down o “permeabile”, quella cioè che goccia a goccia, dovrebbe prima o poi far arrivare i vantaggi della crescita anche ai poveri. La teoria economica del tricke down non è mai stata molto più di una credenza, un articolo di fede. Nell’Inghilterra del XIX secolo, l’indigenza appariva in aumento anche se, nel complesso, il paese prosperava. La crescita degli anni Ottanta in America ci fornisce l’esempio drammatico più recente: in pieno progresso economico, i più poveri hanno visto ridursi ulteriormente i loro redditi reali. L’amministrazione Clinton si è battuta strenuamente contro l’economia del trickle down in quanto riteneva che per aiutare i poveri si dovessero realizzare dei programmi attivi. E quando lasciai la Casa Bianca per andare alla Banca mondiale, portai con me lo stesso scetticismo nei confronti di questo tipo di politica: se non aveva funzionato negli Stati Uniti, perché mai avrebbe dovuto funzionare nei paesi in via di sviluppo? Se da una parte è vero che non è possibile ridurre in modo significativo la povertà senza una crescita economica sostenuta, non è vero l’opposto: non è detto che la crescita vada a vantaggio di tutti. Non è vero che “l’alta marea solleva tutte le barche”. Talvolta un’alta marea improvvisa, specialmente se accompagnata da una tempesta, può scaraventare a terra le barche più deboli, rompendole in mille pezzi[3].

 

 

Questa immagine espressiva riassume l’analisi dettagliata che Stiglitz fa della disastrosa applicazione della ricetta neoliberista applicata a crisi molto diverse come quelle dei paesi dell’America latina, dell’Africa o delle “Tigri asiatiche”.

 

CREDENTI nel tempo della globalizzazione.

 

La responsabilità dei credenti si colloca lungo un percorso di scoperta di nuovi orizzonti. Per i credenti evangelici questo percorso ha conosciuto una svolta nel 1997, all’Assemblea dell’Alleanza Riformata Mondiale a Debrecen, Ungheria, dove una sfida è stata lanciata alle chiese facenti parte di questa famiglia confessionale: condurre una coscientizzazione tesa verso uno status confessionis, uno di quei momenti storici in cui la chiesa è chiamata a confessare Gesù Cristo nel concreto, in situazioni in cui bisogna dire “sì” o “no” senza possibilità di vie di mezzo, scegliendo la fedeltà o l’infedeltà all’evangelo: come al tempo del nazismo in Germania, come al tempo dell’apartheid in Sud Africa. Così è necessario arrivare a dire un chiaro “no” di fronte all’ingiustizia economica e alla distruzione del creato[4].

Da questo percorso sintetizzo due critiche, una teologica e una etica.

 

Critica teologica. Il neoliberismo è un’ideologia nel senso peggiore di questa parola: una costruzione fideistica che serve a mascherare – e perciò a perpetuare – una situazione di ingiustizia e di oppressione. La maschera di questa ideologia è la pretesa neutralità e immodificabilità delle leggi di mercato considerate alla stregua di leggi naturali, come la sequenza delle stagioni. Alla globalizzazione, affermano i fautori del Washington Consensus, “non c’è alternativa”[5]. E’ necessario invece smascherare questa pretesa immutabilità e oggettività, perché il mercato reagisce in base agli input che riceve, che gli vengono immessi da chi ha in mano le leve del potere.

Il neoliberismo è ancor più una nuova idolatria. L’ideologia del mercato come risolutore, alla lunga, di tutti i mali è sostanzialmente idolatria: quando qualcosa o qualcuno della sfera umana pretende assolutezza (regole immutabili, assolute), richiede sacrifici (necessari nel breve tempo in vista della soluzione) e promette salvezza (l’ingresso nel club dei paesi sviluppati), cos’altro è se non un idolo che sollecita adorazione e ubbidienza? “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il tuo culto”, risponde Gesù al tentatore che gli promette “tutti i regni del mondo e la loro gloria” (Matteo 4,1-11) in cambio di adorazione e cioè dell’accettazione dei suoi due precetti che sono la caricatura dei due comandamenti che formano il sommario della Legge.

“Ama Mammona con tutta la tua forza”, questo è il principio del neoliberismo. In termini non religiosi: persegui con ogni mezzo la massimizzazione del profitto.

“Ama te stesso e così amerai il tuo prossimo”, è l’insidiosa insinuazione dell’ideologia neoliberista. Così infatti si esprimono senza mezzi termini i credenti sudamericani in un documento del Consiglio delle Chiese dell’America Latina, CLAI, distillando l’esperienza del neoliberismo che hanno vissuto nel disastro argentino e di tutto il loro continente:

 

Il neoliberismo è un fondamentalismo del mercato, ed è in fin dei conti un’idolatria del mercato dal momento che nutre una fede cieca nel fatto che il mercato renderebbe possibile la vita sociale e il progresso di tutti. Esso opera in un modo misterioso e paradossale, che potrebbe essere riassunto nella formula:”il miglior modo di aiutare un vicino è quello di ricercare il tuo proprio interesse, di essere un buon competitore e di offrire un buon prodotto di qualità ed efficienza”. Nel mercato, il miglior modo per promuovere l’altruismo passa attraverso l’egoismo. Più ami te stesso e soltanto te stesso, più aiuterai tutto gli altri, anche senza saperlo, grazie al mercato[6].

 

Una caricatura? Non tanto: basta pensare allo spot televisivo dell’ “acquirente ringraziato”, da tutti quelli che incontra dopo aver compiuto l’atto altruistico di un acquisto personale, vera e propria liturgia dell’atto di culto neoliberista che ci viene proposto seriamente e ripetutamente.

 

Critica etica.

Con questa citazione siamo già nel campo della critica etica. Oltre alle teorie dello “sgocciolamento” e dell’alta marea, un’altra immagine ideologica viene spesso usata ed è percepibile nella descrizione che il documento del CLAI fa della teoria neoliberista: è quella della “mano invisibile” che combinerebbe in una misteriosa armonia del mercato gli interessi di tutti gli operatori del mercato stesso. Come è noto l’immagine risale a Adam Smith, il fondatore del liberismo economico: ne “La ricchezza delle nazioni”, pubblicato nella seconda metà del ‘700, Smith menziona il caso dell’equilibrio del mercato che si può verificare SE gli agenti sono uguali nelle potenzialità economiche e ugualmente informati sulle offerte del mercato. Già queste condizioni mostrano quanto sia menzognera l’applicazione della metafora ad un mercato totalmente squilibrato, tra nord e sud, quanto a potenzialità economiche e informazioni.

Ma c’è di più. A. Smith, che nell’opera menzionata si serve una sola volta della metafora della mano invisibile, dedica invece 400 pagine di un’altra sua opera, molto meno conosciuta, intitolata “La teoria dei sentimenti morali”, al contesto etico in cui deve funzionare il mercato. L’uomo è un essere socievole, dice Smith, che ricerca accettazione di sé e approvazione del proprio operato da parte degli altri; e ciò non può avvenire se non nel rispetto di un insieme di regole etiche da tutti condiviso e da cui la finalità del bene comune non può essere cancellata.

Il neoliberismo è totalmente estraneo a questa impostazione. Per questo ritengo giusto parlare di neoliberismo in modo distinto dal liberismo storico. Il neoliberismo infatti conosce una sola finalità ben al di sopra del bene comune: la massimizzazione del profitto; mentre i suoi animal spirits non conoscono alcun freno dando luogo ad un egoismo che viene perfino teorizzato come veicolo dell’altruismo. Ben diverso il liberismo che vedeva nella subordinazione al bene comune l’unica giustificazione del perseguimento dell’interesse individuale.

Dov’è l’etica nel tempo della globalizzazione? Viene ritenuta irrilevante, ci avverte Giuliano Amato[7], dai moderni manager che riconoscono una sola responsabilità morale nell’ambito del loro lavoro, quella di garantire profitto agli azionisti della loro impresa. O non ha alcun posto, replica Umberto Galimberti[8]: dato che il denaro non è più un mezzo ma è diventato fine, esso monopolizza il “pensiero calcolante” come pensiero unico; l’etica è un pensiero altro rispetto a quello economico e quindi non ha alcuno spazio. Che si tratti della pretesa di una sorta di “immunità etica”, o di una constatazione della totale estraneità dell’etica dal mondo dell’economia globale, siamo di fronte ad una poderosa spinta ad evacuare la presenza ingombrante dell’etica. La reazione dei credenti non può che essere una obiezione di coscienza nel rifiuto di adeguarsi a questa impostazione dilagante.

 

Che fare?

E’ chiaro che la critica in negativo non è sufficiente e che è necessario andare al di là di questa. In positivo, in che cosa consiste la vocazione dei credenti nel tempo della globalizzazione?

Anzitutto, con umiltà, significa prender contatto diretto con il “movimento dei movimenti”, il popolo alter global[9] molto variegato, che nel suo insieme sta producendo risposte parziali, spezzoni di un progetto alternativo.

Significa anche informarsi, studiare, conoscere i temi della sfida economica ed ecologica del nostro tempo, come parte integrante della responsabilità dei credenti che sono chiamati oggi a confessare che “l’economia è una questione di fede”[10], che non si può confessare la fede in Gesù Cristo escludendo i problemi della giustizia economica e della distruzione dell’ambiente come non pertinenti. Questa conoscenza non è ovviamente fine a se stessa, ma è strumento per un’opera di testimonianza e di sensibilizzazione nell’ambito che è proprio dei credenti: la comunità di fede nella quale sono inseriti che spesso è solo vagamente consapevole di questi problemi.

In particolare, ritengo che i credenti possano concentrarsi su due concetti evangelici, due idee guida che possono costituire il loro apporto specifico ancorché non esclusivo.

Solidarietà non è propriamente una parola dell’evangelo, ma è stato detto molto giustamente che la solidarietà è il nome laico dell’agàpe, l’amore per il prossimo che abbiamo conosciuto attraverso l’amore con cui Dio in Cristo ha amato il mondo (Gio. 3,16). Essa è espressa in modo forte in indicazioni etiche dell’evangelo come quella di Paolo: “Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma ciascuno cerchi quello degli altri” (I Corinzi 10,24). Questa parola, che la Federazione delle chiese evangeliche ha assunto come motto per la propria recente Assemblea, detta una indicazione estremistazzata (al di là del comandamento di Gesù “ama il tuo prossimo come te stesso”) ma essenziale per reagire contro la spinta ideologica verso il perseguimento esclusivo del proprio vantaggio personale.

Riccardo Petrella ha scritto un “elogio della solidarietà”[11] in cui mostra come la solidarietà si è sviluppata attraverso il welfare state in USA e in Europa e come e perché lo stato sociale è andato in crisi e ha subito un processo di smantellamento. O recuperiamo il principio della solidarietà su scala mondiale, non come un concetto residuale una volta che tutto è stato organizzato intorno alla produzione, ma come il centro attorno a cui va disegnata una nuova economia, oppure fallisce l’unica via che può essere contrapposta alla competitività autodistruttiva: la coesistenza organizzata per mezzo di essenziali contratti mondiali largamente condivisi.

 

Sobrietà è invece una parola specificamente biblica. Dice la I lettera di Pietro: “Siate sobri, vegliate; il vostro avversario, il diavolo, gira come un leone ruggente cercando chi possa divorare. Resistetegli stando fermi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze affliggono i vostri fratelli sparsi per il mondo” (I Pietro 5,8-9).

Questa parola è un vero e proprio manifesto di resistenza al neoliberismo. Il leone che divora è il fascino del consumismo a cui si cede senza neppure accorgersi di essere divorati. A questo si resiste con la sobrietà, che oggi significa opporre alla cultura del “di più” la cultura dell’”abbastanza”, del “sufficiente”, del “necessario”. Questo significa predisporsi ad una ragionata riduzione dei propri consumi, non in base ad un progetto negativo di auto-mortificazione, sacrificio, rinuncia; ma in base ad un progetto positivo di riacquisizione del senso del limite, e quindi di liberazione dallo stress che deriva dalla perenne insoddisfazione di un io incontinente in quanto non contenuto. E’ chiaro che con un progetto di questo genere non si cambia il mondo, ma non si prepara il nuovo mondo possibile senza l’impegno concreto dei singoli.

Sorge subito l’obiezione. Se un comportamento di questo genere venisse generalizzato, se cioè tutti riducessero i propri consumi, questo farebbe entrare in crisi il sistema economico: minori consumi significa riduzione della produzione, che a sua volta comporterebbe maggiore disoccupazione. Certamente: all’interno del sistema neoliberista in cui il ciclo produzione-distribuzione-consumo-investimenti ha come motore l’aumento e la crescita a tutti i costi, una riduzione dei consumi significa granelli di sabbia nel motore. Alla riduzione dei consumi deve corrispondere un quadro economico alternativo in cui la riduzione non produca crisi bensì riorientamento e riequilibrio dell’economia.

Non sono castelli in aria. Precise proposte alternative esistono già. Al centro dell’alternativa sta la sfida della riconversione della produzione energetica dalle fonti non rinnovabili (materiali fossili) a quelle rinnovabili (vento, sole, geotermico e poi idrogeno) che è già in corso ma è osteggiata dal furibondo quanto deleterio aggrapparsi all’oro nero della potentissima lobby del petrolio. Ciò che manca non è la possibilità di una colossale rivoluzione energetica, bensì la volontà politica. La nostra sobrietà oggi può avere il valore di un’anticipazione, essere il segnale della necessità di lasciare uno stile di vita insostenibile, rafforzare la richiesta di un nuovo ordine economico e sociale. Modellando uno stile di vita basato sulla sobrietà e la solidarietà, noi possiamo contribuire alla costruzione di un futuro migliore per il nostro mondo. Non è questa una responsabilità indilazionabile per i credenti?

 

Alcuni uomini pensano sia cosa futile e alcuni cristiani pensano non sia religioso sperare e prepararsi per un futuro migliore in questa vita. Credono nel caos, nel disordine, nella catastrofe. Questo, essi pensano, è il significato degli eventi contemporanei, e in una rassegnazione totale, o in una pia evasione, abbandonano ogni responsabilità nei confronti della preservazione della vita e nei confronti della generazione che non è ancora nata. Domani, forse, sarà il giorno del giudizio. Se così è, rinunceremo volentieri a lavorare per un futuro migliore. Ma non prima[12]

 

Così scriveva dal carcere Dietrich Bonhoeffer, immerso nel disastro totale del suo paese, prodotto dalle forze a cui si era opposto fino al limite estremo, eppure animato dalla visione fiduciosa di un avvenire di riconciliazione e redenzione molto concrete. Immersi in una crisi meno acuta ma più globale, riceviamo l’invito a terminare il nostro impegno per un futuro migliore solo quando il Signore dichiarerà chiusa la partita. “Ma non prima”.

 

 

 

 

 

 



[1] Lester R. Brown, Eco economy, una nuova economia per la Terra, Editori Riuniti, 2002, p. 30.

[2] Raniero La Valle, “Rileggendo La terra è di Dio”, in Giovanni Franzoni. La terra è di Dio, testo, commenti, ri-trattazioni, Edizioni com nuovi tempi 2003, p. 145-146.

[3] Joseph Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi 2002, p.77-78.

 

[4] L’anno seguente l’Assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese ad Harare, Zimbabwe, fece proprio l’appello di Debrecen, estendendolo a tutte le chiese facenti parte del CEC. Documenti dell’ARM e del CEC sul tema della globalizzazione e dell’ambiente sono reperibili nell’appendice di un volumetto che raccoglie gli atti di un seminario tenutosi a Palermo nel 2001: AA.VV. Globalizzazione, lavoro, mezzogiorno, Claudiana 2002.

[5] Le iniziali di questa frase in inglese “there is no alternative” formano un acrostico, TINA, che viene ripetuto con sufficienza e compatimento a chi mette in questione il neoliberismo.

[6] “Una voce dalle chiese”, documento del CLAI (Consiglio delle Chiese Latino Americane) del gennaio 2002. Il documento completo può essere reperito nella pagina-archivio della Commissione “Globalizzazione e ambiente” della Federazione Chiese Evangeliche in Italia www.fedevangelica.it/glam/glam03.asp al n. glam24.

[7] Giuliano Amato, “Quei confusi confini tra etica e impresa”, in La Repubblica, 27 ottobre 2003.

[8] Umberto Galimberti, “Dov’è finita l’etica nel mondo del mercato?”, in La Repubblica, 11 novembre 2003.

[9] A lungo questo movimento è stato chiamato dei no global, confondendo il rifiuto del neoliberismo con un rifiuto oscurantista della globalizzazione che il movimento non riconosce. Dopo altre definizioni insoddisfacenti, come new global, si è affermata recentemente l’espressione alter global che indica correttamente la spinta verso un’altra globalizzazione rispetto a quella neoliberista: quella dei diritti, della giustizia economica e del rispetto dell’ambiente.

[10] Con un appello a condividere questa affermazione termina un sconvolgente “Messaggio alle chiese del Nord” che i cristiani del Sud hanno scritto nell’ambito di un seminario di studio sulla globalizzazione nella crisi asiatica: AA.VV. Globalizzazione, lavoro, mezzogiorno, op. cit. p. 117-119.

[11] Riccardo Petrella, Il bene comune, elogio della solidarietà, Diabasis, Reggio Emilia 20032.

[12] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, lettere e appunti dal carcere, Bompiani 1969, p. 73.