dal Notiziario della Comunità dell’Isolotto – Comunità di base italiane

 

Settembre – n° 3 / 2001

 

 

XXVI Incontro delle Cdb italiane

Chianciano Terme 28-30 aprile 2001

 

 

“La diversità ci fa liberi: percorsi di speranza

nell'era della globalizzazione:

come riconoscerli? con chi costruirli?"

 

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DI APERTURA

 

 

 

Il titolo

 

Un titolo impegnativo che forse ha bisogno di qualche chiarimento preliminare, che, a nome delle Cdb romane, cercherò di avviare.

Innanzi tutto va detto esplicitamente che questo XXVI incontro delle Cdb italiane non è un convegno sulla globalizzazione. Il riferimento alla globalizzazione, proposto nel titolo, intende solo ricordare il contesto, lo scenario, ai quali è chiamata a far riferimento  la riflessione da sviluppare in questo incontro. Non intendiamo pertanto in questa sede proporre nuove analisi e nuove valutazioni, né ripercorrere quelle già fatte da altri in altre sedi, né tantomeno tentare di fare una teologia della globalizzazione. Diamo per acquisito un patrimonio di nozioni comuni sull'argomento, che possiamo facilmente ricapitolare.

 

 

La globalizzazione

 

Dalla metà degli anni ottanta globalizzazione è diventata una locuzione usata comunemente, pur con significati non sempre identici, ma tutti riferiti ad un fenomeno complesso e articolato in aspetti diversi, connessi o solo concomitanti. Molteplici e discordanti sono le analisi e diverse le valutazioni. Tutte, però, ne riconoscono la continuità con i processi di internazionalizzazione dell'economia capitalistica.

Nuova è la maggiore subordinazione della politica all'economia e dell'economia alla finanza. Tale novità investe tutti i settori del vivere sociale, provoca continui mutamenti, talvolta radicali, sotto la spinta di accelerate innovazioni tecnologiche.

Strutturalmente tende a unificare il mercato dei capitali e del lavoro, modificando i modi di produrre e di commerciare  con effetti sui modi di comunicare e di consumare.

Il pianeta si avvia ad essere un grande mercato dove il profitto è alla base dell'agire sociale, dove anche l'informazione è diventata merce. Si va concretizzando l'immagine del villaggio globale con precisi confini tra centro, che conta, e periferie marginalizzate, e con rigide regole che includono o escludono popoli e paesi, secondo i criteri del pensiero unico funzionale al primato dell'economia sulla politica.

Le regole pertanto sono dettate dalle multinazionali che sottraggono potere agli stati nazionali e delegittimano le autorità internazionali esistenti. Per risolvere i loro contrasti interni e per imporre la loro volontà agli altri, i signori del mercato utilizzano come strutture del nuovo governo mondiale la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione mondiale del commercio. L'Onu e le sue strutture sono state progressivamente depotenziate. Un direttorio autonominato, i G8, ne usurpa le funzioni mentre gli Usa, estendendo arbitrariamente il diritto di veto già esercitato nel Consiglio di sicurezza, si arrogano la funzione di supremo garante dell'ordine (disordine) mondiale. La concentrazione in poche mani dei grandi mezzi di informazione, accelerata sull'onda delle continue innovazioni tecnologiche, ne rende facile la manipolazione. Ne derivano mancanza di libertà  per le attività culturali, pesanti condizionamenti per la ricerca scientifica, e omologazione nella creazione dell'immaginario collettivo.

 

 

Le valutazioni sulla globalizzazione

 

Il quadro è ovviamente molto più complesso. Proprio tale complessità giustifica le valutazioni contrastanti, sulle prospettive e sugli esiti, e l'insorgere di schieramenti diversi. Favorevoli, rassegnati, moderatamente contrari e oppositori irriducibili alla globalizzazione si dividono su un interrogativo di fondo: ineluttabile o reversibile questo processo?

In questa sede non pensiamo di dare una risposta a questo interrogativo: ci sono altre sedi, che ciascuno di noi frequenta, per darla.

Con questo non vogliamo dichiararci neutrali o indifferenti. Del resto di quello che sta succedendo abbiamo già parlato quattro anni fa a Rimini e se ne parlerà nel laboratorio sull'economia.

Possiamo dire che senza dubbio la globalizzazione non ha eliminato la fame nel mondo, né eliminato la povertà. I poveri diventano sempre più poveri: all'aumento del benessere dei popoli ricchi corrisponde l'aumento della miseria negli altri. Quando questi vengono inseriti nei circuiti produttivi, il loro coinvolgimento avviene all'insegna dello sfruttamento e con esiti destabilizzanti anche per le lavoratrici e i lavoratori dei paesi ricchi, dove non ci si preoccupa di limitare i consumi, anzi si tende ad incrementarli, ma si procede alla destrutturazione del sistema dei diritti sociali con il conseguente smantellamento delle garanzie conquistate a prezzo di dure lotte. Si utilizza il lavoro fuorilegge e quello minorile. Riemerge la schiavitù. Non si rispettano le esigenze di tutela dell'ambiente e le condizioni del clima sono peggiorate. Non si è ridotto il numero delle guerre, anzi sono aumentati i focolai di conflitto che tendono a coinvolgere sempre nuovi paesi. Paradossalmente, ma non troppo, la globalizzazione ha riflessi anche sulla vita della Chiesa cattolica favorendo il protagonismo del papa e il centralismo della Curia romana contro la collegialità e l'autentico universalismo fondato sulla comunione di chiese locali.

Non è azzardato concludere che non hanno tutti i torti quanti denunciano la globalizzazione come l'organizzazione mondiale delle disuguaglianze.

 

 

Percorsi di speranza

 

Non stiamo qui a ripetere le loro condivisibili motivazioni siamo qui per riflettere su come condividere le lotte per l'uguaglianza con  chi vuole sconfiggere la fame, fermare le guerre, sottrarre i bambini allo sfruttamento e le donne alle nuove schiavitù, combattere su tutti i fronti a sostegno di quelle  e quelli i cui diritti sono conculcati, garantire un clima decente per l'oggi e non sperperare l'ambiente per il futuro. Con le loro esperienze vogliamo confrontarci sul che e sul come fare. A tale scopo è sufficiente sapere che la globalizzazione è lo scenario in cui si svolgono i processi che provocano i mali che intendiamo combattere. Non è necessario ripetere proclami contro di essa, è sufficiente schierarsi apertamente dalla parte di coloro che contrastano chi pretende di governarla, senza avere fra i suoi obiettivi primari la loro eliminazione, e i signori del mercato, che soffoca le persone ignorandone i diritti già conquistati e impedendo di conquistarne di nuovi in nome dei privilegi di pochi individui.

Non è neppure negli scopi di questo incontro definire le strategie di questa lotta dal basso né assumere l'una o l'altra delle proposte in campo. Anche su questa questione prendiamo atto di quelle che ci sono o che si stanno preparando consapevoli che nella loro diversità non mancano di contraddizioni e di ambiguità.

Proprio perché consapevoli che esiste una grande diversità tra coloro che vogliono operare in tale direzione abbiamo voluto sgombrare il terreno dall'equivoco di chi invoca l'uniformità dei comportamenti tra quanti si battono contro gli effetti della globalizzazione. Noi siamo qui, invece, per riaffermare che si può costruire unità anche nella diversità e che a partire da tale diversità muove la nostra riflessione sul come riconoscere e con chi costruire i "percorsi di speranza".

 

 

La diversità: un valore.

 

La diversità per le Cdb non è solo un modo di essere del loro movimento, ma un valore. Nei fatti l'abbiamo sperimentata per trent'anni, ne abbiamo anzi fatto una nostra caratteristica, in una società in cui è di moda esaltare le identità e le appartenenze, nazionali o religiose, e condannare le diversità, etniche o sessuali. E' nella linea teologica conciliare che ha restituito valore alle chiese locali e rilanciato l'ecumenismo. Riaffermare il suo valore e la sua capacità di rendere liberi è esso stesso un messaggio di speranza.

Un messaggio, però, che va verificato anche per noi, che su di essa siamo chiamati a riflettere e ad interrogarci durante questi giorni.

All'inizio di questo nuovo millennio che si apre così carico di preoccupazioni e in questo contesto la diversità è ancora un valore? Rende liberi? o condanna all'autoreferenzialità e all'irrilevanza? Piccolo è ancora bello nell’era della virtualità mediatica, in cui la visibilità è elemento essenziale non solo per l’esercizio del potere, ma anche per lo sviluppo della comunicazione?

Intendiamo rispondere a queste domande non sulla base delle teorie degli studiosi o delle tesi dei politici, ma a partire dalla riflessione sulle esperienze di chi, con maggiore o minore consapevolezza, si impegna a operare per un mondo più umano attraverso concrete iniziative in diversi settori della società. Di chi non dispera, anzi, si propone di dare speranza con progetti costruttivi senza, tuttavia, rinunciare alla necessaria azione di denuncia. Con le loro specificità intendiamo confrontare  le nostre, non per distribuire patenti o riconoscimenti, ma per individuare il modo per riconoscere quelli che aprono "percorsi di speranza". Di speranza abbiamo già parlato, seppure in contesto diverso, al convegno di Napoli del 1989 Donne e uomini per una terra di speranza.

 

 

Coniugare utopia e realismo

 

Non ignoriamo che, per alleviare alcune conseguenze più gravi della globalizzazione, esistono progetti portati avanti da istituzioni nazionali e internazionali e da strutture private e confessionali. Noi privilegiamo, però, il confronto con le realtà che muovono dal basso, nelle società e nelle chiese, e che non si limitano a dire agli altri che cosa devono o non devono fare, ma fanno. Operano nel piccolo con l'attenzione al grande, integrando utopia e realismo. Sono le “pietre scartate” dai soggetti “forti” esaltati dalla globalizzazione. Siamo convinti che sono una forza per costruire  un assetto pacifico del pianeta. A partire dalle “pietre scartate” si può diffondere speranza costruendo reti di consapevolezza e competenza per interventi diretti. Ciò non significa indifferenza o disinteresse nei confronti degli assetti istituzionali e giuridici, né rinuncia a contrattare nuove forme di democrazia diffusa e di solidarietà strutturata. Gli interventi diretti sanano le piaghe di oggi, il rafforzamento della democrazia e la rivendicazione dei diritti preparano il futuro.

Costruire dal basso nuove forme di organizzazione sociale fondandole sulla loro capacità di imporsi alle istituzioni, è essenziale, ma è anche necessario riaffermare i diritti fondamentali e inalienabili nella consapevolezza che una delle radici, più profonde e diffuse, di altre forme di sofferenza indotta sta nella loro negazione o usurpazione. “Diritto a…” è una parola innalzata come una bandiera da donne e uomini in tanti angoli del mondo per costruire libertà, giustizia, eguaglianza, qualità della vita che sono beni indivisibili e non barattabili con la sicurezza e il benessere. Pur vero che tante carte dei diritti sono state scritte, tante giornate dei diritti cono state celebrate, ma si continua a sperimentare il divario, forte anche nelle istituzioni religiose e in particolare nella chiesa cattolica, tra ciò che è scritto e ciò che è vissuto. Un divario che sembra ingigantirsi sotto gli effetti della globalizzazione. Eppure appellarsi al diritto non è solo rivendicazione formale, ma motivo di impegno capace di unire donne e uomini coscienti della dignità della persona umana e decisi a riaffermarla ovunque questa è negata e conculcata. Il processo di appropriazione di nuovi spazi di diritto e di azione è già in atto: donne e uomini, impegnandosi nella costruzione di frammenti di autonomia  e di  libertà nelle singole realtà locali e in diversi settori, sperimentano di fatto una nuova cittadinanza a dimensione planetaria.

Riflettere su tali processi serve a confermare  il comune obiettivo della costruzione di un mondo più giusto costituito di società fondate sull'uguaglianza e sul primato delle persone, non  su quello del mercato, e rette da pubbliche istituzioni a garanzia della fruibilità per tutti dei diritti.

Lo scambio delle diverse esperienze serve a verificare se si può contribuire a raggiungere tale obiettivo  sia sperimentando nuove forme di convivenza e di organizzazione della vita sociale diverse e in opposizione a quelle funzionali alla globalizzazione, sia   attraverso percorsi di liberazione dall'oppressione delle morali e dei costumi in nome del diritto tra i quali trovano posto anche la rivendicazione dei diritti del “popolo di Dio” nella Chiesa cattolica.

Per questo siamo andati a cercare i "percorsi di speranza" non tra chi si pone come maestro ma: 

v     tra chi opera nel campo della solidarietà sociale nella condivisione con i poveri, gli emarginati,

gli esclusi, i malati, i carcerati e i tossicodipendenti;

v     tra chi sollecita un confronto più attento tra le religioni e le diverse confessioni cristiane, tra chi

vive esperienze di ricerca di maggiore autenticità nella vita religiosa promuovendo la lettura della Bibbia e  portando avanti la riflessione teologica perché il Dio di Gesù sia liberato dalle definizioni e dai modelli obsoleti, ed è impegnato a contrastare il neo temporalismo e l'autoritarismo  nella Chiesa cattolica;

v     tra chi opera per diffondere una comprensione dei processi economici del nostro tempo,

si impegna nella ricerca di forme alternative di produrre e commerciare e scende in piazza per denunciare nella crescita spaventosa delle ineguaglianze tra il nord e il sud del mondo l'effetto perverso della globalizzazione;

v     tra chi nello sforzo di costruire esperienze interculturali si impegna a liberarsi da una cultura

colonialista, consumista, liberista che impedisce all'incontro tra diversi di trasformarsi in un reale reciproco  arricchimento per la costruzione di una storia comune;

v     tra chi, nella "società della comunicazione", si impegna a rompere, con un'informazione

alternativa attraverso strumenti sia tradizionali sia informatici, il circuito mediatico, che,

dando l’illusione di essere immersi nel corso della storia, toglie il senso del tempo e riduce la capacità di discernere.

 

 

I laboratori

 

Per questo i lavori dell'incontro si svolgeranno in laboratori su questi temi particolari per rendere più concreto il confronto. Ciascuno di essi  sarà illustrato in assemblea dalle comunità, che ne hanno curato la preparazione, proprio per sottolineare la loro complementarità. Per lo stesso motivo il quadro complessivo tornerà a riproporsi nella tavola rotonda finale in cui il confronto sarà a tutto campo. Ci sarà anche la voce dei giovani che ne avranno discusso in piena autonomia.

A completare il quadro mi pare utile ricordare che contemporaneamente a questo nostro incontro si sta svolgendo il convegno di Pax Christi, quello della Rete Radiè Resh si è appena concluso  e i Gruppi della lettura popolare della Bibbia si riuniranno nella prossima settimana per il loro secondo incontro annuale.

Percorsi diversi ma convergenti, in questi momenti di diffusa disperazione per le incertezze del futuro, a seminare speranza tra tante donne e tanti uomini che di fronte ad una modernità diventata insensata avvertono il bisogno di una ricerca di senso e non lo trovano nel ritorno ad una rassicurante religiosità devozionale.

 

                                                                                                            Marcello Vigli

 


 

TAVOLA ROTONDA

 

 

 

 

Presiede la tavola rotonda Maria Sbaffi Girardet, membro della comunità Valdese italiana e presidente della commissione per le relazioni ecumeniche delle chiese Battista, Metodista e Valdese.

Relatori:

padre Felice Scalia, gesuita, della comunità di Messina, al convegno ha coordinato il labortorio dei giovani,

Silvio Garofalo, del “Movimento Concilio Vaticano Secondo”, per il laboratorio economico

don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e promotore di “Libera” contro le mafie, per il laboratorio sulle culture

Giovanni Avena, direttore di Adista, Per il laboratorio sulla comunicazione. 

Beppe Pavan, della comunità di Pinerolo, per il laboratorio sul sociale.

Luigi Sandri, della comunità di S. Paolo, per il laboratorio sull’ambito religioso-teologico.

 

 

Maria Sbaffi Girardet

 

                                                            “la pietra che i costruttori hanno scartato

                                                              è divenuta pietra d’angolo”

 

Vi ringrazio di avermi invitato a presiedere questa tavola rotonda con il compito anche di cercare di contenere, entro i tempi che ci sono dati, il lavoro che dobbiamo fare questa mattina, che sarà molto intenso, ricco e fecondo come sono stati i momenti di queste giornate.

Venendo a questa riunione, sono rimasta colpita da una delle parole, contenuta nei documenti preparatori, che ci definisce, in qualche modo, rispetto ai poteri della società in cui viviamo, come “pietre scartate”. E allora non ho potuto fare a meno di pensare a una parola biblica, che appunto riguarda la pietra scartata per eccellenza che è Gesù Cristo stesso, come è definito nella prima epistola di Pietro e ho pensato di rileggere alcuni versetti di questo brano che certamente sono stati presenti anche a voi in queste giornate.

La prima epistola di Pietro al capitolo 2 dice: ”Accostandomi a lui pietra vivente rifiutata dagli uomini ma davanti a Dio eletta e preziosa anche voi come pietre viventi siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Infatti, si legge nella scrittura, ecco io pongo in Sion una pietra una pietra angolare. La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra angolare”.

A me sembra che in queste parole ci siano un po’ gli elementi dei discorsi che abbiamo fatto in questi giorni e anche del tema stesso che ha questo Convegno.

La parola diversità contiene anche la parola verità. In un certo senso noi ieri abbiamo messo l’accento sul fatto che la diversità è, in qualche modo, una conoscenza, un impegno, una ricerca che ci conduce alla verità vera della nostra situazione di essere diversi da un lato, qui fra noi, ma soprattutto nei riguardi del resto del mondo e nello stesso tempo di essere tesi a costruire qualche cosa appunto come pietre viventi di un edificio comune.

 

Come vi è stato detto, adesso avremo un primo giro degli oratori che ci sono stati già presentati. Purtroppo possiamo dare dei tempi molto brevi a questi oratori, dobbiamo pregarli di contenersi entro i quindici minuti, faremo una piccola eccezione per don Ciotti perché ieri sera non ci ha potuto presentare la relazione sintetica del gruppo cultura e allora gli daremo un po’ più di spazio oggi.

 

 

Felice Scalia (laboratorio dei giovani)

 

                                                            i giovani fra il peso della omologazione

                                                            e il vento della diversità

 

La presenza dei ragazzi in un Convegno delle Comunità di base è stata, in qualche modo, una novità che ha sorpreso tutti. E’ stata una bella novità, circa quaranta giovani, ma una novità di cui non si poteva fare a meno, se vogliamo parlare realmente di speranza. Perché a chi affideremo le nostre speranze, chi saranno gli artefici di questo futuro che noi speriamo migliore?

In una sollecitazione previa, abbiamo tentato di chiarirci quali sono i termini del problema. Nel laboratorio dei giovani, all’inizio (scusatemi questa non è una relazione ma comunque devo dire alcune cose che sono successe per spiegarne poi altre), abbiano parlato di che cosa significa questa globalizzazione, questa società del futuro che ci sta venendo addosso e che in qualche modo ci viene presentata come senza speranza, proprio perché ineluttabile fatto di natura, non più di cultura. Abbiamo dovuto renderci conto che in questa prospettiva, il diverso, colui che la pensa in un modo diverso dalla società corrente, cioè da questo tipo di società che impone i suoi schemi, colui che è pensato diverso è un nemico da reprimere all’interno con sistemi polizieschi, all’esterno con sistemi militari.

In questa società globalizzata, dove chi esiste fa parte per ciò stesso del sistema, uno non può permettersi facilmente il lusso di pensare e di avere una mentalità totalmente alternativa. C’è però l’altro fatto del rimescolamento dei popoli e quindi della nostra necessità di incontrarci con culture altre, con persone altre. E allora essere alternativi, essere diversi è insieme impossibile e necessario. Una contraddizione che induce sofferenza e forse apatia.

Abbiamo lanciato una serie di domande piuttosto provocatorie: basta una kefia per essere diversi, alternativi a questo sistema? Basta fumare uno spinello trasgressivo per essere diversi, alternativi? Basta far parte di un gruppo alla moda per essere diversi? Basta vestirsi da stracciati eleganti o da eleganti stracciati o straccioni per essere diversi? O c’è una diversità che dobbiamo recuperare che sia molto, ma molto più profonda più seria, più vera, in modo tale che possa dare futuro e speranza agli stessi ragazzi, perché essi ci soffrono, perché non sono contenti, e il disagio loro lo esprimono nei modi in cui possono.

Questa diversità, ovviamente, è stata l’oggetto forse principale delle nostre discussioni. Tante volte, hanno detto alcuni ragazzi, vogliano essere alternativi alla società, ma finiamo per essere semplicemente alternativi ad una moda, qualcosa dunque di molto più epidermico. Siano generazioni cresciute con stereotipi dice ancora una ragazza. Ce li avete dati voi questi stereotipi, ci avete fatto crescere ad esempio con l’idea che bisognava essere vincenti. Non ci avete dato la possibilità di crescere, tutto è stato preordinato e ora, dicono, volete affidare a noi la vostra speranza; avete rovinato questo mondo e dobbiamo essere noi, in qualche modo, a sistemarlo ad aggiustarlo. Sarebbe vera questa osservazione se non ci fosse la loro sofferenza, il loro disagio, la loro paura di futuro che si mostra in moltissimi modi. E allora il grido di uno di questi ragazzi: “io non voglio sperare” è la ribellione contro la speranza vista non come forza del cuore che spinge a una azione diversa ma come una cosa subita che arriva dall’alto. C’è allora una diversità seria, c’è un’alternativa seria, questa forse è la parte più bella, quella di cui devo ringraziare i ragazzi. C’è prima di tutto, dicono loro, da scoprire la nostra diversità essenziale che è la nostra unicità, stupendo questo! In una società che, dicono loro, li ha educati ad essere massificati, ad avere soltanto modelli e stereotipi esterni, stanno riscoprendo, riscoprono, la loro unicità. Prendono coscienza di quel serbatoio di ricchezza che hanno dentro, quell’uomo absconditus di cui parlava Bloch e che ancora deve essere manifestato, che loro ancora non sanno neppure cos’è, ma che in realtà urge in loro. Ecco la prima alternativa: che i ragazzi escano dall’apatia, dal non interessarsi a nulla di importante e di serio, che si sentano unici, protagonisti e importanti.

E’ venuta fuori inoltre la necessità che i ragazzi si muovano per camminare insieme, mentre l’omologazione ci vuole separare l’uno dall’altro e ci vuole indurre a chiudersi ciascuno nel proprio particolare. E soprattutto hanno espresso il bisogno di agire uscendo dai bei discorsi. Qualcuno diceva: venite con me a pigliare le botte della polizia a Napoli o a Genova, ma agiamo, è inutile fare solo bei discorsi. Le vostre alternative di bei discorsi ci hanno veramente stufato.

Essere alternativi significa ancora il diritto di prendere la parola cioè di farsi sentire, questa parola che i ragazzi sanno di potere avere. Qualcuno dice: siamo stati fortunati perché siamo informati, mentre altri assolutamente non lo sono. E quindi parlare, informare, comunicare questo modo di essere alternativi che deriva evidentemente dall’avere idee.

C’è inoltre da rispettare la cultura degli altri, anche dei rom, che appaiono così distanti da noi e che sembrano persone che in qualche modo disturbano la quiete di una città, la fanno sembrare una città degradata.

C’è soprattutto da non stare nell’indifferenza, ecco l’alternativa.

Io credo che siano questi elementi che possono far pensare noi, il nostro essere “diverso” rispetto a questo mondo omogeneizzato. Questo mondo che ci vuole tutti quanti servi di una mentalità comune, una mentalità che crede irreversibile e ineluttabile il sistema che ci stanno imponendo. Per essere diversi è importante uscire da questa indifferenza e nel volto dell’altro leggere la propria capacità di responsabilità.

 

 

Silvio Garofalo (laboratorio sull’ambito economico)

 

                                                dipanare l’aggrovigliata matassa della diversità

                                                di progetti e percorsi  

                          alternativi alla globalizzazione liberista

 

Nel nostro laboratorio abbiamo sviluppato più interrogativi che risposte per cui la mia esposizione sarà una esposizione problematica.

La globalizzazione liberista è un sistema in cui l’80% delle risorse del pianeta è in mano al 20% della popolazione. Quindi è un sistema che lungi dall’unire frammenta perché crea disuguaglianze nelle stesse zone, nelle stesse realtà territoriali.

Il primo dato che mi sembra di dover cogliere, partendo dalla domanda che poneva anche Felice Scalia è: “la globalizzazione liberista è un fenomeno irreversibile?”.

Secondo me non possiamo permetterci di chiedercelo. Non possiamo chiederci se la globalizzazione è un fenomeno irreversibile poiché non abbiamo alternativa rispetto alla necessità di essere antagonisti ad un fenomeno che crea una situazione di grave ingiustizia. Non c’è possibilità di dire se questo è tempo opportuno, se dobbiamo aspettare, se c’è ancora possibilità di modificare questo sistema. Abbiamo l’obbligo di cercare di essere diversi. Possiamo discutere sul come essere diversi ma non sul fatto di esserlo. E allora va dipanata la matassa aggrovigliata della diversità di progetti e percorsi alternativi.

Il primo effetto perverso della globalizzazione, al di là della disuguaglianza economica, è la confusione: il fatto cioè che riesce difficile identificare nel sistema della globalizzazione chi abbia effettivamente vantaggio. E’ un sistema che va al di là delle singole multinazionali, dei singoli centri di potere. E’ un sistema che si nutre di se stesso e che induce a riflettere su una realtà sociale in cui le classi sociali non sono più quelle tradizionali, in cui l’operaio non è più soltanto l’operaio, in cui il datore di lavoro non è soltanto il datore di lavoro, in cui le categorie si misurano in base alla loro posizione nel mercato: produttore, consumatore, intermediario, speculatore. Di fronte a questa realtà non può esserci una risposta univoca, non può esserci una risposta che sia incanalata sul solo approccio tradizionale, occorre una risposta elastica che è composta di forme di lotta, o forme di reazione non alternative tra di loro ma che piuttosto si giustappongono in funzione antagonista alla globalizzazione. Un primo approccio che noi abbiamo esaminato è stato l’approccio giuridico. Il nostro sistema è inadeguato, ma oserei dire che tutti i sistemi sono inadeguati a realizzare una effettiva tutela della persona nel contesto attuale. Abbiamo una osmosi di sistemi giuridici molto diversi tra di loro che esige, tra virgolette, una mondializzazione di certe garanzie, di certe tutele. Ma qui c’è una palese ambiguità: fino a che punto espandere il nostro sistema di diritti se questi diritti finiscono poi per comprimere i sistemi giuridici degli altri? Penso ad esempio al sistema giuridico dei paesi musulmani.

Abbiamo discusso il bene comune: che cosa è il bene comune, cosa sono i beni comuni. La funzione di bene comune è stata sempre intesa come una nozione aprioristica, definita dalle istituzioni. La chiesa sa cosa è il bene comune, lo stato sa cosa è il bene comune. Ma oggi non è così. Il bene comune si identifica con lo sviluppo a qualsiasi costo del mercato? Il bene comune s’identifica col bene della speculazione finanziaria?

Allora di fronte al sequestro del bene comune da parte della globalizzazione liberista del mercato, non è forse meglio avanzare il concetto di “beni comuni”? al pluralità non riveste forse i beni di possibilità nuove che li avvicinano di nuovo alla nostra diversità? In fondo, in radice tutto è di tutti: l’aria, l’acqua, la terra, la natura e il tempo. Ma “tutto di tutti” è un concetto astratto. C’è bisogno di strumenti politici perché si realizzi. L’imposizione della proprietà collettiva da parte dello stato ha fallito. Ma sta fallendo anche la sistematica espropriazione delle persone, di tutte le persone, in funzione di un bene comune identificato come bene del mercato. E sta fallendo anche perché non c’è una tutela di sistema giuridico che ci garantisca di fronte a questo esproprio. L’umanità, l’uomo in senso proprio, è soggetto di diritti, ma trova situazioni giuridiche che tutelino tali diritti? Abbiamo nel nostro sistema nel diritto internazionale i crimini contro l’umanità, ma non abbiamo i diritti dell’umanità, condanniamo in nome dell’umanità ma l’umanità non può chiedere quello che è suo.

Noi abbiamo vissuto in questi anni un momento di crisi del principio di autorità, in cui le cose occorreva farle non più per ubbidienza, l’ubbidienza non è più una virtù, diceva don Milani, bisognava farle con convinzione. Il principio della responsabilità è un principio che può essere concreto, ciascuno di noi è effettivamente responsabile di una scelta. Se va al supermercato e acquista un bene di una grande multinazionale sa di creare una situazione di povertà? Ma a questa responsabilità morale corrisponde anche una responsabilità giuridica? Ho fatto un esempio estremo per dire che c’è la necessità di individuare un mutamento legislativo che sia prima ancora un mutamento della coscienza giuridica delle persone. Il diritto può esse anche una coscienza in cui uno sa di poter pretendere e non di dover chiedere, perché pretendere è diverso da chiedere, significa smontare quello che è il paternalismo della globalizzazione. Diritto significa anche avere il coraggio di invocare tutela giurisdizionale per posizioni non ancora tutelate: la via delle cause civili. Fare causa può significare trovare il modo per garantire dei pieni diritti anche quando la legislazione sia carente, usando il grimaldello della giurisprudenza. Incidere giuridicamente sulle politiche legislative, perché la legge cambi, questo significa automaticamente incidere sul sistema, tutto per fare in modo che ciascuno abbia la percezione di poter pretendere ciò che è suo. Urlare non basta se non si ha la convinzione che l’urlo è un urlo di giustizia. In fondo cosa ci dice la globalizzazione: tu non hai diritti se non quello di consumare. Quindi un nuovo concetto di legalità per un nuovo concetto di diritto.

E il problema è risolto soltanto da un punto giuridico? Ecco la necessità di incidere su quelli che sono gli indicatori economici. Il PIL, dicevano gli amici del Cassano, è l’unico indicatore economico? Si può misurare la ricchezza di un paese soltanto dal prodotto interno lordo? Il problema è, ancora una volta, di trovare un indicatore comune di ricchezza che non sia un indicatore di vendita, perché il PIL è un indicatore di vendita in cui vengono considerate soltanto le cose effettivamente monetizzabili. Ciò che non è monetizzabile non fa parte del PIL: una foresta, un fiume non sono PIL.

Rispetto all’ambito economico abbiamo un problema: come opporci evitando di accettare la marginalizzazione. La reazione al sistema economico della globalizzazione non può essere la marginalità. Un sistema alternativo per essere efficace non deve vivere nelle nicchie, per cui le esperienze positive, del Commercio equo e solidale, delle Organizzazioni non governative, devono diventare un vero e proprio sistema alternativo. Occorre individuare un modello di contrasto che sia fondato sul rifiuto del profitto come unico o principale parametro, sul legame economia e territorio, sulla cosiddetta economia di prossimità. Occorre realizzare in modo concreto ed evidente quello che è un legame fra economia e persona e incentivare la incidenza delle scelte etiche da parte del consumatore che condizionino il mercato. E anche il puntare a una qualche forma di alleanza fra produttore e consumatore può determinare un orientamento verso comportamenti etici da parte della produzione. Non acquistare i palloni che fanno i bambini nell’Estremo Oriente, non acquistare prodotti che siano fondati su manipolazioni genetiche, significa orientare la produzione colpendo il sistema nell’unica cosa su cui è veramente sensibile e cioè il denaro.

Io credo che la ragione della diversità anche dei comportamenti economici e giuridici che abbiamo proposto nel nostro laboratorio sia appunto questa: la scelta non è soltanto scelta economica, la politica non è soltanto la politica dei tecnocrati. C’è una scelta etica che s’impone per compensare le scelte di convenienza economica. Se avremo il coraggio di effettuare una scelta etica, se avremo la consapevolezza della necessità di ampliare il nostro universo giuridico, di tentare la strada della incidenza delle nostre scelte etiche sulla economia globale, allora organizzeremo un modello effettivamente alternativo che significa anche assicurare un futuro al sistema economico. Perché dal punto di vista pratico la concentrazione e pure la globalizzazione porta via via la riduzione dei margini di profitto se non si trova una forma alternativa di produzione. La globalizzazione divora se stessa.

 

 

Luigi Ciotti (laboratorio sull’ambito culturale)

 

                                                            “diversi come noi”

 

Anzitutto vi ringrazio dell’invito e soprattutto vi ringrazio di avere aderito a “Libera”, per una ragione molto semplice, che voi ben conoscete. Le mafie nel nostro paese hanno ripreso alla grande e la criminalità organizzata e le mafie stanno realizzando una globalizzazione della criminalità molto forte. Il figlio più piccolo di Totò Riina ha aperto a Corleone la concessionaria di trattori, i figli di Provenzano hanno aperto a Corleone due lavanderie. A qualcuno può far sorridere tutto questo. Ma per chi di voi conosce quei contesti e quelle realtà sa che questo è un segnale di potere, di presenza, di arroganza, di forza. Le mafie nel nostro Paese hanno ripreso alla grande con nuove strategie, con strategie internazionali, con collegamenti internazionali, con nuovi mercati e le mafie sono sempre state capaci di leggere per prime i cambiamenti sociali e adeguarsi. E quindi la vostra adesione giunge in un momento in cui nel paese, che piaccia o no a qualcuno, c’è una società che è molto distratta, c’è una politica tiepida e prudente, una politica che ha scaricato in gran parte tutta una serie di attenzioni alle strategia di lotta contro la grande criminalità e la grande mafia. Perché oggi il grande tema che ha avuto il sopravvento, che ha calamitato su di sé tutte le attenzioni, è il tema della sicurezza il quale ha cancellato tutta una serie di interventi rispetto alla mafia. E ciò è avvenuto, non a caso, in un momento particolare della storia del nostro Paese. Dietro al tema della sicurezza, sia ben chiaro, voi me lo insegnate, ci sta una precisa strategia e una precisa volontà politica. Perché in concomitanza con tutta una serie di processi, come il processo Contrada, Andreotti, Dell’Utri, Mannino, alcuni dei quali ancora in appello, abilmente si è improvvisamente lanciata tutta una grande campagna sul tema delle sicurezza penalizzando la storia dei nostri amici emigranti, etichettandoli, semplificandoli. Nello stesso momento in cui si è cominciato ad enfatizzare questo tema della sicurezza c’è stato, al di là delle affermazioni, il grande crollo dell’attenzione e del contrasto verso la grande criminalità e le mafie. E c’è una parola che è tornata forte negli ultimi tempi che voi trovate nelle aule parlamentari, nelle commissioni, nelle relazioni: la parola “normalità”. Ed è la parola più inquietante che ha accompagnato nell’arco di questi anni la storia di lotta alla mafia. All’indomani delle stragi si promette tutto, ma dopo un po’ c’è questa parola “normalità” che arriva come un pugno. A un certo punto si chiede: “basta ci vuole normalità”, che per molti abilmente vuol dire normalizzazione. E allora fino a ieri eravamo 741 gruppi di realtà diverse, di aree diverse che ci siamo messi insieme proprio come società civile, contro la criminalità e contro le mafie, oggi siamo 742 grazie alla vostra presenza, al vostro coordinamento. Per me è una gioia dire questo perché mai come in questo momento c’è bisogno di creare coordinamento, forza, presenza. E vi devo dire che i mafiosi si trovano spiazzati, perché davano per scontato che il nemico da colpire sono i Magistrati che indagano su di loro, si rendevano perfettamente conto del lavoro delle forze dell’ordine, degli organi investigativi, ma non avrebbero mai pensato di avere contro, e questo è molto importante, una rete che è presente nella quotidianità di singoli territori del Paese della società civile. Ed è questa rete che ha voluto fra l’altro la legge per la confisca dei beni mafiosi. L’altro giorno, per me è una gioia immensa, nella terra di Corleone si è creato un consorzio di cinque Comuni, con Libera e con atre Associazioni, per la costituzione di sei Cooperative di lavoro che gestiranno quasi due milioni di metri quadrati di terra di Riina, Bagarella, Provenzano e di una lunga serie di nomi che voi conoscete. Gioia, speranza, ma anche consapevolezza perché quella terra è la stessa terra per cui nel ’48 fu ucciso Placido Rizzotto, che aveva allora costruito delle cooperative per fare lavorare la gente del posto. Dopo oltre cinquantacinque anni questo atto di giustizia, di attenzione e di impegno, grazie ad una società civile che ha spinto, ha voluto questa legge sulla confisca dei beni mafiosi e sull’utilizzo sociale di quegli stessi beni. In un momento come questo in cui la criminalità organizzata e le mafie hanno ripreso fortemente la loro presenza, c’è bisogno di una società civile che faccia la sua parte e sia un pungolo rispetto al mondo della politica, perché i segnali sono veramente inquietanti. I centomila miliardi dell’Obbiettivo Uno, che stanno arrivando al Sud d’Italia, non vede indifferenti le mafie, anzi, i segnali sono tutti in quella direzione.

Il secondo elemento che mi viene a mente prende lo spunto da un gioco che il Gruppo Abele realizzò e pubblicò nel 1990, un gioco per ragazzi con un progetto nelle scuole. Il gioco aveva un nome “Diversi come me” e sarebbe sufficiente questo per chiudere la presentazione. Con cinquantacinque scuole, nella provincia di Torino, si era fatto, agli inizi degli anni ’90, un cammino, un percorso, che partiva da un gioco per fare riflettere, per approfondire, per sottolineare con forza “diversi come me”.

Ma lasciatemi dire che la cosa che più mi ha colpito positivamente lavorando con voi, e vi ringrazio di questo invito, ve lo dico con la coscienza dei miei limiti e se mi lasciate dire anche con tanta inquietudine che io sento rispetto a questi temi, la cosa dunque che mi ha colpito favorevolmente, almeno nel laboratorio a cui ho partecipato, ma l’ho sentita anche nelle relazioni sintetiche di ieri sera sugli altri laboratori, è che noi abbiamo lavorato sulle “e” e non sulle “o”. Ed ero in agguato perché sono tanti quelli che oggi lavorano sulle “o”. Non cultura o politica, ci siamo detti: ma cultura e politica, terra e cielo, fede e storia, testimonianza e progetti di cui abbiamo parlato, istituzioni e società civile, e ieri c’erano insieme a noi significativamente un rappresentate della Regione Toscana e del suo progetto regionale “Portofranco” e l’assessore alle culture della Provincia di Siena, impegno collettivo e cambiamento individuale, come è stato sottolineato e gridato con forza anche nel nostro gruppo, reciprocità-solidarietà e giustizia.

Altro elemento che voglio sottolineare è la necessità di cambiare mettendoci continuamente in discussione nella consapevolezza del pericolo di rimanere prigionieri del proprio passato. Io credo che sia un pericolo per tutti i coordinamenti, per tutte le realtà, per tutti i gruppi, lo dico pensando al Gruppo Abele di cui faccio parte da venticinque anni. E’ un pericolo molto insidioso. Bisogna cacciarlo via in fretta. Bisogna essere duri, testardi, io credo, e faccio mia una preoccupazione che Enzo Mazzi, nel nostro gruppo, ha gridato, per la verità in modo molto delicato ma che risultava nella sostanza molto forte, quando ci ha detto di chiederci quale possibilità c’è per noi di cambiare, di metterci in discussione su qualcosa di profondo. Io condivido questo, perché se c’è un personaggio pericoloso è diventare prigionieri del passato. Siamo molto legati alla storia, ai nostri percorsi, alle nostre esperienze, ma dobbiamo vivere l’oggi. Allora mi sembra importante sviluppare un concetto di comunità in continuo fermento.

Altro spunto: tre parole chiavi sono emerse nel nostro gruppo ieri, ma credo siano passate in tutti i gruppi, la prima io la traduco nell’andare oltre con continuità, coerenza, collaborazione. La seconda, un riferimento a me molto caro, è la strada. La strada luogo comune in cui teoria e impegno sociale si sono incontrati senza confondersi. La strada per me come per voi, rappresenta veramente il luogo operativo simbolico. Dove si snoda la storia della gente che fa fatica, ma anche luogo dove si può costruire politica, cultura, speranza. E credo che il confronto con la strada non è per la nostra fede una scelta possibile fra le tante, ma è un percorso obbligato. Non approfondisco questo. Ma vi dico che l’inquietudine mia deriva dalla consapevolezza che non è indifferente il posto da cui si ascolta la parola di Dio. E’ una consapevolezza emersa, mi è sembrato, anche ieri. Lo dico con questa inquietudine e anche con questo rispetto: ascoltare la Parola di Dio e parlare di giustizia dall’alto delle nostre sicurezze sociali, io stesso dall’alto delle mie sicurezze, tutti noi dall’alto delle nostre sicurezze, non è la stessa cosa che parlare di giustizia dalla strada, intesa come il luogo della precarietà, della povertà, della sofferenza, del disagio, dell’abbandono. Non è la stessa cosa: me lo avete proprio insegnato voi nell’ambito della vostra storia che scaturisce dal ritrovarsi fuori dal tempio, a contatto con la strada. La terza parola chiave è la memoria. E ieri è venuto fuori molto bene nel nostro laboratorio quando abbiamo ascoltato le amiche rom, le abbiamo fatte parlare, raccontare. C’è stato un momento, vi siete resi conto, in cui c’è stato il rischio che qualcuno cominciasse a giudicare. E subito qualcun altro è intervenuto richiamando la memoria: vi ricordate come eravamo noi, le nostre famiglie di una volta, i nostri rapporti, l’impostazione della vita!

Un ulteriore elemento che ieri è emerso con forza è quel lessico nuovo, quelle parole nuove, che siamo chiamati a fare nostre, non dimenticandoci che prima di essere poveri si è persone e che tutti chiediamo di essere riconosciuti come persone. Gli emigrati, i giovani, i poveri …chiedono di essere incontrati come persone e non come categoria. Anche nelle nostre comunità c’è il rischio, la tentazione di classificare le persone in prostitute, tossicodipendenti, carcerati, alcolisti, extracomunitari. C’è un linguaggio orribile in cui si parla di casi, di numeri, di utenti, a cui si mettono le etichette. Per non parlare delle sfide che interrogano la nostra morale non di rado chiusa. Per difendere i nostri principi tendiamo a costringere le persone in categorie morali: gli omosessuali, i transessuali, i conviventi, i divorziati, gli ex preti. E’ vergogna questo linguaggio! Però molte volte noi lo vogliamo. Come preoccupati per la nostra identità ci si dimentica molte volte di incontrare l’altro. Sono troppi quelli che preoccupati della loro identità si dimenticano di incontrare l’altro. Quell’altro che non può mai essere una minaccia per il proprio credo, per i propri principi, per la propria cultura, ma sempre, sempre, un compagno di viaggio senza il quale il Vangelo non ha senso. Ed è inquietante che da uomini importanti di chiesa - che si dicono teologi, ma che teologi sono io non lo so, sono teologi di scienze confuse! - giungano dei segnali che creano distanza e divisione.

Ma un altro pericolo che ci prende, lasciatemelo dire, ma lo dico guardando me stesso, la realtà in cui opero e quindi è una mia riflessione e una mia inquietudine, il pericolo sono le mode, anche da parte di molti nostri gruppi, tutte le mode, quelle stupide e anche quelle insidiose. Attenzione che non diventi a un certo punto moda accogliere i “diversi”, fra virgolette. E poi non accogliamo i vicini. E’ un linguaggio che non mi piace. Poi si scaricheranno anche i “diversi”, perché si inseguiranno altre mode.

Vorrei inoltre mettere in evidenza quattro bisogni emersi dall’incontro con le donne rom dell’Isolotto di Firenze, così belle dentro, dalle loro parole che io affido qui a tutti. Quattro bisogni forti, espressi nel loro linguaggio e nei loro gesti, come ad esempio ieri sera quando hanno fatto quella danza nell’assemblea generale. Quattro bisogni hanno attraversato la sala, che poi non sono solo i loro bisogni, sono i bisogni di tutti noi, “diversi come me”: il bisogno di sicurezza, questa è la vera sicurezza, sicurezza di contare per qualcuno, di valere, di esserci; il bisogno di riconoscimento, di essere riconosciuti per i nostri contesti e la nostra realtà; il bisogno di libertà; il bisogno di responsabilità. Non li approfondisco perché non c’è tempo. Ma è importante l’attenzione a questi bisogni che le donne rom ci hanno manifestato direttamente e indirettamente, anche perché richiedono un grande impegno culturale e non solo.

E allora per scappare via, indico sei punti forti, percorsi forti che io prendo dalla lettera ai Filippesi al capitolo IV versetto 8 e seguenti riletta alla luce delle cose dette nel laboratorio sui temi di ambito culturale. C’è scritto che tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, tutto quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Allora partendo da qui ecco sei percorsi forti.

Il primo: imparare ad assumere la realtà criticamente. La fede non ci dà verità a priori. La verità dobbiamo cercarla là dove essa si trova: in tutto ciò che è nobile, giusto... Dunque da Paolo un invito a cercare anche dentro altri spazi, culture, contesti, fedi, etiche, antropologie, storie; è una ricchezza l’incontro, il confronto, l’ascolto delle diversità. Assumere però criticamente, per me vuol dire che io misuro la profondità di ciò che incontro alla luce di alcune precise griglie. E ogni volta devo avere la griglia della giustizia, della libertà e della carità. Tutto ciò che risponde positivamente a questi filtri, io lo faccio mio senza paura.

Il secondo passaggio forte: imparare a discernere, saper cercare. E questo è emerso indirettamente ieri.

Il terzo percorso forte ce lo ricordava Maria di Pinerolo, quando ieri ci diceva che il primo cambiamento sta nel nostro atteggiamento interiore: l’ascolto

Il quarto percorso forte è lo scambio, il faccia a faccia, il confronto. Una di noi ieri nel gruppo ha detto: dare voce nelle cose nostre, nei nostri impegni di solidarietà, alla reciprocità, in modo che ci sia sempre un confronto critico, che possa porci in discussione, in modo che l’altro che incontriamo possa in qualche modo entrare dentro di noi, come noi entriamo dentro di loro. La relazione di reciprocità è il mezzo per crescere, capire, progettare.

Il quinto percorso forte - qualcuna ha detto da gridare alle persone illuminate - è che noi siamo chiamate ad accompagnare non a sostituirci. Allora questo costruire sempre insieme le nostre storie di comunità e di solidarietà dando spazio ai vissuti e alle emozioni e non solo agli obbiettivi.

Sesto percorso forte: c’è bisogno di fatti concreti e nel nostro gruppo, ieri, è stato ribadito con forza. E un altro passaggio, vi accenno velocemente che è emerso però, è il lavoro sulle paure, l’ignoranza, i pregiudizi. Ma attenzione io credo che se c’è una malattia mortale oggi, veramente una malattia mortale, questa è l’indifferenza. Non si uccide, come voi mi insegnate, solo con le armi ma si uccide anche con il silenzio, con l’omissione, con la delega, ecc.

Il gruppo culturale non poteva non prendere in esame la dimensione educativa; ma il tempo non ci ha permesso di dedicarvi il tempo che meritava. La riprendo io un attimo: l’educarci, l’educare alla cittadinanza, alla legalità, alla partecipazione, alla consapevolezza, alla verità, mi sembra molto importante. Anche così si crea la città vivibile, città da abitare e non città da recintare. La città vera è quella che sa educarsi a non espellere i problemi, a non nascondere i disagi, a scoprire gli inganni. Allora qui dobbiamo dire che molte paure sono reali, ma molte paure sono virtuali e rappresentate e oggi molte paure sono strumentalizzate, frutto di inganni. Nel 1991 l’Italia ha avuto il maggior numero di reati nel Paese e quando qualcuno di noi chiedeva degli interventi nella giusta misura, ci hanno riso in faccia. Nel 2000 e nel 2001 in Italia è diminuito il numero dei reati ma il tema della sicurezza è il tema enfatizzato nel Paese. Allora io credo: basta con le città sicure sbandierate per nascondere il bisogno di città vivibili. La città vivibile non è solo quella con l’aria meno inquinata, il traffico limitato, il verde intensificato, la densità abitativa diminuita, l’urbanizzazione controllatta. O meglio, la città vivibile é quella in cui si fanno queste cose ma con l’obbiettivo primario di promuovere la qualità delle relazioni sociali e delle relazioni umane. Questo è il nostro obiettivo. E in questo senso, ieri, parlavamo di in lavoro di rete, è una cosa che da anni se ne parla, ma qui è importante, fondamentale. Io parlo anche di nuovi mestieri di città. In alcuni paesi tipo la Francia, migliaia di giovani incominciano a fare nuova occupazione in quell’essere cerniera fra cittadini e servizi: nell’accompagnare gli anziani, nell’essere presenti nelle situazioni di fragilità, ecc.

Vorrei terminare con l’orizzonte culturale a cui padre Scalia ha fatto riferimento, che ci sta fregando tutti, che ci sta bombardando tutti, in cui quello che conta oggi è l’apparire, l’immagine, la prestazione, il potere, la ricchezza. I ragazzi metabolizzano, traducono, con gli strumenti che hanno. Io credo che di fronte a questo orizzonte culturale possiamo mettere in atto una strategia di oltrepassamento, in base a quei punti che mi sono permesso di esaminare di corsa, nella coscienza dei nostri limiti, lavorando insieme, mettendo strumenti insieme, mettendosi in gioco ciascuno con la propria quota di disponibilità, avendo il coraggio di opporsi alla omologazione.

 

 

Giovanni Avena di Adista (laboratorio sulla informazione)

 

                                                            Il dovere della indignazione

                                                            contro il sistema mafioso che domina l’informazione

                                                            e regna anche nel “tempio”

 

Il tema dell’informazione è un tema che può essere troppo dispersivo perché legato ad esso ci può essere qualsiasi altro tema e quindi potremmo andarcene molto lontano da qui, senza poi raggiungere nessuna conclusione pratica per noi. Ma noi stiamo facendo un convegno per raggiungere qualche conclusione pratica, almeno secondo quello che mi sembra di aver capito dalle esigenze forti e chiare emerse nel laboratorio dove io ero ieri, dove ho partecipato. Infatti sono venute tante richieste per arrivare a delle conclusioni pratiche, cioè a delle realizzazioni efficaci nelle quali il problema dell’informazione sia un problema un po’ anche nelle nostre mani, perché oggi non è affatto nelle nostre mani, è in altre mani, molto lontane da noi.

Ecco io volevo spaziare un po’ su questo tema, però don Ciotti mi ha fatto cambiare chiave ed io voglio approfittare di questo spunto così forte, così ad alta voce, che lui mi dà sulla mafia. Infatti, il problema dell’informazione non posso non legarlo, in questo momento, in questo contesto che abbiamo creato, non posso non legarlo alla mafia. Conosco bene la mafia. Conosco bene per averli visti in faccia e per averci anche trattato, alcuni di questi personaggi o alcuni accoliti di questi personaggi. Conosco bene, per esempio Pippo Calò, mafia di Porta Nuova, a due passi dal mio luogo di impegno, conosco molto bene Vito Ciancimino. Erano dei mafiosi abbastanza visibili, lo sapevamo tutti che erano mafiosi e li rispettavano tutti appunto perchè mafiosi, perché la cultura era questa e continua ad essere questa: sono mafiosi quindi meritano rispetto perché si occupano di noi, fanno qualcosa per noi.

E la prima cosa che loro fanno per noi è quella di omologarci al loro sistema. Se tu stai dentro questo sistema, dove io ti favorisco bene, esisti! Se non ti adegui a questo sistema, dove io ti posso favorire, non hai diritto ad esistere. Non è problema di libertà. Quando noi parliamo di stampa, di informazione diciamo che c’è un problema di libertà. Per la mafia non è problema di libertà è problema di esistenza. La mafia nega il diritto all’esistenza.

Però caro Luigi io conosco un’altra mafia che non ha il volto di Riina, non ha il volto di Ciacimino, ma ha il volto di certe nostre istituzioni. Ha il volto di certi nostri personaggi che guidano le istituzioni, le istituzioni civili e le istituzioni ecclesiastiche che io conosco bene. Non vorrei parlarvi minimamente di me però non posso fare a meno  di dirvi che io sono stato vittima di questo sistema mafioso e il volto di tale sistema non è quello di Ciancimino, ma è quello del Cardinale della stessa città che ha offerto a Ciancimino il suo potere, quel potere che nega l’esistenza a chi non accetta quel sistema, a chi si rifiuta di accettare quel sistema, e quindi si ribella, alza la voce, prende la parola, difende certi diritti, difende la legalità, si oppone alla illegalità, si oppone all’ingiustizia soprattutto quando vittime di questa ingiustizia sono delle persone inermi alle quali l’istituzione ecclesiastica è disposta soltanto a fare l’elemosina, a offrirgli compassione ma non a dargli esistenza. E il sistema mafioso che io ho potuto vivere era proprio questo: la negazione dell’esistenza a gente che non aveva più il diritto di parola, aveva solo il dovere di soccombere, di morire.

Anche il sistema dell’informazione è guidato dalla mafia. E torno al tema del laboratorio a cui ho partecipato. Come si organizza la mafia? Si organizza così: occupa il territorio, occupa lo spazio, occupa tutti gli spazi. Tu sei in quello spazio? Ti devi adeguare. Se non ti adegui, magari io non ti espello direttamente ma ti emargino. A furia di emarginarti tu resti fuori. E insieme a te restano fuori tutte quelle aspirazioni, quegli ideali che tu portavi dentro di te, insieme ad altri, al tuo gruppo, alla tua comunità, alle tue aspirazioni. Ecco resti fuori. La mafia agisce così. Il sistema dell’informazione in Italia agisce così. C’è un sistema abbastanza grande, forte, potente, prepotente, organizzatissimo, ricchissimo, dispone di tutti i mezzi, dispone di tutte le protezioni, dispone di tutte le garanzie. Garanzie fatte appositamente per loro e a quel punto non c’è più spazio. A quel punto è inutile che noi ci trastulliamo ciascuno con il proprio foglietto. Se noi non ci uniamo, non facciamo sinergie, non si raggiungono risultati. Non si incide se non si organizza l’indignazione, non solo nel sistema dell’informazione, ma nel sistema della società civile.

Un accenno all’informazione religiosa in Italia che è una informazione abbastanza mafiosa  o paramafiosa, perché dispone di tutti i mezzi, di tutte le agevolazioni. Per fortuna il popolo italiano sembra abbastanza indifferente perché i risultati sono assolutamente inadeguati rispetto a quanto viene investito per questa informazione. Il potere della informazione cattolica in Italia è un potere veramente ramificatissimo, è una rete infinita, è un tessuto. Pensiamo ai giornali: ci sono quotidiani e parecchi periodici abbondantemente foraggiati da noi, dal nostro otto per mille e dallo Stato. Centoventi settimanali diocesani, che hanno una bella diffusione! Tutte le riviste delle congregazioni, degli ordini, delle confraternite, radio quanto ne volete da quella parrocchiale a quella diocesana a quella del cardinale Ruini. Televisioni anche. Parliamo di comunicazione? E ci limitiamo soltanto alla carta stampata, o alla televisione o alla radio? Ma la predica domenicale non è comunicazione? Ventottomila parrocchie ci sono in Italia. Quante prediche ogni domenica, quanta comunicazione religiosa, quanta informazione, quanta disinformazione, quanto appannamento di coscienze. Poi ci sono i catechisti, poi c’è l’ora di religione, non è comunicazione quella? Quante ore di religione, dai bambini dell’asilo ai ragazzi del liceo - e ora il cardinal Ruini comincia ad essere un po’ preoccupato perché sta scendendo un tantino la percentuale delle adesioni, degli avvalentesi. C’è poi la catechesi, migliaia di catechisti…E poi lasciatemi dire il fiume in piena della presenza del wojtylismo, che non è soltanto Wojtyla, è tutto ciò che costituisce il culto della sua persona. E’ un fiume in piena perché il wojtylismo non è solo il discorso di Wojtyla, ma è ad esempio la radiotelevisione italiana che ha contribuito a inventare il personaggio Wojtyla. Ed è un fiume in piena che distrugge tutto: non esiste più niente, non esiste più diversità di idee su certi temi. Esiste solo quel pensiero. Ora tutto questo, cari amici, tutto questo, non si può non chiamare mafia. Non si può non dargli il nome giusto che è oppressione di libertà, di esistenza. E queste cose bisogna dirle o no? Che questo non è cristianesimo bisogna dirlo o no? O chi dice queste cose è il solito pazzo, o i soliti rompicoglioni di Adista, che non hanno altro da fare che far pettegolezzi sui cardinali, e voi sapete che non è vero. Sono pettegolezzi per esempio la documentazione che abbiamo offerto sul cardinal Giordano, su Monsignor Cassisa, oppure ai tempi di Marcinkus? E sono pettegolezzi le documentazioni sui gesti di Ratzinger quando impone certi dogmi, quando esclude, quando emargina, sono pettegolezzi le documentazioni sugli ex preti, sui divorziati…? E’ su queste cose che bisogna veramente creare l’indignazione. Alzare la voce lì dove noi operiamo anche senza avere un giornale a disposizione. Allora io credo che noi dobbiamo combattere il peccato del silenzio, quello nostro, il peccato della omologazione, ed esaltare invece il dovere dell’indignazione che ha una dimensione morale, fortemente morale ed evangelica. E’ l’indignazione di cui abbiamo esempi convincenti nel Vangelo di Gesù Cristo. Dovunque voi sfogliate il Vangelo, lì c’è l’indignazione contro i sistemi di potere e si potrebbe dire di mafia dei suoi tempi, indignazione soprattutto però contro la mafia che regnava nel tempio. L’indignazione di Gesù, la sua frusta, non possiamo facilmente liquidarla. E’ per noi un esempio di fronte al sistema mafioso che oggi domina la informazione  e la comunicazione in generale e che ancora attualmente in qualche modo regna nel nostro “tempio” dove noi non abbiamo la possibilità di prendere la parola perché ci tappano subito la bocca.

 

 

Beppe Pavan (laboratorio sull’ambito sociale)

 

                                                            affermare i diritti

                                                            per prevenire l’emarginazione

 

La parola “patriarcato” qui non è ancora uscita, però nel nostro laboratorio è stata certamente la parola chiave, diciamo il filone, su cui si è cominciato a lavorare. E di questo voglio dare conto, è giusto che dia conto, mentre nella seconda parte siamo entrati di più nel merito del tema dell’esclusione, dell’emarginazione, delle differenze.

Sul patriarcato è stata sostanzialmente condivisa l’analisi di questa cultura che è costitutivamente escludente, cioè che è l’inizio, la causa, il peccato originale, pur se molti interventi nel gruppo ne hanno richiamato la complessità. Non basta, ovviamente, dire “patriarcato” e pensare che abbiamo trovato la soluzione. Però, come diceva anche Piera, questa consapevolezza che sta crescendo anche all’interno del movimento delle nostre Comunità di Base rappresenta uno di quei cammini di speranza di cui siamo venuti a darci testimonianza. Un cammino che dobbiamo proseguire con convinzione attraverso tutte le strade su cui ci incamminiamo: la ricerca, il confronto, il cambiamento e tutte quelle cose che sono già state richiamate. La consapevolezza della nostra parzialità di donne e di uomini, questo cammino di speranza, trasversale a tutti, entra gradualmente, come crediamo, a far parte della nostra cultura e delle nostre forme e stili di vita.

Sul tema delle emarginazioni, un brevissimo elenco solo di quelle che sono state sollevate e testimoniate nel gruppo: preti sposati, omosessuali, stranieri e straniere, bambini difficili nelle scuole, nelle famiglie, l’handicap, le persone anziane, le donne. Alcuni hanno detto che emarginando chi ha bisogno di accoglienza e di cura ci autoescludiamo dalla modalità fondamentale delle relazioni. Non ascoltiamo e non parliamo con il cuore, con le emozioni. Particolarmente per noi uomini questo è un grande handicap. Per fortuna, per citare Carla, qualcosa sta cambiando. Questo cammino di speranza è in corso, è in cantiere ed è conveniente per tutti, perché ci mette in gioco tutti e ci aiuta a scoprire la parte di noi stessi che vive emarginata nel nostro profondo. Ci aiuta a cambiare facendoci acquisire, a poco a poco, competenze nuove nello stare in relazione aspetti nuovi sconosciuti della nostra identità. Ci aiuta ad individuare, nominare ed eliminare le radici profonde dell’emarginazione. Poco per volta certamente! Ma se non le identifichiamo, non le chiamiamo per nome non riusciremo certamente a fare questo lavoro di eliminazione. E’ conveniente a noi perché ci aiuta a vivere meglio con le persone, alla pari: accogliendo e sentendoci accolti reciprocamente. Accogliendo reciprocamente le nostre diversità individuali. Cito qui alcune testimonianze, quelle che nel gruppo sono state sottolineate come particolarmente significative. Alcune non sono qui presenti oggi ma comunque le abbiamo sentite nel laboratorio. Qualcuno ha parlato anche in assemblea. Giampierre il nostro amico del Tongo che lavora da molti anni in Italia, a Verona, ci ha parlato della sua scoperta e riscoperta dell’animismo africano da cui lui proviene ed in cui ritrova le sue radici. E ci ha detto che per gli animisti dell’Africa la realtà, la vita, è come un palcoscenico in cui ciascuno e ciascuna vive il proprio ruolo, cioè se stesso e se stessa in armonia reciproca. Quando uno esce dalla scena, muore, è consapevole di essere stato unico, quindi irripetibile e di non essere stato indispensabile e magari si ferma, dietro le quinte, a suggerire a quelli che sono rimasti. E qui ci ha parlato del legame, del rapporto, con chi ci ha preceduto, con i morti, con gli invisibili, di cui però sentono fortemente la presenza. Sulla stessa lunghezza d’onda, anche se con parole diverse, Vincenzo ci ha lasciato una testimonianza scritta. Condannato all’ergastolo, dopo ventotto anni di carcere scrive: “Credo che occorra fare bene il proprio mestiere di uomo sia esso di uomo libero che di uomo rinchiuso perché anche per chi è condannato all’ergastolo e non ha speranza di uscire esiste comunque un dopo, la speranza del dopo non muore rispetto al tempo della reclusione e questo dopo positivo dipende da un rapporto solidale, costruttivo e non indifferente. Chi è in carcere comunque, nonostante tutto, si prepara a tornare nella società e quindi non può esserci nessuna separatezza fra il carcere e la società esterna. Noi – dice parlando di sè e di quelli come lui – ci dobbiamo assumere in prima persona la responsabilità di un progetto di vita personale, ma non da soli, insieme agli altri: operatori penitenziari e società civile. Di qui passa la costruzione di una cultura nuova, più consona allo spirito delle leggi e delle norme, che permetta anche a chi vive a contatto diretto e quotidiano con il recluso un modo nuovo di concepire e mettere in pratica la propria professionalità e le proprie responsabilità”. C’è poi la testimonianza di Fausto e Bernardo che sono venuti al posto di Imma Battaglia che ci hanno detto delle cose simili dall’interno di un difficile percorso di vita come gay credenti: “Spesso noi omosessuali rivendichiamo accoglienza verso l’esterno, ma quasi mai facciano un lavoro orientato all’accettazione di noi stessi”. Ci hanno detto che, forse, gli stessi omosessuali devono cominciare a pensare alla diversità come valore in sé. Perché ogni persona ha valore così com’è. Non in funzione degli altri. Dio ci ama così come siamo e noi dobbiamo fare altrettanto a vicenda. Poi ci hanno parlato della loro grande sofferenza quando vanno a parlare di Dio in mezzo alle persone omosessuali. Spesso si sentono respinti, perché la Chiesa ha presentato loro un Dio che esclude, che non li ama. Io credo che noi, le comunità di base, devono vivere l’accoglienza ma anche dichiararla, renderla visibile, renderla conosciuta in modo che queste persone e altre che sono escluse nella nostra società possano sentire l’invito, la possibilità di essere accolti in alcuni spazi.

Ecco la seconda parte, velocemente, nel merito del nostro impegno, nel cosiddetto ambito sociale che era il tema del laboratorio. Sottolineo solo alcuni passaggi.

Il ruolo dei cittadini e delle cittadine impegnate nel volontariato, è stato detto da più voci, è quello di affermare i diritti per prevenire l’emarginazione, soprattutto pungolare lo Stato ad intervenire in prima persona per evitare che venga istituzionalizzato il volontariato e il suo ruolo di supplenza.

Inoltre è stato rilevato come ci si scontra spesso con il monopolio della Chiesa Cattolica a cui anche le amministrazioni di centrosinistra delegano molto, dando a lei tutte le risorse necessarie che invece negano o lesinano ai gruppi e alle associazioni non omologati ad essa.

Terzo dobbiamo cambiare mentalità, cultura, perché siano stati educati ed educate ad accogliere chi è diverso perché è inferiore, e talvolta addirittura lo facciamo sentire peccatore a cui noi diano il nostro perdono. Su questo terreno dobbiamo intervenire anche sulla mentalità della gente, cominciando, è stato detto, dai ragazzi e dalle ragazze nella scuola insegnando e imparando insieme a loro, in questo cammino, a conoscere senza giudicare. Occorre inoltre cambiare i nostri atteggiamenti e i nostri stili di vita e comunicare alle nuove generazioni le motivazioni ed il senso del nostro cammino perché non si interrompa. Perché non si debba ricominciare, ogni volta da capo.

L’ultima riflessione, e ho finito, è nata da una grande domanda di Noemi, è venuta alla fine questa domanda: non capisco, ha detto, come la diversità ci faccia liberi e libere dal momento che nella diversità ognuno ed ognuna deve sacrificare agli altri la propria libertà. Il dibattito confronto è stato molto vivace. Le risposte che abbiamo trovato sono sostanzialmente queste: la diversità ci fa liberi perché ci aiuta a cambiarci dentro, perché quel che sacrifico in realtà è una zavorra di cui mi libero. Ci fa liberi perché io non devo modificare gli altri ma accoglierli nel confronto ed è questo che modifica me. Anzi, non ci si deve proprio cambiare a vicenda, la libertà è accoglierci come siamo, allora si cambia. Il cambiamento avviene senza che ce ne accorgiamo, ma quando ce ne accorgiamo siamo felici del cammino che abbiamo fatto e di qui anche viene la generosa speranza per quello che ci rimane da fare.

 

 

Luigi Sandri (laboratorio sull’ambito religioso)

 

                                                            Gesù

                                                            facci conoscere

                                                            il Padre”:

                                                            interrogativi, contraddizioni, proposte

 

Proprio dieci anni fa stavo sulle rive della Moscova, fiume di Mosca, con un amico sovietico fisico, e discutevamo dei grandissimi temi: Dio, Cristo, le chiese, ecc. A un certo punto lui mi chiese la differenza fra cattolici, protestanti ed ortodossi. Spiegai quel che potevo e lui disse: queste differenze sono sciocchezze; il problema vero - lui era ateo - è Dio, se Dio esiste o non esiste. Ecco quella questione lì, quella di Dio, mi sembra che abbia percorso il nostro convegno, in particolare il nostro gruppo

Partirei da uno spunto del Vangelo quando a un certo momento un discepolo disse a Gesù “facci conoscere il Padre”. Il grosso problema di tutti i tempi e naturalmente nostro oggi è dare senso, sostanza a queste tre parole: Gesù - facci conoscere - il Padre. Chi è Gesù. Io penso che le Comunità Cristiane di Base, ogni gruppo cristiano, deve fare i conti con Gesù di Nazareth, se no non sarebbe cristiano. Ma il riferimento a Gesù fa nascere problemi. Perché storicamente, ma lo si vede ancor di più oggi, Gesù è una realtà che divide. Per la questione del potere universale che si è preteso di imporre in nome di Gesù, unico salvatore e fuori di lui non c’è salvezza né verità piena. E perché tante religioni credono in Dio, ma non credono che abbia rivelato attraverso suo figlio Gesù. Bisogna avere consapevolezza di questo. Quando si dà per scontato che Gesù è un fratello universale si dice una sciocchezza, perché per alcuni è un grande uomo, non è un fratello universale, oppure uno dei tanti fratelli universali, non è “il fratello”, l’unico figlio di Dio che solo può creare fraternità universale. Però Gesù è anche uno che costruisce i ponti, perché per molti Gesù, anche visto come personaggio che ha detto certe parole, è un punto di riferimento interessante, importante, comunque è un messaggio della storia. Però dobbiamo sapere che c’è questa oscillazione fra Gesù che divide e Gesù che unisce.

La conoscenza – “facci conoscere il Padre” - è il secondo aspetto. Dire che Dio si rivela agli uomini è un grossissimo problema. Come fa l’immanente a porsi in contatto con il trascendente, come fa l’infinito, l’ineffabile a parlare? L’ineffabile che parla si contraddice, si limita, quasi annichilisce la sua ineffabilità. Quindi dire che Dio si rivela non è una frase semplice è una frase complicatissima che sottintende a tutta una visione della divinità e dell’umanità. E poi come si è rivelato Dio? Si è rivelato attraverso il cervello, la testa, la penna, la mentalità, la cultura degli scrivani ebrei che ad un certo punto hanno messo per iscritto le tradizioni del loro popolo? Oppure attraverso chi ha messo per iscritto i racconti dei primi cristiani? Ma questo pone altri problemi. La mentalità di chi raccontava e di chi scriveva, ad esempio, era profondamente intrisa della presunzione che l’uomo maschio avesse la verità e il titolo di dominare la donna. Una delle cose più affascinanti ma anche più terribili della tradizione cristiana è il fatto che Dio ha accettato di parlare, di rivelarsi, attraverso uomini che avevano una struttura mentale maschilista che negava la volontà, l’ineffabilità, la grandezza di Dio che non è né maschio né femmina, ma è altro dal maschio e dalla femmina. Questo autoannichilimento di Dio noi dobbiamo saperlo e quindi il grosso problema della Scrittura è tirar fuori chi è questo padre: e se fosse madre? La scienza moderna, la laicità, Fromm, lo strutturalismo, i filosofi e i teologi moderni, l’elaborazione femminista… ci hanno fatto capire che Dio in cui noi credevamo è un Dio parziale, ingiusto e terribile perché diviso in se stesso. Questo è un tema caro alle comunità di base. Recuperare quell’altra metà nascosta di Dio è un grossissimo problema perché ci obbliga a ripercorrere duemila anni di cristianesimo che gronda di patriarcalismo, di maschile, cioè di tutta una mentalità per cui Dio era quello: da quel Dio maschile è arrivato il sacerdozio maschile. Io, esattamente una settimana fa, ero a Strasburgo ed una vescova luterana tedesca, ricordando la frase di Paolo “tacciano le donne nella chiesa”, disse: “ma noi siano sicuri che questa affermazione vale per tutti i secoli o non è solo riservata ad un problema locale della comunità di Corinto?”. Quindi vedete che l’interpretazione della scrittura divide le chiese e quindi rifarsi alla Bibbia pensando di poter risolvere tutti i problemi non è corretto. Non è sufficiente la Bibbia per risolvere nessun problema, tantomeno i problemi del mondo. Per questa ragione quando noi ci accostiamo alla Bibbia, per esempio nella lettura popolare della Bibbia, alla fine é sempre quello il problema: come testimoniare nella verità e nella operosità l’amore di Dio in Gesù di Nazareth alla gente, senza dividere.

E qui si apre il grande tema della laicità. Testimoniare il Dio di Gesù noi dobbiamo farlo nel contesto della laicità. Siamo in un paese laico, siamo in un mondo laico, e questa laicità è un dato, non è una disgrazia né una fortuna. Accettare la laicità significa purificare la Chiesa e spogliarla della sua pretesa di possere Dio, Gesù e la verità divina sull’uomo e sul mondo, oltre che liberarla di tutte le ricchezze ingiuste ed indebite con le quali si è arricchita o è stata arricchita durante i secoli. Ecco perché il nemico della istituzione è la laicità: la colpisce al cuore nella sua pretesa di potere e nella sua ricchezza.

La seconda questione è il pluralismo. Noi oggi se siano cristiani dobbiamo dire Gesù, parlare di Gesù, in un mondo plurale cioè in casa nostra. Adesso nel mio condominio ci sono tre musulmani e due induisti, non credo che bisogna andare in India o in Arabia Saudita per trovarli, sono lì. Come dico io Gesù di Nazareth agli ebrei, questo è già un problema a parte, ma ai musulmani, agli induisti? Devo cercare di dirlo, ma il come è da inventare, perché la storia non ce lo insegna. La storia italiana, con una chiesa monolitica e prepotente qual è la chiesa cattolica romana, non ci insegna questo. Perciò noi dobbiamo cercare di dire un Gesù che non esiste: è difficile! Bisogna assumere la consapevolezza che parlare di Gesù di Nazareth è doloroso e contraddittorio. Ma questo del Vangelo è il messaggio che io ho, e non posso rinunciarci in nessun modo, se no non sarei cristiano. Il problema è come dirlo senza offendere e come porsi con le mani aperte rispetto all’altro che parla di un altro dio, di un altro mondo religioso. Se io devo accogliere l’altro, devo stendere la mano per ricevere i suoi doni mentre io gli do i miei doni e chissà che cosa succede in questo scambio di doni fatto nella semplicità, nell’amicizia e nella povertà. Chi sa che non cresca qualche cosa di positivo. Certo i vari cardinali Biffi hanno paura! Ma non perché pensino che il Vangelo ne verrebbe scosso, perché intuiscono che scosso è il loro potere.

C’è poi il problema dell’alterità, noi dobbiamo avere il coraggio, in questo Paese, come bene l’ha descritto Giovanni Avena e anche don Luigi di dire in faccia a Pietro il nostro dissenso. La lettera ai Galati, quando Paolo si pone in modo critico in faccia a Pietro, deve essere costitutiva del nostro agire. Non già perché noi siamo le mosche cocchiere che hanno capito tutto prima degli altri. Non siamo nessuno. Ma ci sono delle cose che in Italia sussurrano tutti. Soprattutto prima del caffè, dopo il caffè, chiacchiere di corridoio che però non si dicono a viso aperto perché non è politica. Ma in quest’Italia che è intrisa di strapotere Vaticano che traborda da tutti i pori, come potremo noi tacere di fronte a queste prevaricazioni? Io credo che se noi non lo facessimo, se noi tacessimo di fronte a questo, verremmo meno, non chissà a quale cosa, verremmo meno alla grazia che Dio ci ha dato di dissentire, in nome del Vangelo, da chi tradisce il Vangelo. Dissentire non contro la persona, sia ben chiaro, che solo Dio giudica, ma verso la istituzione costruita sulla sabbia, ma tanto potente. E’ nostro dovere. Chi accetta di far parte delle Comunità di Base sappia che non è una passeggiata ma è un obbligo di coscienza che si assume di fronte alla storia, di parlare chiaro e forte. Mentre c’è una vergognosa latitanza dell’intellighentia italiana laica, grandi giornali, e religiosa, tantissimi teologi. Perciò ringrazio, in particolare, don Luigi, che ha fatto una cosa importantissima, perché la Chiesa guarda i segnali e non le chiacchiere, quando lui ha mandato un messaggio di solidarietà al raduno mondiale dei Gay a Roma. Luigi lo ha mandato, e questo è un segnale per lui disgraziatissino perché l’hanno segnato nel libro nero. Altri invece che pensano come lui, che dicono “la tolleranza”, poi però il messaggio non l’hanno mandato. Al raduno a Roma non sono venuti.

Io credo che malgrado tanti segni di difficoltà, dappertutto guardate c’è una grande speranza, non pensiamo, non pensate, che l’Italia è tutto, l’Italia è una provincia del mondo. Ma se voi girate al di là della Alpi ci sono tantissimi segni di speranza. Un segno di speranza, secondo me, grande che ci dovrebbe animare è la prospettiva, il sogno di un nuovo Concilio Ecumenico in cui possano avere spazio tutte queste idee, non solo le nostre piccole idee, ma le idee che vengono da tutti.

Un altro esempio di speranza è per esempio che il prossimo anno a Madrid c’è una grande riunione di tutti i movimenti, diciamo così, riformisti cattolici. Anche questo non è che risolve tutto, però è un segnale che quello che noi diciamo è una cosa sentita forse dalla maggioranza dei cristiani attivi.

 

 

Il secondo giro di interventi dei relatori.

 

 

Felice Scalia

 

Questo è il primo convegno dopo il 12 marzo 2000. Una chiesa che si accorge dei suoi errori, una chiesa cattolica che riconosce i suoi errori avrebbe fatto gioire padre Balducci, quel padre Balducci che ieri abbiamo sentito nel brano di una lettura, e fa gioire noi. Questo è un fatto inedito e controverso, come fu controverso l’incontro di papa Wojtyla ad Assisi in occasione della preghiera della pace. Allora, la domanda: c’è questa chiesa diversa, capace di autocritica, ma essa, per riprendere una sollecitazione di ieri di Enzo Mazzi, fa diverse anche le comunità di base nate in un altro clima culturale? E’ nato qualcosa di nuovo per cui anche noi, forse, dobbiamo porci determinati altri problemi?

Secondo: nella chiesa cattolica ci sono due anime. Nello stesso cuore del papa c’è la critica al neoliberismo e la nomina di vescovi in America Latina legati all’Opus Dei. C’è la nuova evangelizzazione e c’è il catechismo universale della Chiesa Cattolica. La chiesa è percorsa da questa dualità. Cosa pensano di fare le Comunità di base per far crescere quell’anima che ci sembra più rispondente ai segni dei tempi?

Terzo: se le Comunità di base non sono un’altra chiesa ma una “chiesa altra”, sono possibili dialoghi, collaborazioni con chi realmente, e non a parole, sta tentando una nuova evangelizzazione? Questa nuova evangelizzazione, per me, non è una paroletta, è una realtà seria che parte, almeno, dal 3 marzo 2000.

Infine, i giovani al Convegno sono una novità. Che pensiamo di fare? Alcune risposte già ve le siete già date e alcune domande sono state già poste in questo senso. Troveranno nelle Comunità di base anche la cultura e la fede per dialogare, non solo con le altre culture, ma anche con i giovani?

 

 

Silvio Garofalo

 

Vorrei cominciare da un discorso che faceva don Luigi Ciotti e che proseguiva Giovanni Avena. Il concetto di mafia ha un suo denominatore comune, c’è una cosa che accomuna il banchiese di Wall Street e il mafioso della Vucciria: il principio per cui un diritto diventa un favore. Questo il senso della mafia. Io ti faccio il favore di farti lavorare e non riconosco il tuo diritto al lavoro. Ti faccio il favore di darti una casa e non riconosco il tuo diritto alla casa. Nel momento in cui diritto diventa favore, abbiamo un comportamento mafioso. E la globalizzazione sotto questo profilo è un comportamento mafioso e la chiesa, nel momento in cui concede Dio come se cosa di proprietà sua, ha un comportamento mafioso. L’affermazione del diritto quindi è anche il rigetto di questo sistema, ed è chiaro che, come ci ricordava Giovanni Avena, il rivendicare il proprio diritto di non accettare il favore significa uscire dal sistema. E questo bisogna avere il coraggio di dirlo, come dice Luigi Sandri. Io non accetto questo sistema, non voglio il tuo favore perché questo è il mio diritto, e parlare sotto questo profilo è importante e noi abbiamo sperimentato anche questo, nelle Comunità di base e nei movimenti progressisti cattolici. Parlare apertamente significa non soltanto esprimere un dissenso nei confronti di colui che è nostro interlocutore, il destinatario di questo dissenso, in primis la chiesa cattolica, ma anche dare agli altri, a quelli che stanno attorno a noi, elementi di speranza, far pensare a tutti e noi stessi pensare che non siano soli nell’esprimere questo dissenso, penso ad esempio all’esperienza del mio conterraneo don Vitaliano Della Sala ridotto al silenzio per aver partecipato al Gay Pride, e questo costituisce un universo, una galassia di speranza.

Ma combattere questo sistema mafioso significa anche combattere un sistema di morte perché spegnere dal ciclo produttivo una persona a cinquanta anni significa farla morire. Non si muore solo di lupara, si muore anche di questo. Ed è contro questa espulsione, contro questo fatto che sei vivo soltanto se produci se sei inserito nel sistema della globalizzazione che dobbiamo combattere. Esiste un valore di persona che travalica il sistema.

 

 

Luigi Ciotti

 

Cinque passaggi veloci. Il primo: quando io parlo di “mafia” intendo anche il mondo della produzione. Il ventisei per cento dei processi di tangentopoli sono andati in prescrizione. Il prossimo anno saranno il quaranta per cento. Fra tre anni saranno l’ottanta per cento. Allora alcune riforme di giustizia che nel Paese non sono state attuate hanno delle gravi complicità e delle gravi responsabilità. Un esempio: il carcere. Dopo quell’invito del Papa a un atto di clemenza, l’accordo era stato trovato in Commissione, come molti di voi sapranno; è documentato e scritto ed è agli atti. L’accordo consisteva in questo: il Polo accettava qualunque forma di clemenza come l’indulto ecc. se da questa parte si accettavano cinque anni di amnistia che equivale esattamente a coprire tutti i reati di tangentopoli. Giustamente un sussulto c’è stato da parte della sinistra, che non c’è stato in altri temi, ma qui per lo meno c’è stato. E la conclusione è stata l’azzeramento della clemenza. A pagare il prezzo di questa ingiustizia, di questa arroganza, di questa superficialità sono i poveri cristi che costituiscono la stragrande maggioranza dei reclusi nelle carceri italiane. Il problema è di un senso diffuso di illegalità e la corruzione ritorna alla grande come le mafie.

Secondo passaggio. Mi permetto di parlare dei giovani: ho una preoccupazione, perché la stragrande maggioranza del mondo giovanile oggi è in periferia. Ogni città ha le sue periferie sociali, sono quei ragazzi che non appartengono ad associazioni, che noi troviamo seduti sotto i monumenti, che stanno sulle panchine, il loro grande riferimento sono le incursioni ai centri commerciali delle grandi città: chi intercetta oggi questi giovani?. E quelle migliaia di giovani che cliccano tutto il giorno, che inseguono un virtuale che li allontana sempre più dalla realtà, dalla storia delle persone: chi li intercetta questi giovani? Inoltre c’è quel disagio, scusate l’espressione, sommerso, che costituisce un dato che nessuno di noi avrebbe immaginato fino a poco tempo fa. La depressione nel mondo giovanile è un dato che emerge. Ma chi avrebbe detto dieci anni fa che quest’anno dai referti medici abbiano 134 mila persone, in gran parte giovani, con il problema delle bulimie e circa 35 mila con l’anoressia. E quel disagio, quella fatica che molti ragazzi vivono rispetto a separazioni che ci sono in casa... Cioè in sostanza voglio dire che abbiamo il dovere di mettersi a fianco, di operare con questi giovani e dare continuità a tutto questo.

Terzo. C’è un altro territorio oggi inquietante su cui io credo noi insieme dobbiamo portare il nostro contributo per costruire legalità: è Internet, perché è un territorio di assoluta illegalità, c’è tutto e il contrario di tutto. E’ un territorio in cui noi dobbiamo essere presenti per non trovarsi a rincorrere dopo guasti irreparabili. Dobbiamo attrezzarci prima per portare un contributo, anche con la nostra passione per la legalità. Quinto, io vi ringrazio molto, vi chiedo scusa se dovrò scappare e non posso sentire gli altri amici, vi ringrazio di questo invito, ancora una volta ho avuto la gioia di sentire mio un passaggio detto nel laboratorio a cui ho partecipato: non cercare gli uomini per trovare Dio, ma cercare Dio per incontrare gli uomini.

 

 

Giovanni Avena

 

Il tempo non ci consente discorsi che necessariamente sarebbero lunghi per progettare qualche cosa, qualche percorso di speranza in ordine all’informazione. Quindi mi limito semplicemente ad accenni.

Intanto voglio dire una cosa che può sembrare provocatoria riguardo al concilio, alla convocazione di un concilio. Io credo che sia una cosa molto bella pensarla, immaginarla, sognarla come l’abbiamo sognata negli anni ’50. Però oggi siamo più avvertiti e quindi dobbiamo stare un po’ più attenti. Potremmo creare le condizioni perché un altro concilio venga convocato, nel corso del quale centomila speranze potrebbero essere accese, sapendo però che già c’è una cabina di regia che stabilirà la data in cui comincerà lo spegnimento. Questo è avvenuto col Concilio Vaticano II. E oggi i registi della normalizzazione sono ancora più avvertiti dopo quel Concilio. Allora penso che sarebbe importante preparare alla base, in ogni ambito di base, una fase ante-preparatoria di un concilio. Vi ricordate che Giovanni XXIII diede dei tempi, nonostante lui avesse poco tempo a disposizione istituì una fase ante-preparatoria, poi una fase preparatoria e poi venne il Concilio. Ecco noi dovremmo preoccuparci di più oggi di fare una preparazione, un’ante-preparazione di base per ottenere, casomai, la convocazione di un concilio che sia veramente ecumenico, che sia veramente popolare, altrimenti si ripetono gli stessi errori, le stesse delusioni, le stesse morti. Allora, forse, dopo questa fase ante-preparatoria, un concilio dovrebbe essere convocato per sciogliere la società per azioni che regge queste strutture istituzionali che imprigionano Gesù Cristo e imprigionano le coscienze.

Riguardo all’informazione, credo che noi dobbiamo inventarci qualcosa che contrapponga al sistema mafioso della informazione la globalizzazione delle marginalità. La periferia, la marginalità, il margine, deve diventare il centro e questo centro vitale che ha pochi mezzi ma che sogna che pensa che soffre che immagina che ha sapienza, ecco deve poter imporre questa sua marginalità globalizzata. Noi dobbiamo inventarci qualcosa, sinergie, fusioni, ma soprattutto impegno comune e unito perché si possa fare della informazione un tema centrale dei nostri prossimi percorsi di speranza.

 

 

Beppe Pavan

 

Vorrei dire grazie prima di tutto alle donne che, come ci ricordava Giovanna, hanno imposto il tema di Vico Equense e adesso grazie anche a quegli uomini che si stanno mettendo in cammino, ognuno a modo suo. Certamente anch’io ho potuto con gioia constatare che questo cammino è in cantiere e quindi condivido la proposta che faceva don Ciotti di usare la “e” invece della “o”. Benvenute dunque tutte le iniziative, tutte le proposte che sono emerse qui in questi giorni, quelle che faremo e verranno fuori in mille altri momenti, incontri, ecc. Sono convinto, e non solo io, che sconfiggeremo il patriarcato, il capitalismo, la globalizzazione, tutte le forme che assumeranno nel tempo e nello spazio solo quando gli uomini riconosceranno il patriarcato stesso e lo rifiuteranno. Non bastano le donne che facciano questo processo perché il potere è incarnato nei maschi, negli uomini. Tocca a noi riconoscerlo e opporre il nostro dissenso, il nostro rifiuto. Fino a quel giorno cambierà forme, cambierà nomi, cambierà modalità con cui si presenterà sulla scena mondiale ma sarà sempre quello: “il dominio maschile”, come s’intitola un libro che vi invito a leggere.

E infine su questo vorrei riprendere la domanda che mi ha fatto ieri Enzo Mazzi, personalmente lui non l’ha ripresa qui pubblicamente, ma è da ieri che ci sto pensando. Se ho capito bene Enzo mi ha detto: può essere anche corretta l’analisi che abbiano fatto in questi giorni sul patriarcato come radice del potere, radice di tutti questi problemi; ma qual è allora la radice del patriarcato? Da dove nasce il patriarcato? Perché ha fatto e fa tanta presa? C’è una radice storica o psicologica? Oppure ci si rifugia nelle ragioni mitiche tipo il peccato originale? Non ho ancora risposte, ci sto pensando da quando me l’ha fatta questa domanda, ci penserò su, leggerò. Però intanto ecco il mio invito: facciamolo tutti questo lavoro di riflessione e di pensiero e non facciamoci soltanto domande a vicenda che a volte, non è il caso di Enzo perché da quello che leggo, da quel poco che lo conosco so che non è così, ma mi capita di incontrare uomini che negli incontri nei dibattiti ecc. mi fanno la domanda intelligente, come dire insomma è una roba tua se vuoi, ma non è quello che conta. Ecco facciamo tutti questo percorso di autoconsapevolezza. Finché non avremo questa consapevolezza di qui non ne veniamo fuori. Quello che ci ha chiesto Giovanna, io l’ho sentito nelle sue parole, lo ha chiesto a nome di tutte le donne del mondo, non solo quelle delle Comunità di base.

 

 

Luigi Sandri

 

A proposito di concilio vorrei chiarire che una cosa è un concilio ecumenico altra cosa è il concilio universale. Un concilio autenticamente universale non c’è mai stato. Autenticamente universale vuol dire: rappresentativo di tutto il popolo di Dio, donne, uomini, teologi, non teologi, vescovi, non vescovi, preti, non preti, consenzienti, dissenzienti.

Noi, penso, abbiamo un grande compito, non solo noi sia ben chiaro, ma anche noi insieme a tutti: di dire Dio con categorie diverse e anche col silenzio su Dio. Dopo duemila anni di concili, di discussioni, tenuto conto del passato, dobbiamo preparare il futuro, questo si fa mettendo l’orecchio all’ascolto delle altre chiese. Nelle altre chiese ci sono tantissime riflessioni sul modo di dire Dio, Gesù Cristo in maniera differente: dobbiamo conoscerle. Sul dissenso vorrei pregare che voi nel futuro, è già cominciato il futuro, abbiate la possibilità di vivere la diversità nella gioia. Gioia che magari molti di noi non abbiamo avuto perché abbiamo sofferto per non allinearci alle esigenze del potere. Ma come dice Gesù, capitolo IV° di Giovanni: “levate gli occhi guardate la messe già biondeggia per la mietitura”. Io auguro a voi di raccoglierla.

 

 

Maria Sbaffi Girardet

 

Vorrei dire che dobbiamo darci un grande grazie reciproco per tutto quello che abbiano vissuto insieme, in questi giorni e in particolare questa mattina, in questa tavola rotonda, un grazie ai relatori che ci hanno dato il loro contributo, un grazie ai laboratòri che hanno ispirato tali contributi, a tutti quelli che sono intervenuti.

Mi ero proposta di concludere riprendendo lo spunto delle “ pietre scartate” con cui ho iniziato e lo faccio con una frase che ho trovato nel documento di apertura del nostro Incontro, che mi sembra rispecchiare quello che abbiamo vissuto in questi giorni: “noi privilegiamo però il confronto con le realtà che si muovono dal basso nella società e nelle chiese e che non si limitano a dire agli altri che cosa devono o non devono fare, ma fanno operano nel piccolo con l’attenzione al grande integrando utopia e realismo, sono le pietre scartate dai soggetti forti esaltati dalla globalizzazione. Siamo convinti che queste sono una forza per costruire un assetto pacifico nel pianeta a partire da interventi diretti”. Grazie.