Giovanni Franzoni

10, 100, 1000 cessate il fuoco  

“la Rinascita”, 7 luglio 2006

 

In Iraq e Afghanistan la priorità è promuovere la riconciliazione

 

Il decreto governativo sul rifinanziamento della missione militare italiana in Afghanistan, nell’ambito di un’operazione Nato che pretende di autodefinirsi “missione di pace”, piomba come un capestro su un dibattito non sufficientemente maturato nell’Unione. Dovendo andare in Parlamento entro la metà di luglio non è facile vedere un chiarimento convincente circa i limiti imposti alle regole d’ingaggio, l’uso o il non uso di armi pesanti, il rapporto con i comandi di altri settori dell’impegno Nato, il rapporto con la popolazione locale per lo più favorevole ai combattenti insorgenti soprattutto per quanto attiene alle tribù pashtun, il confronto/scontro con i talebani identificati troppo semplicisticamente con il termine terroristi, la legittimazione del traballante governo Karzai e molto ancora.

Gli stessi parlamentari storicamente impegnati sul problema della pace e della compatibilità delle cosiddette missioni di pace con l’articolo 11 della Costituzione, pur tutti convinti che la terminologia “missione di pace” sia ingannevole e mascheri una vera e propria guerra, si dividono. Alcuni ritengono che, pur votando il rinnovamento dell’impegno, la questione resti aperta e suscettibile di sostanziali mutazioni in corso d’opera, sotto l’assidua sorveglianza di un Osservatorio Internazionale e del Movimento stesso della pace ed escludono di mettere in crisi il governo Prodi che per molte iniziative di ministri solerti ha già cominciato ad operare in modo antagonista rispetto al governo precedente. Altri invece ritengono di dare una tale priorità ed oserei dire assolutezza, al tema della pace da voler smascherare immediatamente la missione di pace votando contro e costringendo il governo ad accettare la stampella del centro-destra. Personalmente debbo sottolineare che fare del problema della pace una questione di coerenza con i nobili principi del Movimento ed ignorare le differenze sul campo ed i soggetti in conflitto è semplicistico  ed un po’ eurocentrico.

Come Associazione “Italia-Iraq. L’Iraq agli iracheni” abbiamo dato la precedenza all’ascolto dei soggetti della Resistenza che non abbiamo mai voluto far coincidere con gruppi che operano un’altra guerra infinita con atti violenti anche contro la popolazione che non li segue. Bisogna poi ascoltare le etnie da cui sono stati tratti i collaborazionisti. Non sarei d’accordo ad abbandonare l’Iraq senza prima essersi assicurati che non avvenga un massacro di peshmerga curdi che hanno appoggiato l’occupazione. Urge promuovere una vera riconciliazione. Non mi sembra corretto entrare in casa d’altri, devastare, uccidere, sperimentare nuovi sistemi d’arma, deportare popolazioni ed aggravare i conflitti etnici preesistenti e poi andarsene senza preoccuparsi della riconciliazione.

Per questo la presenza di militari italiani in Afghanistan, se ci sarà, dovrebbe essere una presenza che favorisce le tregue, lo scambio di prigionieri, la cura dei deboli e non l’assalto ad un nemico che non abbiamo. La sera del 27 giugno, nella manifestazione dei pacifisti davanti a Palazzo Chigi ho proposto uno slogan: “Dieci, cento, mille…cessate il fuoco”. Di fronte a questa posizione flessibile e possibilista si erge la posizione di coscienza di alcuni parlamentari che pensano di votare  contro il decreto, salvo una modifica che esprima chiaramente la discontinuità con la missione precedente. Non si può negare che questa posizione abbia una sua logica e coerenza. Però quando una decisione di coscienza passa sulla decisione di coscienza dei compagni attraversando il loro operare politico, all’obiettore si prospetta anche la possibilità di dimettersi e tornare in piazza. Saremo insieme.