David Gabrielli 

E se Benedetto XVI  fosse diverso da Ratzinger?

Da Confronti - maggio 2005

 

Dunque, il 19 aprile è iniziato il «regno» di Benedetto XVI, il porporato tedesco Joseph Ratzinger, decano del Collegio cardinalizio e dal 1981 – per volontà di Giovanni Paolo II – prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il dicastero della Curia romana che vigila sulla «ortodossia» dei cattolici.

     L’età stessa del prescelto, 78 anni, dice che almeno i due terzi dei 115 cardinali elettori hanno deciso che il successore di Karol Wojtyla (fatto papa all’età di 58 anni!) dovesse avere davanti a sé – umanamente parlando – un pontificato breve. E, perciò, un pontificato di «transizione». Parola che, nel linguaggio della Chiesa cattolica romana, significa: dopo un pontificato lungo e complesso, si desidera un «inter-regno» che porti avanti sostanzialmente le linee-guida di quello precedente, senza innovazioni audaci, in modo da far «riposare» la Chiesa e permettere, al conclave successivo, di scegliere un candidato più caratterizzato. Questo, però, in teoria.

     Dopo la morte di Pio XII, che aveva regnato 19 anni, attraversati dal dramma della seconda Guerra mondiale, i cardinali nel 1958 scelsero appunto un «papa di transizione», Giovanni XXIII. Sappiamo poi come è andata: l’imprevisto evento, da lui voluto, del Concilio Vaticano II, costituì uno spartiacque cruciale tra un «prima» e un «dopo».

     E, infatti, proprio la custodia, l’interpretazione e l’attuazione («quali»?) del Vaticano II hanno innervato il pontificato wojtyliano, costituendone la disomogenea cifra di valutazione. Scegliendo Ratzinger, il conclave – composto in maggioranza da porporati quasi angosciati dai problemi che gravano sulla Chiesa romana, e dall’incombenza della modernità – ha deciso che colui che era stato il grande consigliere di tutti i documenti dottrinali e pastorali emanati da Giovanni Paolo II dovesse essere anche il suo successore. In altre parole, per rassicurarsi, i cardinali hanno reso indissolubile la coppia Wojtyla-Ratzinger.

     Papa Ratzinger sarà dunque il successore di se stesso – per così dire – e cioè la replica di quel severissimo castigatore delle teologhe e dei teologi troppo, secondo lui, «conciliari», e di quell’aspro messaggero di pronunciamenti dottrinali («quelle della Riforma non sono Chiese in senso proprio») e diktat pastorali (dal no alla contraccezione al no alla donna-prete al no alle unioni civili degli omosessuali al no alle nuove nozze dei divorziati) che molte e molti nella Chiesa romana rifiutano, in linea teorica e nella concreta prassi? Questa eventualità è certo plausibile: se così fosse, si aprirebbe però nella Chiesa romana una drammatica polarizzazione, quasi uno scisma latente, sebbene non proclamato ufficialmente ma vissuto nell’intimo delle coscienze.

     Tuttavia vi è anche un’altra possibilità, e diversi segnali ci fanno ipotizzare che, almeno in certo grado, Ratzinger sceglierà questa via (d’altronde egli, come «perito» conciliare, era «progressista». Poi cambiò idea. Ora… chissà). Del resto, di fronte ad una Chiesa divisa, dalla base ai vertici, sulle linee teologiche e pastorali da seguire, e sulla comprensione del Vaticano II, potrà il nuovo papa, non solo vincere, ma voler stravincere come «Signor No»? A noi pare che, analizzati la situazione e lo stato della Chiesa, i cardinali abbiano affidato ad un «conservatore» l’attuazione di desiderate riforme (chieste da moltissimi fedeli), al fine di rassicurare i dubbiosi e i timorosi che, se queste si faranno, saranno affidate ad una persona che non compirà «imprudenze» o scelte teologiche e pastorali «pericolose».

     Quali scelte? Prima di tutto, la «collegialità»: Wojtyla molto parlò di essa, ma nulla attuò. Sappiamo che i porporati, nel pre-conclave, hanno reclamato l’attuazione della collegialità, intravista dal Vaticano II ma rimasta sulla carta. In verità, nell’enciclica Ut unum sint (1995) Giovanni Paolo II aveva proposto la modifica dell’«esercizio del ministero petrino», pur mantenendo saldissima la sua «sostanza». Modifica, in parole povere, dovrebbe significare la fine dello stile papale «assolutista» e «monarchico», con un papa che, di norma, regga la Chiesa in modo collegiale, presiedendo un Sinodo (dei vescovi, ma aperto anche ai laici, uomini e donne) che non sia solo un «consiglio della corona», decorativo e vuoto, come è ora il Sinodo dei vescovi, ma diventi davvero un corpo deliberante del papa con i vescovi, e ascoltando sul serio il «popolo di Dio».

     Valutando il «trend» che poi ha portato all’elezione di Ratzinger, noi riteniamo che il nuovo papa «dovrà» attuare riforme importanti nella Chiesa romana. Del resto, lo ha fatto intendere lui stesso nel suo primo discorso ai cardinali, la mattina del 20 aprile: «Voglio affermare la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del Concilio Vaticano II… L’attuale successore di Pietro è disposto a fare quanto in suo potere per promuovere la causa fondamentale dell’ecumenismo… Assicuro quanti seguono altre religioni che la Chiesa vuole continuare a tessere con loro un dialogo aperto e sincero, alla ricerca del vero bene dell’uomo e della società».

     Adesso, però, saranno i fatti – fatti incontrovertibili – a dimostrare se vi sarà reale discontinuità tra il papa e il prefetto dell’ex Sant’Uffizio o, ahimé, sostanziale continuità. E – tema capitale – come egli si farà interrogare dalla massa di impoveriti, per la prepotenza del Nord, nel Sud del mondo, là ove vive la maggioranza dei cattolici. Auguri, papa Benedetto!