Il presepe nella storia globale

Miti il simbolo cristiano della Nascita fra altre Narrazioni

Enzo Mazzi

Da il manifesto 28 dicembre 2004

 

Il presepe fa problema solo per il rispetto dovuto ai bambini (e agli adulti) appartenenti a fedi, culture e religioni altre? Se non ci fossero fra noi islamici, buddisti, animisti e atei, il presepe sarebbe da considerare una espressione di identità religiosa e culturale cristiana perfettamente coerente? Questi interrogativi non riguardano persone come Letizia Moratti. Per la ministra della pubblica istruzione non esiste il problema del rispetto verso i «diversi»: il presepe è simbolo universale di amore, per chi è credente e per chi non lo è - ha scritto in una lettera natalizia a tutte le scuole -, non togliete il simbolo dell'amore dalla vita dei nostri studenti. Lei non ha dubbi. Non vede nemmeno in penombra il carattere imperiale, sottilmente violento, dell'universalismo cristiano e dei suoi simboli di «amore»: il presepe e ancor più il crocifisso. Forse conviene prendere in considerazione i problemi di coerenza interna che ha il presepe. Perché è un simbolo e come tale va interpretato. Il suo significato sta oltre. Lo sappiamo: sta nel racconto della nascita di Gesù fatto dal vangelo di Matteo e di Luca e da altre antiche fonti cristiane. E qui nasce un primo problema.

Il racconto dei vangeli è un mito. Ed è un mito inserito nella grande storia della mitologia di fondazione. Ogni religione ha il mito della nascita prodigiosa del proprio fondatore. L'unicità irripetibile dell'essere che viene al mondo, la vergine che partorisce rompendo gli schemi consueti, la paura che incute il nuovo che nasce, il rifiuto da parte dell'ordine costituito, l'accoglienza da parte degli emarginati e la partecipazione della natura intera, comprese le stelle: sono gli elementi più o meno ricorrenti dei miti delle nascite. Svelare una tale affinità non è considerato ormai più, negli stessi ambienti cattolici più aperti, una diminuzione del valore della nascita di Gesù, anzi la esalta. Mito fra i miti: è una grande valorizzazione. E' il trionfo della cultura della convergenza, della interdipendenza e infine della nonviolenza. Il cattolicesimo della pace e della nonviolenza non può non tenerne conto.

Se il presepio non dice questo è un simbolo sostanzialmente vuoto. O meglio è un simbolo che trasmette automaticamente una ideologia di potenza. Indipendentemente dalle intenzioni. Francesco non aveva certo intenzioni di potere quando nel Natale 1223 realizzò il presepe vivente di Greccio. Voleva esaltare la povertà di Gesù come modello del nuovo ordine la cui regola era stata approvata una mese prima da Onorio III. Ma come la regola, anche il presepe fu presto ingoiato dalla ideologia di potenza.

Sottratto alla storia delle mitologie fondative, presentato da solo, il presepe dice che la nascita di Gesù non sarebbe assolutamente assimilabile alle altre nascite miracolose. Queste sarebbero frutto di immaginazioni devote ma non avrebbero niente di reale. Quella invece, cioè la nascita di Gesù sarebbe un vero miracolo, l'unico vero miracolo: irruzione, unica e irripetibile, di Dio nella storia attraverso l'incarnazione del divino Figlio unigenito. E via di questo passo, da immagine di potenza a immagine di potenza.

C'è di più. C'è il farsi storia: il mito che diviene reale attraverso l'impegno dei gruppi di donne e uomini concreti, i cristiani dei primi tempi, a cominciare dal gruppo che si era costituito insieme e intorno a Gesù. Essi tendono a realizzare nella loro vita e nella società intera gli elementi di liberazione e di salvezza, descritti sopra, quegli elementi che essi stessi avevano inserito profeticamente nel mito della nascita di Gesù. Il loro nascente movimento si riconosce nel parto verginale fuori dalle regole convenzionali e dai connubi col potere. Il loro movimento è il nuovo che nasce nei luoghi della emarginazione (la grotta), è il nuovo che mette paura, rifiutato dai potenti, annunciato dagli angeli, accolto dagli umili, protetto dalle stelle. La nascita mitica di Gesù, che le prime comunità cristiane inseriscono nella redazione dei Vangeli, rappresenta la loro nascita reale come movimento nella storia. E anche questo farsi storia da parte dei cristiani è inserito nel processo umano composto da una immensa pluralità e varietà di storie di salvezza e di liberazione.

Vedere il cristianesimo delle origini inserito con tutta la propria originalità nella pluralità dei movimenti di salvazione e liberazione non è un declassamento. E' invece una enorme valorizzazione. Lo si capisce oggi in questa cultura della globalizzazione che ha come risvolto positivo il senso della intercultura: tanto più «si è» quanto più si riesce ad «essere insieme agli altri», ai diversi da noi.

Che tutto questo abbia a che fare con la rivelazione divina è questione di pura fede. E sono ormai moltissimi nel mondo intero i credenti che cercano e trovano un Dio che si rivela nella storia attraverso la pluralità di fedi ed esperienze profetiche e religiose. Vogliono un Dio libero dalle catene che lo imprigionano in un solo credo, assoluto ed escludente. Ma anche prescindendo dalla fede nel Dio che si incarna in una pluralità di esperienze religiose, è già denso di valori umani il fatto che il nascere, la vita che perennemente risorge venga sottratta alla consuetudine quasi banalizzante senza mistero, venga strappata alla piovra onnipotente del mercato che si protende avida su ogni gestazione e su ogni parto, e sia miticamente collegata invece alle profondità inesplorate della nostra esistenza e del cosmo intero.

Che c'entra tutto questo col presepe? Se tale simbolo cristiano così caro alla poesia del Natale è uno fra i miti delle nascite, allora va «svelato», liberato dalla sua unicità escludente: «fuori dal Natale cristiano non c'è autentica salvezza», ricondotto alla sua vera natura che consiste nell'essere partecipe del pluralismo delle esperienze religiose salvifiche e liberatrici dell'umanità.

Mai il presepe da solo. E mai il presepe «imperiale» aggiornato, coi neri al posto dei pastori, con i bambini bombardati o in preda alla fame e con altri simboli dei mali e delle ingiustizie attuali. In sostanza, mai il presepe in cui tutto converge sempre e solo verso il Bambinello, re e centro della storia e unico salvatore del mondo. Piuttosto il presepe, in forma di icona o anche di narrazione, fedele alla narrazione del vangelo e della tradizione, unito ad altre icone e narrazioni mitologiche di nascite. Per dare sempre il senso della storia nella sua pluralità.

Non mancano esperienze educative, fuori e dentro la scuola, nelle stesse comunità cristiane più aperte come le comunità di base, che tentano strade nuove per dare concretezza a tali convinzioni. In sostanza non sottraggono ai bambini nulla della poesia del Natale ma integrano tale poesia con la poesia di tanti altri natali: il natale del sole, della natura intera, delle fragili esistenze di un nido, il natale di Budda, di Maometto e di tutto ciò che una attenta ricerca storica può offrire. E' quanto stiamo facendo ad esempio a Firenze all'Isolotto, nella comunità di base, da anni e anche in questo momento.

La difesa e l'apologia del presepe come simbolo d'identità culturale e religiosa, sacralizzato e separato dalla pluralità di simboli analoghi nella storia umana, è una difesa dell'ideologia di potenza insita nello presepe stesso. Se non si hanno strumenti per interpretarlo come parte di un processo storico, alla pari dei simboli di altre religioni e culture, nell'orizzonte di una cultura di nonviolenza, allora meglio, molto meglio farne a meno.