Enzo Mazzi

Tutte le scoperte dell'alluvione del '66
 

Il manifesto 31 ottobre 2006

In quell'evento sconvolgente dell'alluvione del '66 a Firenze ho scoperto due cose strettamente legate fra loro.
Ho scoperto in primo luogo l'assenza dello Stato e il valore dell'autogoverno popolare. Non era per la verità una scoperta, ma una conferma. Da molti anni ci rendevamo conto che la politica rispondeva in modo inadeguato e spesso strumentale ai bisogni della gente. L'alluvione fu una conferma brutale. Vedemmo arrivare i soldati ma sprovvisti delle ruspe necessarie a spalare il fango o di altri strumenti di soccorso, erano invece ben forniti di mezzi antisommossa. Trovammo al Campo di Marte masse di aiuti da tutto il mondo lasciati marcire piuttosto che consegnarli ai Comitati unitari nelle Case del popolo o nelle cosiddette «parrocchie rosse». Scoprimmo che lo stato era presente sì ma per schedarci, per tenere sotto controllo, attraverso alcuni agenti infiltrati, chi operava nei centri di soccorso unitari. Solo la lotta, il protagonismo e la solidarietà dal basso potevano rendere la società e lo Stato funzionali ai bisogni reali. Nessuno poteva regalarci nulla. Da questa consapevolezza nasce l'idea e la pratica dell'autogoverno fino a sfociare poi nel '68 (Francesco De Gregori che quindicenne partecipò ai soccorsi disse che nella mobilitazione giovanile di massa per l'alluvione vide nascere il '68), sorgono i Comitati di Quartiere, si sviluppano le scuole popolari, ecc. Le stesse comunità di base nascono di lì: la risposta ai bisogni non la dà e non può darla il verticismo dell'organizzazione ecclesiastica; le risposte possono venire solo da una riappropriazione dal basso della vita di fede.
Una seconda cosa però ho scoperto, non meno importante. La lotta, il protagonismo popolare, la solidarietà di base davano risposte, tendevano a trasformare la società, lo Stato e la stessa Chiesa, ma davano anche qualcosa che era prima e oltre le risposte: davano senso e anima alla mia individualità, mi creavano come persona, fondavano la mia identità e segnavano lo stesso territorio. L'alluvione è stata per me quasi una seconda nascita, come prete e come uomo. Lo stesso vale per l'Isolotto, il quartiere in cui vivo, e per l'intera città. Quel grande movimento di solidarietà che si è creato aveva una profondità che oltrepassava gli obiettivi misurabili. Non so come dirlo, ma nel fare insieme le cose necessarie ho provato un senso di compiutezza che era ben oltre le stesse cose che facevamo. E oggi Firenze mantiene una traccia visibile di quelle esperienze formidabili.
Tutto questo non è da sottovalutare. Perché se avessi fatto solo la prima scoperta, quella dall'autogoverno, ora mi sentirei davvero sconfitto. Perché l'autogoverno non è decollato, non ha trovato sbocchi politici. La cultura della delega ha ripreso con forza il dominio e sulla cultura della delega non si regge, non può reggersi nessun tipo di stato sociale. Non può scendere dall'alto lo stato sociale. Senza una diffusa cultura dell'autogoverno, della partecipazione, della solidarietà, della comunità fra soggetti liberi e autonomi, la città organizzata «alla perfezione», la società modellata dal progetto, lo stato funzionale non stanno in piedi.
Ma non mi sento sconfitto, cari compagni del manifesto che vi tormentate giustamente alla ricerca di un varco che consenta di elaborare e alzare alta la sconfitta. L'alluvione mi ha dato la conferma decisiva di una seconda consapevolezza: la solidarietà dal basso ha un fondamento esistenziale, culturale e morale che viene prima e va oltre gli obiettivi funzionali. La solidarietà è un bene in sé. Ed è la base su cui è possibile creare una società ordinata e giusta. Questo mi ha insegnato il movimento esploso per l'alluvione del '66.
Forse occorre liberare la solidarietà, non dagli obiettivi, non voglio affatto dire questo, ma dal dominio degli obbiettivi. Gli obiettivi sono essenziali, non si può dubitarne, e anche il manifesto non può vivere di sogni e soprattutto non lo può la politica; ma c'è un oltre che spesso viene oscurato. Forse occorre liberare la solidarietà dall'onnipotenza dell'io e mettere in comune il senso del limite proprio, dentro il quale limite c'è una ricchezza umana insospettata e addormentata e inutilizzata.