Ortensio da Spinetoli

Natale: “Dio o il divino-con-noi”?

Tempi di Fraternità n. 10 2007

 

La domanda di Gesù ai discepoli in cammino “verso i villaggi di Cesarea di Filippo”: “chi dice la gente che io sia” (Mc 8,27) torna ancora una volta alla mente di quanti continuano a interrogarsi sull’ultima identità del “grande profeta” (Lc, 7,16) che ha sconvolto la storia d’Israele e delle genti.

Certo le risposte utili, opportune, anzi privilegiate si trovano già chiaramente in quel cumulo di informazioni consegnate da Dio stesso ai suoi confidenti (i profeti) che vanno sotto il nome di “rivelazione”. Infatti in Matteo Gesù è chiamato “Dio-con-noi” allo stesso modo che in Giovanni è definito “Verbo Incarnato”, ma non si può negare che entrambe le designazioni siano tutt’altro che evidenti. A parte il significato che esse hanno nelle fonti originarie (in Isaia per Matteo, nel contesto biblico-ellenistico per il Logos) rimane aperta una domanda di fondo a cui si dovrebbe dare una risposta: “E’ l’Essere supremo che si fa uno di noi (una supposizione per lo meno imbarazzante) oppure più semplicemente è l’uomo Gesù di Nazaret che nonostante tutti i suoi limiti creaturali è riuscito a comportarsi in mezzo ai fratelli con quella dedizione, generosità, carità, carica di amore che solo Dio possiede e mette in atto? Nel caso che così fosse non avrebbe egli egualmente diritto a presentarsi e ad essere additato come il “Dio-con-noi”, il “Verbo Incarnato”?

La “divinità” del Cristo non sarebbe così più convincente e soprattutto non avrebbe un più chiaro significato se invece che alla “consustanzialità divina” (una dottrina su cui si è cimentata per quattro, cinque secoli la chiesa delle origini senza arrivare ad alcuna soddisfacente conclusione, solo a un compromesso, quello di Calcedonia) si rapportasse alle sue capacità operative umane rivelatesi alla pari di quelle stesse di Dio? Secondo Mt 5,48 e più ancora Lc 6,35 per non parlare di Giovanni (1 Lett 4,16) l’agire proprio di Dio è motivato solo da amore disinteressato e quando l’uomo riesce a fare altrettanto dà prova di possedere in qualche modo le sue stesse attitudini, capacità di bene. “Ego dixi dii estis” asseriva il salmista (Sal 81,6). E’ quanto in Gesù, alla sua parola e più ancora nella sua testimonianza gli uomini sono venuti a conoscere e nello stesso tempo hanno appreso che se lo vogliono possono arrivare a raggiungermela stessa “perfezione” (operativa, ossia caritativa) di Dio (Mt 5,48), fino addirittura a denominarsi suoi “figli” (Lc 6,35), non solo a parole, fa sapere Giovanni, ma “realmente” (1 Lett 3,1).

Se Dio per un’ipotesi impossibile, ma non assurda, potesse ritrovarsi tra i protagonisti delle vicende che si svolgono nel tempo, non potrebbe avere altri “sentimenti”, “atteggiamenti”, “comportamenti”, in una parola “virtù” che quelle che hanno riempito l’esistenza e l’esperienza del suo Cristo. Lo straordinario di Gesù non è quello di appartenere a un mondo superiore, a una famiglia sovrumana (“divina”) ma che pur essendo uno come gli altri (“vero uomo”) è stato capace di comportamenti sovrani, per non dire inediti, che si equiparano a quelli di Dio che secondo il suo modo di sentire più che il “Gran Signore” è un “padre” compassionevole e misericordioso come ripetevano gli antichi oracoli “lento all’ira e pronto al perdono” (Es 34,7; Nm 14,18; Dt 5,10; Sal 86,15; Gl 2,13).

Gesù grazie ai suoi carismi avrebbe potuto conquistare il mondo, almeno ergersi un trono di potenza e di gloria (le sue “tentazioni”!) ma assecondando la voce dello Spirito di Dio ha preferito spendere le sue energie e la stessa vita per il bene degli ultimi, dei poveri, degli indifesi, dei peccatori. E non è stata una scelta comoda, facile, scontata ma che gli ha richiesto un grado di disponibilità e di coraggio sovrumani. E’ sì morto per ossequio alle ispirazioni del padre, ma per il bene delle moltitudini. Se Gesù non avesse dovuto “affaticarsi” per essere virtuoso, amico di Dio, santo; se non si fosse ritrovato come tutti a lottare contro le tendenze opposte al bene (“passioni”) che albergano in ogni essere e che spesso finiscono per travolgere la resistenza dei comuni mortali, come potrebbe presentarsi o essere presentato come il prototipo, l’esempio di vita, la misura, la norma del comune agire morale? E come può essere additata l’imitazione di Cristo quale essenza del vangelo se Gesù è di un altro ordine, di un’altra condizione esistenziale, di un rango diverso dagli altri uomini, privilegiato?

Se il mistero dell’Incarnazione si identificasse con la discesa, l’avvio della dimora di Dio in mezzo agli uomini non si farebbe che ribadire una “notizia” da sempre ribadita e celebrata: l’onnipresenza divina nella storia del mondo e degli uomini.

Il “Dio-con-noi” non potrebbe invece unicamente dire che il modo, non tanto di essere (che rimane sempre in perscrutabile) ma di agire dell’essere supremo ha fatto la sua “apparizione” in un comune ma straordinario profeta che ha dato ai “fratelli” tutto se stesso, anche la vita? Egli non solo ha dimostrato che c’era un Signore al di sopra di tutti, ma ha avuto cura di far sapere chi egli fosse, solo bontà e amore, le stesse donazioni o dotazioni che hanno caratterizzato la sua vita. In Gesù pertanto il mondo (“regno”) di Dio ha fatto non il suo primo ingresso, ma la più alta manifestazione nella storia, che si è scoperta non solo atropo, ma deiforme. Iddio non è tanto lontano e in alto, ma permea l’essenza e l’esistenza degli uomini, invitandoli ad aver presente la loro consanguineità con lui (cfr. 2 Pt 1,4) e ad agire in conformità ad essa. E se una buona volta questi riuscissero a prendere coscienza della loro dignità e ad operare in corrispondenza ad essa le vicende degli uomini avrebbero assunto un ben altro corso, quello che Gesù ha realizzato e prospettato ai suoi simili. Solo in quest’orientazione, in questa apertura teandrica più che teologica ha senso parlare di “Incarnazione”, di “Emmanuele” o di “Dio-con-noi” poiché non si stanno a ripetere titolature teoriche, accademiche, ma percorsi, testimonianze, esperienze calate sì dal cielo ma che riguardano gli uomini i quali da creature o prodotti dell’Essere ultimo si scoprono suoi familiari, parenti. E Gesù è il primo componente di questa nuova umanità, non l’unico. Per questa ragione l’apostolo Paolo non lo chiama l’unigenito ma “il primogenito di molti fratelli” (Rom 8,29). Colui cioè che ha segnalato e incarnato il destino promesso a tutti.