“Conversando con” :

 

Integrazione sociale e sviluppo capitalistico

 

Il problema dell’integrazione sociale consiste nel definire le condizioni che consentano ad una società di integrare, cioè di immettere nel proprio assetto istituzionale, culturale, sociale e politico-operativo, tutti i suoi membri. Si tratta del loro riconoscimento in una posizione sociale prevista dall’ordinamento della società. La questione si presenta particolarmente acuta quando i processi socio-economici, politici e culturali determinano condizioni di emarginazione e di esclusione di consistenti fasce di popolazione.

Attualmente, nell’epoca del capitalismo “globalizzato”, questa tematica si pone sul versante “globale” della società umana in scala mondiale, nel duplice problema della povertà e della fame che attanaglia ancora miliardi di esseri umani, ed in quello del rapporto fra mondo umano e mondo naturale, di cui anche l’umanità fa parte. In breve, si tratta della questione sociale e di quella ambientale, di cui già Keynes negli anni ’30 del ‘900 aveva colto le determinazioni essenziali.

Il capitalismo “globalizzato”, quale unico sistema socio-economico ormai a dominazione planetaria, avanza due pretese:

  • di essere il fondamento di un nuovo e più progredito ordine mondiale, visto che il tentativo di unificare il globo in un sistema di regole universalmente accettate per via politica, attraverso il meccanismo delle Nazioni Unite, non ha dato i risultati sperati. Quindi l’economia capitalistica ha l’ambizione di prevalere sulla dimensione politica e se ne fa norma e guida;
  • di risolvere tutti i problemi, sociali ed ambientali, mediante la crescita economica espressa in grandezze monetarie.

Prima di sottoporre a verifica queste due pretese, è necessario comprendere la logica che muove il processo capitalistico. Orbene, la legge fondamentale del sistema è l’accumulazione di capitale come scopo in sé. In altre parole, l’obiettivo della produzione dei beni non segue il criterio dei bisogni umani, ma si selezionano i prodotti da creare in base al principio della massimizzazione del profitto, in modo da valorizzare al massimo il capitale investito, accrescerlo con l’accumulazione e così proseguire all’infinito nella riproduzione sempre più allargata di capitale. Questa crescita non conosce e non può conoscere un limite invalicabile. Porre un limite del genere significa far crollare il meccanismo capitalistico. Ovviamente si selezionano anche i bisogni umani, dando particolare importanza a quelli spesso superflui piuttosto che soddisfare quelli necessari, perché se ne ottiene un profitto maggiore. Si deve infine tenere presente che la realizzazione del profitto avviene con la vendita del prodotto nel mercato, nel quale sono riconosciuti solo quei soggetti che esprimono domanda solvibile, e che è quindi meccanismo selettivo, di esclusione.

La verifica della prima pretesa non può che passare dal problema della povertà e della fame nel mondo.

Consideriamo la fase storica 1971-2007 dell’accumulazione capitalistica, richiamando per brevità i dati forniti dall’UNDP (Ufficio delle Nazioni Unite per lo Sviluppo). Negli annuali rapporti di questo ufficio, a partire dal 1990, ci viene detto in sintesi quanto segue:

  • esistono le risorse per sradicare la povertà entro il primo decennio del XXI secolo;
  • nonostante ciò questo programma è fallito, perché la povertà, se pure si è ridotta in alcune aree, ha continuato ad aumentare in altre (esempio l’Africa sub-sahariana)e si è estesa nell’Europa orientale post-comunista. Non solo ma è ricomparsa anche nei paesi del ricco occidente;
  • le cause di questo fallimento e dell’espansione del pauperismo vengono indicate i)nella “distribuzione inegualitaria delle risorse” che privilegia le classi ricche, per cui la crescita economica “sembra realizzarsi a favore dei ricchi, non dei poveri”; ii) nello smantellamento dei servizi pubblici col loro trasferimento al mercato, trasformando i servizi in merci prodotte in funzione del profitto e non della soddisfazione generalizzata dei bisogni di base; iii) nel fatto che si producono beni che valorizzano il capitale investito, mentre se ne trascurano altri socialmente più necessari.

La fase storica dell’accumulazione capitalistica 1971-2007 conosce oggi una crisi economico-finanziaria che sembra presentare carattere strutturale. Si deve tenere presente che la forma di accumulazione di capitale prevalente in quel periodo ha avuto natura prevalentemente finanziaria, sostenuta dalla continua immissione di liquidità monetaria nei mercati finanziari da parte delle banche centrali, oltre che dal dirottamento nel settore della finanza di buona parte dei profitti industriali, cresciuti in misura rilevante con l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro. Ne sono derivate tre bolle speculative:

  • quella della New Economy, degli investimenti sui titoli di imprese informatiche, fra il 1995 ed il 2000/1;
  • dopo la sua caduta, quella immobiliare in Usa e non solo, a partire dal 2003 fino al 2007, col sostegno del credito facile, dei “subprime”;
  • scoppiata anche questa, se ne sta creando un’altra, col dirottamento di masse ingenti di capitali finanziari a scopo speculativo nei settori strategici delle materie prime in esaurimento (petrolio in primis), dei prodotti agricoli, come grano, riso, mais e via dicendo. Questa azione speculativa, insieme ad altre concause (come la riduzione di terreni agricoli e l’espansione di quelli utilizzati per ottenere biocarburanti) sta determinando un impressionante rialzo dei prezzi che fa precipitare nell’area della fame masse enormi di popolazione. Basta l’aumento di un punto percentuale nel prezzo dei generi alimentari di base per aggiungere 16 milioni di persone al rischio fame.

La verifica sul terreno della povertà e della fame, drammaticamente imposta alla nostra attenzione dalle rivolte che stanno esplodendo in Africa, Asia, Centro America, ci dice che il sistema economico capitalistico lasciato a sé stesso, alla sua autonomia, senza regolazione sociale, non è in grado di assicurare condizioni di vita umana decente per tutti gli abitanti del pianeta.

 

Lo stesso discorso vale anche per il problema ambientale.

Se, come si è visto, la logica del capitalismo conosce solo la crescita economica illimitata in funzione del profitto, com’è possibile armonizzarla con un mondo naturale finito com’è il nostro pianeta?

I difensori del sistema si possono dividere in due categorie.

Ci sono coloro per i quali il problema ambientale non esiste. Quindi non occorre apportare alcun correttivo al meccanismo della crescita economica, poiché otterremmo solo danni, senza alcun beneficio. Nell’eventualità poi che qualche ricaduta economica negativa ci sia da un eventuale cambiamento climatico, ad esempio, basta che il nostro PIL cresca in un secolo di cinque o sei volte, per cui un suo ridimensionamento intorno al 10% o qualcosa in più, assicurerà comunque alle generazioni future una massa di beni maggiore di quella di cui godiamo noi. Senza poi considerare lo sviluppo tecnologico che sarà in grado di riparare i danni subiti dalla natura.

Altri, al contrario, prendono sul serio il cambiamento climatico, prospettando scenari catastrofici sul piano sociale, economico e politico. Si pensi al recente rapporto Stern, commissionato dal governo britannico. Tuttavia la loro soluzione non mette in questione il sistema economico, non richiede, cioè, cambiamento radicali. Ci si basa ancora sulle possibilità dell’innovazione tecnologica per affrontare il problema del mutamento climatico. Anzi, se distruggere la natura fa aumentare il Pil, la sua difesa crea nuove opportunità di crescita e di investimento per capitali in cerca di settori in cui valorizzarsi e crescere. Di nuovo sono già all’opera banche di investimento e fondi di investimento per selezionare i settori che presentano maggiori opportunità di crescita e di guadagno. Particolarmente appetibile è il settore dell’acqua dolce. Considerata la sua crescente scarsità, si punta sulla privatizzazione in modo da creare veri e propri monopoli privati in grado poi di imporre prezzi sempre crescenti e quindi di realizzare profitti immensi. In breve, la logica dell’accumulazione non subisce alcuna correzione e viene installata anche in un ambito così delicato come quello della tutela ambientale. L’ordine economico vigente è sacralizzato, tanto che ci si affida al mercato per abbattere le emissioni di gas nocivi con la negoziazione dei “diritti di inquinamento” e la creazione di apposite borse valori.

Data la gravità della situazione ambientale ritengo irresponsabile affidarsi ad un sistema che riconosce come suo obiettivo primario ed esclusivo il profitto massimo in base al quale si effettuano gli investimenti. Non possiamo subordinare la difesa delle condizioni naturali, dalle quali dipende la nostra e la vita delle future generazioni, dai calcoli di convenienza di chi possiede capitale da far fruttare. Lo impone anche la necessità di procedere rapidamente, vista l’urgenza imposta dal deterioramento sempre più veloce delle nostre condizioni ambientali. Si richiedono cambiamenti strutturali nei sistemi produttivi, negli stili di consumo e nelle forme del comportamento sociale. Insomma, occorre una risposta in termini pianificatori con la riqualificazione merceologica della produzione ed il recupero del principio egualitario nella distribuzione delle risorse per la soddisfazione dei bisogni, basandosi sul necessario ed abbandonando il superfluo. Infine, è indispensabile rendersi conto che nessuna integrazione, né quella sociale né quella fra società e natura, è possibile attraverso il meccanismo del mercato capitalistico, retto dalla logica dell’individualismo appropriativo e della competizione.

La conclusione di tutto il discorso precedente credo sia riassumibile nelle parole delle donne della comunità dell’Isolotto e delle donne Rom di un campo alla periferia fiorentina, in base alla loro comune esperienza maturata con la cooperativa “Laboratorio Kimeta”: “Sia le rom che le volontarie sono donne legate alla cultura antica della cura. Che è stata annullata dalla cultura della in-curanza per le persone e le cose in nome del dominio del denaro e del profitto. Una globale e profonda rimozione è infatti il sacrificio richiesto dalla nuova religione del dio denaro”.

E’ da questa religione che è urgente liberarci.

 

Roberto Bartoli