XXXI INCONTRO NAZIONALE DELLE CDB

Castel San Pietro Terme (BO)

“SOCIETÀ SOBRIA, EQUA E SOLIDALE”

CULTURE E PRATICHE DAL BASSO

26 aprile 2008

 

Dalle ricchezze vaticane ai disastri ambientali:

le responsabilità della cultura patriarcale

 

Marco Deriu, Università di Parma. Ass. Maschile Plurale.

 

Il tema che mi è stato affidato è piuttosto arduo e può perfino spaventare per l’ampiezza degli interrogativi che evoca e per la complessità che richiederebbe per essere sviluppato in maniera rigorosa. Non pretendo di rispondere e risolvere questioni di tale portate con un breve intervento e con una giornata laboratoriale. Mi accontenterei di offrire alcune informazioni e sintesi che ci permettano di porci di fronte ad alcuni problemi ecologici della nostra epoca e a suggerire in quali direzioni possiamo interrogare a questo proposito le responsabilità della cultura patriarcale.

Dunque vorrei partire da una citazione di un filosofo morale italo-svedese, nonché uno dei massimi studiosi di Gandhi, Giuliano Pontara:

«Le possibilità che l’attuale generazione di adulti e quelle immediatamente successive hanno di influire, nel bene e nel male, e a livello globale, sulle generazioni future, anche su quelle che esisteranno in un futuro remoto, parrebbero essere enormemente maggiori di quelle che ogni altra generazione precedente abbia mai avute. Questo comporta che il problema della nostra responsabilità nei confronti dei posteri assume un’importanza molto maggiore che non quella che ragionevolmente poteva avere per generazioni precedenti» (Giuliano Pontara, Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari, p. 6).

La situazione in cui ci troviamo è dunque quella di una oggettiva maggiore responsabilità nei confronti delle generazioni a venire a causa del grande impatto del nostro sistema socio-tecno-economico. Tuttavia contemporaneamente possiamo sottolineare che forse mai come in questo momento nella nostra civiltà il senso di continuità tra generazioni, ovvero di riconoscimento per chi è venuto prima di noi e di solidarietà per chi verrà domo, è stato così debole ed incerto. Questo primo elemento ci dice già qualcosa di significativo. La crisi in cui ci troviamo oggi ha a che fare con la difficoltà di fare i conti con il nostro passato per poter in qualche modo proiettarci nel futuro. Questo fatto e questa condizione credo interpelli profondamente la cultura patriarcale da cui veniamo ma anche il tentativo attuale di prenderne le distanze senza una profonda rielaborazione da parte maschile. Ma prima di avanzare qualche tentativo di riflessione a questo proposito vorrei provare a dare un po’ di elementi per comprendere la nostra situazione.

 

L’antropocene: una nuova forza tellurica muta il clima della terra

Nel 1873, un geologo italiano, l’abate Antonio Stoppani, professore del Museo di Storia naturale di Milano, parlò per primo di una «nuova forza tellurica che per la sua potenza e la sua universalità può essere comparata alle grandi forze della terra».

Nel 1926, Vladimir I. Vernadsky, nel suo libro “La Geochimica” scrisse

«Ma nella nostra epoca geologica – era psicozoica, era della ragione - si manifesta un fatto geochimica di importanza capitale. […] È l’azione della coscienza e dello spirito collettivo dell’umanità sui processi geochimici. L’uomo ha introdotto una nuova forma d’azione della materia vivente con la materia bruta».

Queste intuizioni furono riprese nel 2002 dal chimico e premio nobel Paul J. Crutzen che scrisse che l’umanità è entrata nell’era dell’Antropocene, «l’epoca geologica dell’uomo»:

«A differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti, essa è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente» (Crutzen, 2007, p. 25).

In effetti, le emissioni di Co2 sono aumentate nel corso di due secoli del 30%, il metano è più che raddoppiato, la temperatura si alza, i ghiacciai si sciolgono, l’atmosfera diventa più opaca, nello strato di ozono si è aperto un buco in corrispondenza del Polo Sud (causato dai clorofluorocarburi, Cfc), una nube bruna di gasi inquinanti (anidride carbonica, ossi d’azoto e ozono, e particelle minuscole dette areosol) sta ricoprendo i cieli dei tropici, mentre le foreste diminuiscono progressivamente e il suolo fertile si riduce sempre più.

L’essere umano è oramai a tutti gli effetti una forza geologica in grado di modificare l’aspetto globale della terra.

Nel XX secolo abbiamo spostato circa 40 miliardi di roccia all’anno, circa 40 volte di più di quanto non possa fare l’erosione del vento o 10 volte di più dei ghiacciai. E perfino più dei 30 miliardi di tonnellate di materia eruttati ogni anno dai vulcani oceanici. Secondo Crutzen noi oramai

«siamo capaci di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto e del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra in atmosfera degli ultimi 15 milioni di anni» (Crutzen, 2007, pp. 25-26).

La specie umana, insomma, è diventata improvvisamente centrale nella determinazione degli equilibri della Terra e del clima, è forse il fattore più determinante. Oramai abbiamo modificato fra il 30 e il 50% della superficie della terra.

Secondo Crutzen l’inizio dell’Antropocene comincia con la rivoluzione industriale e con la capacità dell’uomo tecnologico moderno di sfruttare con molta più facilità le risorse ambientali. A partire dal 1784, quanto l’ingegnere scozzese James Watt inventò il motore a vapore - oppure restringendo il periodo come suggerisce Jacques Grinevald a partire dagli sessanta del IX° secolo - fino ad oggi abbiamo determinato una rapida e profonda modificazione degli equilibri de pianeta. Nei fatti in poche generazioni – nota ancora Crutzen - abbiamo bruciato combustibili fossili che si erano formati nel corso di molti milioni di anni. L’anidride solforosa è aumentata nell’ultimo secolo di tredici volte, arrivando alla cifra di 180 milioni di tonnellate all’anno, dovute soprattuto alla combustione del petrolio e del carbone, causando un forte inquinamento dell’aria.

Secondo il rapporto del 2007 dell’IPCC (Intergovernmental Panel of Climate Change) nei prossimi decenni avremo un potenziale aumento della temperatura, compreso tra 1,4 e 5,8 °C. Non sappiamo esattamente quali saranno gli effetti e le conseguenze ma le cose già oggi evidenti sono lo scioglimento dei ghiacci artici, continentali e montani, con il relativo aumento del livello del mare e anche una diminuzione della salinità delle acque dell’Oceano che potrebbe interrompere il meccanismo della Corrente del Golfo.

Tra gli altri effetti più probabili:

-tempeste e inondazioni di maggiore intensità lungo le coste sempre più affollate

-siccità e diminuzioni drastiche dei raccolti agricoli in diverse zone del pianeta tra cui l’Africa sub sahariana

-riduzione della qualità e quantità delle riserve d’acqua dolce dovuta all’aumento del livello dei mari

-distruzione di habitat ecologici causando l’esodo o la morte di molte specie animali

-diffusione di alcune malattie pericolose, come la malaria.

 

L’esaurimento delle risorse: la guerra alle generazioni future

Vediamo un secondo fenomeno. Attualmente la convergenza e la sinergia di diversi fenomeni – l’affermarsi e l’estendersi del modello di industrializzazione, l’aumento della popolazione e l’aumento della classe dei nuovi consumatori, la richiesta crescente di beni di lusso e in particolare lo sviluppo delle nuove tecnologie e di nuovi materiali – sta portando ad un aumento della pressione su tutta una serie di beni limitati.

Per esempio secondo Colin Campbell un geologo esploratore che ha lavorato tutta la vita con grandi compagnie petrolifere nel 2005 siamo arrivati ad estrarre metà del greggio scoperto (circa 950 miliardi di greggio) e presto il petrolio comincerà a scarseggiare. Sul picco di produzione, detto anche “picco di Hubbert” (teorizzato per primo dal geofisico Marion King Hubbert), ovvero sul momento a partire dal quale la produzione comincerà a diminuire – che corrisponde al passaggio da un epoca in cui il petrolio era economico e abbondante a una in cui scarseggia e cresce rapidamente di prezzo - ci sono ampie discussioni.

Da questo punto di vista le stime divergono ma solo di una manciata di anni. Il picco della produzione si realizzerà da qui al 2016 dopo di ché ci sarà l’inevitabile declino. Naturalmente si può ipotizzare la scoperta di nuovi giacimenti, ma a partire dagli anni ‘80 lo squilibrio tra scoperte e aumenti dei consumi è stato sempre molto accentuato.

Anche alcuni minerali non energetici utilizzati dall’industria potrebbero esaurirsi in tempi relativamente brevi:

  • entro pochi decenni per oro, argento, rame, piombo, zinco, stagno, antimonio, cadmio;
  • entro cent’anni o più per alluminio e ferro, cromo, vanadio ed altri.

Due studiosi italiani Ugo Bardi e Marco Pagani hanno identificato undici minerali che hanno già superato il picco di produzione: mercurio, tellurio, piombo, cadmio, potassio, rocce fosfatiche, tallio, selenio, zirconio, renio, gallio.

Ma tutto questo in termini economici non fa che accrescerne il valore di mercato rendendoli ancora più appetibili. In questo modo attorno a queste risorse si crea un interesse e una conflittualità crescente di una molteplicità di soggetti globali e locali che vedono in queste risorse soprattutto una notevole possibilità di profitto immediato ed elevato, anche se su breve periodo.

Noi tutti sappiamo che tra il 2006 e il 2007 abbiamo avuto un’esplosione dei prezzi dei prodotti energetici, del petrolio e del gas, ce ne siamo accorti se non altro dall’aumento dei costi del petrolio e della benzina che ha raggiunto i suoi massimi storici. Attualmente il greggio sfiora il 120 dollari. La benzina verde costa 1.413 euro al litro, il gasolio 1.399 euro.

Nonostante l’impiego di nuovi carburanti come l’etanolo e il biodisel la domanda di benzina e la quantità di combustibili fossili continua a crescere.

La domanda mondiale di petrolio, per esempio, è cresciuta – secondo l’International Energy Agency -da circa 66,8 milioni di barili al giorno nel 1991 a 75,9 milioni di barili nel 2001 agli 80 milioni di barili nel 2005 e in prospettiva dovrebbe arrivare a 90, 4 milioni di barili nel 2010 a 106,7 nel 2020 e a 121 milioni di barili al giorno entro il 2030.

Anche la crescita dei consumi di carbone continua ad essere molto forte, soprattutto per la domanda della Cina. Pensavamo che fosse diventato una risorsa archeologica e invece ogni anno se ne estrae circa una tonnellata per ogni abitante della terra. Il carbone è oggi la prima fonte di elettricità e viste le difficoltà del petrolio potrebbe prendersi la rivincita sul suo illustre collega. Certo c’è il problema che il carbone produce nella sua combustione molta più anidride carbonica (circa il 35% in più del petrolio). Ad ogni modo si calcola una crescita dei consumi di carbone nel prossimo quinquennio di oltre un 40% all’anno. Il governo laburista di Gordon Brown in Gran Bretagna tanto per dirne una ha in progetto la costruzione di una nuova generazioni di centrali elettriche a carbone.

Anche il carbone dunque è aumentato di prezzo e ha toccato la cifra record di 116 dollari agli inizi di febbraio.

Anche i minerali sono particolarmente importanti:

I minerali metallici sono particolarmente strategici per tutti i processiindustriali e siderurgici.

Tra i minerali metallici ci sono i metalli preziosi: oro, argento e platino.

I minerali non metallici sono utilizzati sia per l’agricoltura (nitrati, fosfati, potassio) sia per i processi industriali (grafite, mica, asbesto, zolfo, sale, silicio) sia per l’edilizia come materiali da costruzione (graniti, marmi, calci, cementi, argille, marne, sabbie).

Per esempio tra il 2003 e il 2005 le quotazioni dei principali metalli hanno subito una notevole impennata anche se con varie fluttuazioni. Sia per la richiesta effettiva crescente sia per le connesse speculazioni finanziarie.

In primis l’Uranio con un aumento del 170%, poi il carbone con +150%, il rame +105%, il ferro (usato per produrre l’acciaio) +90%, lo zinco +80%. Il caso forse più clamoroso è quello dell’oro: nel 2000 attorno ai 300 dollari l’oncia, a marzo 2008 ha superato la soglia dei mille dollari l’oncia.

In generale è aumentata la domanda di molti metalli: rame, alluminio, zinco, nickel, piombo, cobalto ecc…

Molti materiali sono impiegati per le nuove tecnologie, per esempio il platino oggi viene usato per le marmitte catalitiche delle auto, il palladio un minerale utilizzato per le casse degli orologi più preziosi (per es. gli orologi di Cartier e Parmigiani) il rame viene usato per le installazioni elettriche e per costruire le reti di telecomunicazioni (fili e cavi elettrici, fibre ottiche ecc.), il cobalto estratto in Congo, nell’Europa del Nord e in Canada, è fondamentale per le produzioni dell’elettronica (trasformatori, trasduttori, testine di registrazione e hard disk) e dell’aeronautica (leghe strutturali).

Il coltan, un composto da colombite e tantalite, da cui si estrae il tantalio, un elemento metallico indispensabile per fabbricare i microcondensatori che sono utilizzati nei computer, nei palmari, nei cellulari e perfino nella Play Station della Sony. Il prezzo del coltan è passato da 65 dollari al Kg nel 1998 a 375 nel 2004.

Un altro metallo, il molibdeno, viene utilizzato per gli impianti di raffinazione del petrolio. Il suo prezzo è cresciuto dal 2002 al 2005 di 11 volte.

Oppure l’indio un sottoprodotto dello zinco, usato per i conduttori degli schermi piatti dei televisori al plasma. Nel 2003 per comprare un kg di indio bastavano 95 dollari, mentre nel 2005 ne occorrono 675.

Non dimentichiamo inoltre che stiamo affrontando problemi di scarsità anche con il cibo e con l’acqua.

Per quanto riguarda l’acqua, secondo la Banca Mondiale, circa 80 paesi, ossia il 40% delle popolazione mondiale, sono toccati dal problema della penuria d'acqua. Nel rapporto 2006 dell’UNDP sullo Sviluppo Umano si stima che circa 1,1 miliardi di persone nel sud del mondo abbiano un accesso inadeguato all’acqua (circa un abitante del pianeta su 5).

Il problema attuale della scarsità di acqua non è un processo naturale, fisiologico, ma un effetto di quello che siamo abituati a chiamare sviluppo.Dal 1960 ad oggi, nel mondo si è consumata più acqua che nei tre secoli precedenti.

All’inizio del ‘900 il prelievo complessivo di acqua era di 500 km3l’anno, attualmente è di 5.000 km3. Il trend attuale registra un raddoppio della domanda d'acqua ogni 21 anni.

La maggior parte del consumo di acqua - pari a circa il 70% del prelievo - avvenga nei paesi nel Nord del mondo. Nei fatti questo prelievo risponde sostanzialmente ai bisogni dell'11% più ricco della popolazione mondiale.

Come abbiamo già detto, infatti, gran parte del prelievo d’acqua è destinato ad usi agricoli e industriali. Per esempio negli Stati Uniti, il 70% è per uso agricolo, il 20% è utilizzato per uso industriale e il 10% per uso domestico, mentre solamente l'1% riguarda il consumo di acqua da bere. Dunque il consumo d’acqua aumenta soprattutto in relazione alle performance agricole e industriali dei paesi più ricchi o dei paesi emergenti.

In generale si può sottolineare come negli ultimi quarant’anni la superficie di terreno irrigata sia aumentata al ritmo di 2,7% annuo.

Per quanto riguarda il cibo, negli ultimi mesi quattro degli otto maggiori esportatori di frumento – Ucraina, Russia, Argentina, Kazakistan – hanno aumentato drasticamente dazi e tariffe per il loro grano. Dal 2004 ad oggi il prezzo del frumento è triplicato. Il prezzo del granturco è raddoppiato. Secondo la Fao il prezzo del frumento aumenterà del 20% in soli otto anni, entro il 2016.

Stessa situazione per il riso, per il quale le politiche del Vietnam, India ed Egitto – tra i maggiori produttori mondiali - hanno determinato la stessa stretta. Per dare un’idea in gennaio 2008 il riso costava 373 dollari alla tonnellata, in aprile 760, il doppio.

Anche le quotazioni del mais hanno raggiunto in aprile 2008 il loro massimo storico. Circa 6.05 dollari al bushel, 15 centesimi di euro al chilo.

Dietro la crescita di questi costi c’è l’aumento della popolazione, il cambiamento climatico che ha portato a siccità e a una diminuzione della produzione in paesi come l’Australia che rappresenta il secondo esportatore al mondo di grano (si aggiunga a questo il problema della crescente urbanizzazione e cementificazione della terra agricola), le speculazioni finanziarie che oramai riguardano tutto il ventaglio delle materie prime e poi soprattutto la crisi petrolifera, perché aumentano i costi dei fertilizzanti, del carburante per le macchine agricole per i trasporti.

Anche la corsa ai biocarburanti quali l’etanolo (un prodotto di derivazione dal granturco) che sottrae disponibilità per uso alimentare. Nel complesso già a partire dagli anni ’90 la domanda ha iniziato a superare l’offerta, in altre parole il mondo consuma più frumento di quanto non ne produca, mettendo a rischio anche le riserve.

Il problema è che aumentando il prezzo di questi beni i primi a soffrirne sono le popolazioni più povere che rimangono senza cibo. Per questo i paesi reagiscono con dazi e limiti all’esportazione. Ad Haiti abbiamo visto nelle scorse settimane rivolte, scontri e morti per fame, a causa di un aumento dei costi degli alimenti del 40%. Ci sono stati tumulti in Filippine e in Indonesia per il riso. Molti paesi africani sono sull’orlo della crisi.

Nel mondo esiste una disuguaglianza di consumo molto netta in generale tra i paesi più industrializzati e gli altri.

Gli abitanti dei paesi più industrializzati pur rappresentando appena il 20% della popolazione mondiale rivendicano per sé:

  • il 70% delle risorse energetiche;
  • l’85% della foreste;
  • l’81% della carta;
  • il 61% della carne;
  • il 75% delle riserve minerarie;

Detto in altri termini i paesi industrializzati (Ocse) utilizzano una biocapacità più che doppia rispetto a quella disponibile sul loro territorio.

Questo significa che nei fatti i paesi più industrializzati sfruttano il patrimonio naturale in maniera eccessiva. Da un punto di vista pratico essi attingono a beni e a risorse naturali che provengono da aree anche molto lontane dai loro territori e in misura sproporzionata rispetto allo spazio ambientale con cui ciascun essere umano deve poter vivere.

Una delle caratteristiche ambientali di queste risorse è quella di non essere distribuita uniformemente sul pianeta. I principali campi diamantiferi, per esempio, si concentrano in Angola, nella Repubblica Democratica del Congo, nella Sierra Leone. Gli smeraldi abbondano in Colombia, le miniere di oro e di rame più importanti si trovano in Congo, Indonesia e Papua Nuova Guinea (nell’isola di Bougainville). I giacimenti di petrolio più significativi, che coprono oltre l’80% del patrimonio mondiale, come vedremo, si trovano nel Golfo Persico, nel bacino del Mar Caspio, nel Mar Cinese meridionale ed in alcuni paesi come Nigeria, Sudan, Algeria, Angola, Ciad, Venezuela, Colombia, Indonesia. In rapporto a questa diseguale distribuzione e al diseguale consumo si va dunque delineando una nuova geografia dei conflitti.

Il primo effetto di un uso non sostenibile delle risorse è un aumento dei conflitti sociali attorno alle risorse (Vd tabella). Questa guerra viene dichiarata verso le popolazioni povere del sud del mondo e verso le generazioni a venire che si troveranno un mondo povero di risorse e degradato dal punto di vista dei cicli vitali.

 

La perdita di biodiversità: verso la sesta estinzione

Da qualche anno alcuni scienziati e studiosi hanno iniziato a documentare e a metterci in guardia sul fenomeno della perdita di biodiversità, sulla scomparsa impressionante di specie animali, tanto da arrivare a parlare di una vera e propria nuova estinzione, precisamente la sesta estinzione di massa sul nostro pianeta.

La prima grande estinzione, secondo gli scienziati, avvenne circa 444 milioni di anni fa, a causa dell’avvento di un era glaciale, quando scomparve quasi la metà delle specie esistenti, in particolare i piccoli animali marini.

La seconda – a causa di un raffreddamento e forse anche a causa della precipitazione di grandi meteoriti - avvenne 360 milioni di anni fa e portò alla scomparsa di circa il 70% delle forme viventi in particolare ammoniti e pesci primitivi.

La terza avvenne 251 milioni di anni fa a causa di enormi eruzioni vulcaniche in Siberia e portò all’eliminazione del 96% delle specie marine e al 70% delle specie terrestri.

La quarta si ebbe 200 milioni di anni fa, forse a causa del rilascio di grandi quantità di metano dal fondo oceanico e portò alla scomparsa dei grandi anfibi e terapsidi.

L’ultima e più famosa, avvenne 65 milioni di anni fa, quando la caduta di un enorme asteroide costo la scomparsa dei dinosauri.

L’estinzione attualmente in corso è quella che stiamo causando noi, esseri umani.

Ora lo studio sugli ecosistemi nel mondo nel terzo millennio patrocinato dall’Onu ha rivelato un dato sconcertante. Dalla analisi delle specie fossili, risulta che nel passato della storia del vivente ci sia stata una perdita di una specie di mammiferi ogni mille anni. Attualmente questa scomparsa avviene ad una velocità mille volte superiore.

Come ha commentato in proposito lo scienziato Niles Eldredge,

«Poiché siamo ancora convinti di essere sfuggiti dal mondo naturale, pochi di noi riescono a cogliere la reale dipendenza della nostra specie dalla salute del sistema globale. La principale ragione per cui ritengo che dobbiamo temere la Sesta estinzione è il fatto che noi stessi abbiamo buone probabilità di esserne coinvolti come vittime. Se anche qualcuno dicesse che l’estinzione, diciamo, di 10 miliardi di persone è un evento poco probabile, non bisogna dimenticare che esiste anche un’estinzione culturale oltre che biologica. Forse infatti potremmo evitare l’effettiva estinzione biologica ma la nostra diversità culturale e, per i paesi sviluppati, il nostro alto tenore di vita, sono certamente a rischio» (Eldredge, 2000, p. 212).

Oggi siamo di fronte al fenomeno di una sesta estinzione massiccia di specie viventi con risultati che non possiamo nemmeno immaginare. Dopo ogni estinzione, la vita è cambiata significativamente per tutto il pianeta e non sappiamo cosa questo comporterà in termini di perdite e di stravolgimenti.

 

La minaccia nucleare: le nostalgie dell’uomo faustiano
Pare che, ovunque vada, il Presidente degli Stati Uniti sia accompagnato da un ufficiale che porta con sé un bagaglio il cui peso per qualunque essere umano delle epoche passate sarebbe risultato insostenibile. Si tratta di una “valigetta nucleare”, ovvero di una ventiquattr’ore contenente una radio satellitare e il SIOP (Single Integrated Operazionale Plan) Decision Handbook, ovvero un manuale con il piano di guerra nucleare e la procedura da seguire per ordinare il lancio dei missili atomici. Dopo l’identificazione tramite speciali codici il Presidente può comunicare l’ordine di lancio ai capi di stato maggiore che hanno il controllo diretto dei missili e la facoltà di azionarli effettivamente.

Mi domando che conseguenze può avere su un essere umano l’essere in compagnia ventiquattrore su ventiquattro di una valigetta di questo genere. Come si modifica la visione del mondo, della vita e della morte, la visione di sé e degli altri, come si trasforma la psiche? Si trasforma?

Per quanto possa colpirci, una condizione simile, rappresenta comunque solamente la situazione estrema di una civiltà – quella occidentale moderna - che ha inventato le armi nucleari, o se vogliamo di un pianeta che conta attualmente oltre 16.000 testate atomiche pronte all’uso. Probabilmente non ci pensiamo, ma tutto questo ha delle conseguenze in termini antropologici e psichici sulla specie umana che rappresentiamo. Non è certamente un caso senegli Stati Uniti tra i militari addetti alle armi nucleari si registrano gravi scompensi psicologici. Tra il 1973 e il 1990 circa 66.000 militari statunitensi sono stati rimossi dal loro incarico relativo alla gestione dell’arsenale nucleare, il 41% dei quali per problemi di alcol e droghe e il 20% per problemi psichiatrici più generali (Dinucci, 2003, p. 66).

Da questo punto di vista, la nostra condizione è stata ben descritta dal filosofo Gunther Anders, secondo il quale noi «non siamo più in grado di capire che cosa sentiva il cosiddetto “uomo faustiano” quando si lamentava perché era soltanto un “essere limitato”».

In altre parole, il nostro problema è che non sentiamo neppure il senso della smisuratezza faustiana perché la smisuratezza, la hybris in qualche modo ci è divenuta “normale”. Tuttavia se seguiamo la pista di Anders, forse è possibile riconoscere nella nostra psiche le tracce di un malessere, o di un disagio che si va diffondendo e che, se non il Presidente degli Stati Uniti, certamente riguarda un numero crescente di persone nel mondo.

Se un tempo l’umanità era stata attraversata da un “infinito anelito all’infinito”, oggi ci troviamo paradossalmente nella condizione di anelare alla onesta e limitata umanità. Oggi ci assale «il desiderio disperato, nemico delle macchine, di sbarazzarci di nuovo del titanismo acquistato (o addossatoci) dall’oggi al domani e di poter essere di nuovo uomini come nell’età dell’oro di ieri» (Anders, 2003a, p. 252).

Gli esseri umani nell’epoca post Hiroshima pur essendo ancora umani, hanno in realtà generato un cambiamento della loro posizione nel cosmo. Tutte le creature sono antidiluviane – diceva Canetti - appartengono ad un tempo precedente la bomba atomica (Canetti, 1989, p. 100).

Un tempo per quanto riguarda la condizione dell’essere umano si poteva dire “tutti gli uomini sono mortali”. Se pensiamo ad Auschwitz la proposizione si deve mutare in “tutti gli uomini sono eliminabili”. Ma se vogliamo pensare a Hiroshima allora la nostra condizione è quella per cui “l’umanità intera è eliminabile”. In altre parole, come è stato sottolineato, finora il suicidio era un atto individuale, di un gruppo o al massimo di una città, come avvenne a Masada, ma con l’Atomica la condizione suicida è diventata una possibilità globale di tutta l’umanità.
 
Alle radici della cultura patriarcale
Ma come abbiamo visto non è solo la bomba atomica, è la natura stessa della nostra civiltà ad essere problematica in tutti i suoi aspetti. Il fatto è che la nostra stessa civiltà si sporge sul futuro senza essere sicura di poter sopravvivere a se stessa. Possiamo a questo punto tornare alla nostra domanda centrale. Questa condizione, i disastri ecologici e sociali che stiamo causando, hanno una o più radici nella cultura patriarcale?

Una prima indicazione forse, a questo punto, e dopo questo rapido panorama dei problemi ecologici e sociali, può essere facilmente compresa e riconosciuta. La cultura patriarcale non riguarda solo un discorso sui sessi, ovvero un dominio maschile sulle donne, ma si fonda e si afferma anche per il tramite di una certa idea della civiltà, del potere, della tecnica, della natura, delle altre specie viventi, della vita e della morte.

In altre parole la violenza e il dominio sulle donne non va visto come un fatto isolato. Esiste infatti anche una violenza e un dominio esercitato tra uomini e sopra altri uomini, tramite le armi e la guerra, un dominio nei confronti di altre specie viventi viste come esseri inferiori e più in generale un dominio nei confronti della natura e del pianeta visti come strumenti per soddisfare bisogni e voglie degli uomini e non riconosciuti nella loro realtà.

Alcuni elementi di fondo ci raccontano dunque di una continuità nelle forme culturali e simboliche tra la violenza della scienza, della tecnica, dell’economia e la violenza esercitata contro le donne.

Alcuni aspetti di questa cultura maschile e patriarcale sono facilmente rintracciabili.

Un deciso antropocentrismo che corrisponde simbolicamente ad una concezione piramidale delle forme viventi che vede alla sommità l’uomo, quindi la donna, i bambini e al di sotto tutte le specie animali e vegetali. In base a questa rappresentazione, avvallata anche dalle tradizioni religiose, si perde il riconoscimento del valore della biodiversità e ci si autorizza alla sottomissione e alla distruzione di intere specie viventi. Non è difficile notare come una parte del pensiero religioso cristiano come ha rifiutato di riconoscere alle donne un’anima o un’intelligenza, fatica ancora oggi a riconoscere un’intelligenza e un’anima o un pensiero agli animali.

Una concezione passiva e strumentale della natura, vista non come sistema vivente ma come oggetto passivo saccheggiabile e alterabile illimitatamente in base alle proprie necessità. Anche da questo punto di vista non è difficile notare la continuità tra le rappresentazioni patriarcali della natura e quelle della donna, non a caso spesso associata alla natura in opposizione al mondo della cultura privilegio degli uomini.

Un rapporto con la scienza e la tecnica viste come appendici dell’uomo e strumenti di potere, attraverso cui si misura simbolicamente anche la capacità di affermazione dell’uomo sulla natura e nel mondo. Scienza e tecnica messe al servizio della razionalità strumentale permettono oggi di trasformare profondamente il funzionamento degli ecosistemi e dei cicli vitali. In un certo senso questa potenza tecnologica oggi rivela un modo di pensare fondamentalmente maschile incapace di riconoscere la trama di relazioni, reciprocità, scambi ed equilibri dinamici su cui si fonda la vita nel piccolo come nel grande.

Infine una volontà faustiana di potenza che rivela la volontà maschile di definirsi rispetto alla capacità di dare la morte in opposizione alla potenza femminile di dare la vita. Nell’ordine patriarcale le donne si definivano in quanto madri gli uomini in quanto guerrieri, trionfatori sulla morte. L’arsenale atomico non è che l’estremo tecnologico di questo simbolico distruttivo che prevede l’affermazione di sé attraverso la negazione totale dell’altro (e infine anche di se stessi), anziché attraverso il riconoscimento e il rispetto della fragilità della vita e la cura della reciproca vulnerabilità.

 

La politica delle donne: cosa possiamo imparare?

Vorrei concludere con un ragionamento sulla possibilità di imparare qualcosa dalla politica delle donne, in particolare rispetto all’affermarsi di una cultura ambientalista e di un differente sapere verso l’integrazione tra umanità e natura.

In effetti se le donne sono in gran parte assenti o emarginate negli spazi della politica istituzionale, non altrettanto si può dire avvenga nello spazio politico-sociale. Qui in questo quadro abbiamo una situazione completamente diversa con un gran numero di donne che manifestano una forte leadership riconosciuta non solo localmente ma in tutto il mondo.

Vediamo per esempio le leader di alcuni movimenti ecologisti e pacifisti:

Contro le dighe: Medha Paktar (Narmada Bachao Andolan, movimento per la salvezza del Narmada) e Arundhati Roy

Contro l’atomica e la violenza: Arundhati Roy

Contro il disboscamento e per la riforestazione: Wangari Maathai (Green Belt Movement, Premio Nobel per la Pace 2004)

Contro il disboscamento, e la colonizzazione del vivente, per la conservazione delle foreste e dei semi: Vandana Shiva, Movimento Chipko e Navdanya (nove semi)

Movimenti per diritti civili e delle donne: Shriri Ebadi in Iran(Premio nobel 2003), Assia Djebar e Khalida Messaoudi in Algeria,

Movimenti per la democrazia e i diritti: Aung San Suu Kyi in Birmania (Premio nobel 1991)

Queste donne, i loro movimenti e le loro pratiche politiche, manifestano alcuni aspetti in comune:

-un radicamento territoriale

-un’ispirazione nonviolenta e il rispetto per la vulnerabilità

-un’idea più ampia di politica, anche oltre le istituzioni

-la difesa di diritti, saperi e beni comuni contro la mercificazione e il potere politico

-la valorizzazione delle culture e dei valori locali contro la globalizzazione economica

-la valorizzazione della natura e della vita

-la responsabilità e il rispetto verso le generazioni a venire

-lotte concrete e allo stesso tempo altamente simboliche (semi, alberi, acqua)

Anche in un movimento italiano, come quelli No Tav e No Dal Molin le donne sono una presenza chiave. La loro presenza e pratica politica emerge in maniera forte e distinta. Per esempio le donne del Presidio No Dal Molin di Vicenza hanno prodotto una specie di “manifesto” :

“L’azione su se stessi, l’azione sugli altri, consiste nel trasformare i significati”

Simone Weil, Quaderni, IV

«Da un anno camminiamo insieme e in questo percorso comune siamo cambiate.

Si è modificata la scansione del tempo quotidiano, siamo uscite dalle case e dai luoghi di lavoro e abbiamo cominciato a mobilitarci per difendere il nostro territorio, minacciato dal progetto di costruzione di un’altra base di guerra.

La nuova base militare americana devasterebbe un ambiente ora verde, sconvolgerebbe la fisionomia del paesaggio e il nostro stesso futuro.

Le nostre storie sono diverse, così come le nostre età: siamo lavoratrici e casalinghe, studentesse e insegnanti, precarie e pensionate. Ci muoviamo in contesti molto diversi: fra noi ci sono attrici, impiegate, animatrici, artiste, operaie, donne che vengono dalunga militanza politica e donne nuove a questo tipo di esperienza.

Al nostro interno si incrociano le generazioni, perché ci sono madri, figlie, nonne; ci sono italiane e donne straniere, e vicentine e donne che provengono daregioni diverse, portatrici di differenti modelli culturali.

Tutte queste differenze costituiscono la nostra ricchezza.

Infatti all’interno delle differenze, durante il nostro percorso abbiamo scoperto una specificità: la nostra determinazione a resistere si alimenta di unaforza che alcune di noi conoscono bene, che appartiene al genere femminile e si consoliderà perché è caratterizzata da un desiderio tenace di perseverare e di espandersi.

La scelta della lotta implica per noi, insieme alla determinazione nel promuovere le azioni insieme a tutto il movimento, anche una disponibilità a prenderci cura dello spazio il nostro e quello delle altre e degli altri, il luogo fisico in cui sorge il presidio, la tenda e la terra circostante, per noi luogo emblematico, luogo in cui si è generato, si sviluppae si confronta il pensiero.

La disponibilità a prendersi cura dello spazio comune non è per noi un aspetto riduttivo, un’attività marginale, perché questo lavoro di curapermette poi a tutti e a tutte di sentirsiaccolti in uno spazio all’interno del quale si costruiscono i progetti e le azioni di tutto il movimento che qui converge.

Lavorare insieme per un obiettivo comune ci ha rese consapevoli di una forza che avevamo potenzialmente, che si esprime con voce più forte e checresce nel camminare insieme.

La caratteristica che ci accomuna è il desiderio diriflettere e di lavorare anche su di noi e sulla nostra emotività: di non avere paura, a volte, di dire che siha paura, perché le nostre paure sono accolte e contenute dalle altre; di parlare anche delle nostra fragilità; di valorizzare le emozioni, dare voce all’entusiasmo, ma anche al dubbio, dare legittimità all’indignazione, alla rabbia…perché tutto questo fa parte della passione che alimenta la ribellione e dà forza alla lotta per il futuro.

Come donne, in quanto generatrici del vivere, guardiamo il mondo con la testa ma anche e soprattutto con il cuore. Con questo atteggiamento siamo riuscite a costruire un agire solidale e a disegnare una prospettiva comune nel segnare/tracciare la strada della pace.

Lo stare insieme ci ha aiutate ad allargare lo sguardo su tutti gli aspetti della realtà, ci ha rese consapevoli della guerra globale, ci ha rese più capaci nell’analisi delle strategie che stanno dentro al progetto di militarizzazione mondiale.

Attraverso il confronto siamo passate dall’intuizione a una migliore comprensione del gioco di potere che si svolge sopra le nostre teste per il controllo delle risorse, alla consapevolezza della lotta feroce che è in atto, mascherata dalla cosiddetta “politica del sorriso”, per l’egemonia degli USA sulla scena mondiale.

Noi non vogliamo essere complici di chi utilizza la guerra come strumento per affermare la propria visione del mondo, per accaparrarsi le risorse del pianeta, di chi porta distruzione e morte nei Paesi più diversi in nome di un modello, per molti astratto, di democrazia.

Con le nostre pentole, le nostre bandiere, con un vaso di terra in mano, abbiamo contribuito a faremergere le contraddizioni dell’amministrazione cittadina e della politica nazionale.

La nostra mobilitazione ha coinvolto altre realtà femminili che difendono i valori che stanno alla base di una diversa qualità della vita, abbiamo messo in primo piano i valori della pace e della salvaguardia del territorio e dell’ambiente, anche altrove.

Noi non vogliamo rimanere fra le persone che dicono che questa vicenda non le riguarda: noi ci sentiamo personalmente coinvolte, ci assumiamo la responsabilità delle nostre scelte, continueremo la lotta per la difesae l’affermazione dei nostri valori, per impedire che il nostro mondo venga stravolto, e per mettere al mondo, invece, un progetto che si costruisce nel percorso comune».

“Non ha alcuna importanza che li si chiami incontri di testimonianza o di scambio spirituale come è stato nel movimento per i diritti civili; gruppi di autocoscienza come è stato all’esordio del femminismo contemporaneo; circoli di donne o nidi d’ape, come è stato nella storia del movimento delle donne; o infine cellule rivoluzionarie, consigli delle anziane o “gruppi di amarezza” come è stato per movimenti e culture diversi dai nostri.

La cosa che veramente conta è che siano liberi, non più grandi di una famiglia allargata, personali/politici ed estesi ovunque” (Gloria Steinem, Autostima)

Il Gruppo Donne del Presidio

Antonella Cunico, Daniela Capraro, Nicoletta Dal Martello, Anna Faggi, Ersilia Filippi, Paola Morellato, Roberta Munaro, Agnese Priante, Paola Rigoni, Nora Rodriguez, Petra Wilmer, Paola Ziche

Come emerge da questo scritto ci sono alcuni aspetti che evidenziano una sensibilità ed una prospettiva politica differente da quella maschile cui siamo abituati: il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze pur all’interno di un impegno comune, un forte desiderio che si tramuta in tenacia e determinazione, una cura per lo spazio fisico in cui ci si ritrova, si pensa e si agisce, il lavoro su di sé e sulle proprie emozioni come aspetto fondamentale, l’integrazione tra razionalità e passioni, la connessione tra micro e macro, tra territorio e fenomeni globali.

Questi aspetti non sono affatto banali, sono un guadagno difficile da raggiungere, specialmente per gli uomini, ma di cui abbiamo profondamente bisogno.

In altre parole se da una parte registriamo una difficoltà delle istituzioni della politica tradizionale di attrarre e accogliere le donne, dall’altra abbiamo esperienze molto interessanti di pratiche e movimenti politici con una leadership femminile che ampliano la nostra idea di politica e la nostra cultura politica. Da questo confronto, scambio, conflitto, bisogna partire per trasformare le nostre possibilità di agire politico in senso più ecologico.

 


APPENDICE:

Voci Critiche, Voci Profetiche

 

Vandana Shiva: dalla Terra Nullius alla Terra Mater: il principio di rigenerazione

«La rigenerazione è il cuore della vita, ed è sempre stato il principio guida delle società sostenibili; senza rigenerazione, la sostenibilità non esiste. La moderna società industriale, tuttavia, non ha tempo di pensare alla rigenerazione e quindi non ha la possibilità di vivere in modo rigenerativo. La sua svalutazione dei processi di rigenerazione è la vera causa della crisi ecologica e di quella della sostenibilità.

Nel Rig Veda, l’inno alle piante che guariscono, le piante medicinali sono considerate come madri che ci sostengono.

 

Madri che avete cento forme

E mille crescite,

voi che avete cento modi di

funzionare, rendete questa persona

per me intera.

Siate felici, voi piante che fate i fiori e date i frutti.

 

La continuità tra la rigenerazione degli esseri umani e della natura non umana, che era la base di tutte le culture antiche, è stata infranta dal patriarcato. Le persone sono state separata dalla natura e la creatività coinvolta nei processi di rigenerazione è stata negata. La creatività è diventata monopolio dell’uomo, il solo ad essere considerato impegnato nella produzione; la donna invece, impegnata nella semplice riproduzione, non è stata considerata artefice di una produzione rinnovabile e il suo contributo è stato visto come non produttivo.

[…]

Le nuove biotecnologie riproducono le vecchie divisioni patriarcali di attività/passività, cultura/natura. Queste dicotomie sono usate come strumenti del patriarcato capitalistico per colonizzare la rigenerazione delle piante e degli esseri umani. Soltanto decolonizzando la rigenerazione, è possibile recuperare l’attività e la creatività delle donne e della natura all’interno di un modello non patriarcale

[…]

La terra, le foreste, i fiumi, gli oceani e l’atmosfera sono stati tutti colonizzati, erosi e inquinati. Il capitale è ora alla ricerca di nuove colonie da invadere e sfruttare per la sua accumulazione: gli spazi interni del corpo delle donne, le piante e gli animali.

[…]

Tutte le culture sostenibili, nella loro diversità, hanno visto la terra come Terra Mater. Il costrutto patriarcale della passività della terra e la conseguente creazione della categoria coloniale della terra come Terra Nullius ha risposto a due obiettivi: negare l’esistenza e i diritti precedenti degli abitanti originari, e negare la capacità rigenerativa e i processi vitali della terra» (Vandana Shiva, Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, Cuen, Napoli, 1999, pp. 61-64).

 

Gregory Bateson: Dal dominio sulla natura alla natura della mente

Ci siamo immaginati un Dio come creatore e re e un essere umano un gradino poco più sotto.

Secondo Gregory Bateson mente e natura formano un’unità necessaria per cui “non esiste una mente separata dal corpo o un dio separato dalla sua creazione” (DAE, p. 27).

 

«Le religioni del Mediterraneo hanno oscillato per cinquemila anni tra immanenza e trascendenza: a Babilonia gli déi erano entità trascendenti situate sulla cima delle colline; in Egitto la divinità era immanente nel Faraone; e il cristianesimo è una complessa combinazione di queste due credenze.

L’epistemologia cibernetica che vi ho presentato suggerirebbe un’altra impostazione. La mente individuale è immanente, ma non solo nel corpo: essa è immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più vasta Mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. Questa più vasta mente è paragonabile a Dio, ed è forse ciò che alcuni intendono per “Dio”, ma essa è ancora immanente nel sistema sociale interconnesso e nell’ecologia planetaria.

[…]

Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante. Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle riserve. Le materie prime del mondo sono limitate» (Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, 2000, pp. 502-503).

 

 

Théodore Monod: dall’antropocentrismo alla comunione di tutti i viventi

«Come ha potuto il cristianesimo ufficiale, istituzionale, quello dei concili, delle confessioni di fede o dei dogmi, della teologia, ignorare per duemila anni il drammatico e patetico problema della condizione animale senza pensare a prendere risolutamente partito contro i carnefici, senza far posto nei suoi insegnamenti, nei trattati, nei manuali o nei catechismi alla sofferenza delle bestie, eterne vittime della crudeltà degli uomini?

Perché questo silenzio insieme tanto pesante e permanente che induce a domandarsi se non sia stata considerata una questione risolta, o se non si tratti del rifiuto a una discussione in realtà senza oggetto?

Come ha potuto, una religione dell’amore, della pietà, della misericordia, che pone al centro stesso della propria fede il Sermone della montagna, le Beatitudini e l’inno alla carità di Corinzi 13, accettare di curarsi di una sola delle creature escludendo tutte le altre?

Perché le Chiese – e la mia come le altre ben inteso – ancora non insegnano la pietà per ogni creatura e non intercedono – o così poco e tanto raramente – in favore delle innumerevoli e quotidiane vittime della stupidità e della crudeltà degli uomini?

Sono domande importanti. Un giorno, se l’evoluzione che già si manifesta nella mentalità e nella sensibilità dovesse perdurare, gli storici si chiederanno, stupefatti, come mai ci siano voluti tanti secoli perché venisse riconosciuto all’animale non solo i diritto alla nostra compassione ma anche a non essere considerato un semplice oggetto, una materia prima, una vantaggiosa fonte di profitto, in altri termini, il diritto alla vita e a una vita conforme alla biologia e alla vocazione delle specie.

L’“incomprensibile e inaccettabile silenzio delle Chiese” nei confronti della sofferenza delle bestie, denunciato nel 1982 da Bernard Rordorf nel suo studio Les animaux malade de la violence è un tema che suscita, a dir poco, lo sconcerto dello storico del pensiero cristiano.

Evocando questo stesso scandalo, Daniel Berditchevsky, nel suo Théologie des animaux (1984) ribadisce: “La teologia classica è un deserto per il mondo animale”. Gli animali non hanno che un ruolo utilitario o decorativo nella creazione. Al di là della loro esistenza terrestre, possono solo attendersi il nulla”.

Nel mio saggio Nature vivante et foi chrétienne, del 1984, credo d’aver individuato una triplice radice al nostro comportamento: il retaggio della preistoria, la promozione dell’uomo a ‘re della creazione’ comune ai tre grandi monoteismi e, infine le conseguenze dell’animale-macchina di Cartesio» (Théodore Monod, L’avventura umana, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pp. 105-106).

 

 

Judith Butler

Secondo Judith Butler oggi è fondamentale - non solo in termini di psicologia individuale, ma in termini sociali – riflettere sui possibili usi politici dell’angoscia generata dall’esperienza della vulnerabilità.

«Uno degli aspetti chiamati in causa dall’offesa è l’intuizione secondo cui là fuori ci sono altri da cui dipende la mia stessa vita. Persone che non conoscono e non conoscerò mai. Questa inestricabile dipendenza da anonimi altri è una condizione a cui non posso sottrarmi volontariamente. Nessuna misura di sicurezza potrà impedire tale dipendenza, nessun atto violento di sovranità potrà liberarci da tale condizione».

(Judith Butler, Vite precarie, Meltemi, Roma, 2004, p. 10)

«Ciò significa che ciascuno di noi in parte è politicamente costituito dalla vulnerabilità sociale del proprio corpo- in quanto luogo del desiderio e della vulnerabilità fisica, logo di una dimensione pubblica a un tempo esposta e asserviva. La perdita e la vulnerabilità sono conseguenze del nostro essere corpi socialmente costituiti, fragilmente uniti agli altri, a rischio di perderli, ed esposti agli altri, sempre a rischio di una violenza che da questa esposizione può derivare»

(Judith Butler, Vite precarie, Meltemi, Roma, 2004, p. 40)

«Prestare attenzione a questa vulnerabilità significa forse rivendicare soluzioni politiche e non militari, mentre negarla mediante un delirio di dominio (un delirio istituzionalizzato di dominio) non fa che alimentare gli strumenti della guerra. Non possiamo, tuttavia, trascurare la vulnerabilità. Dobbiamo prestarle ascolto, esserle prossimi, proprio perché cominciamo a riflettere sui possibili esiti di una politica che prenda le mosse dalla vulnerabilità del corpo, in una situazione nella quale noi stessi possiamo essere sconfitti, oppure perdere gli altri.

[…]

Ma c’è qualcosa da guadagnare dal dolore, dall’indugiare nel dolore, dal rimanere esposti alla sua forza intollerabile senza cercare di risolverlo con violenza? C’è qualcosa da guadagnare, politicamente, nel mantenere il dolore quale parte costitutiva del disegno nel quale collochiamo i nostri legami internazionali. Se il nostro senso di perdita permane, rischiamo solo di sentirci inutili e impotenti, come teme qualcuno? Oppure questo ci porta a recuperare il senso della vulnerabilità umana, della nostra responsabilità collettiva per la vita corporea l’uno dell’altro?»

(Judith Butler, Vite precarie, Meltemi, Roma, 2004, pp. 59-50)

 


Note

Per biocapacità si intende la capacità della natura di produrre aria ed acqua pulita, alimenti, materiali e contemporaneamente di assorbire gli scarti dei processi produttivi e di consumo. La percentuale di biocapacità non è evidentemente distribuita in modo equo tra i diversi paesi o tra le diverse classi sociali.

 

“L’Occidente sull’orlo del Baratro”, conversazione con Paul Virilio di Fabio Gambero, in “Speciale Iraq” Supplemento de L’Espresso, 2003, p. 84.