TEMPI DI SORORITA’

a cura di Catti Cifatte

 

Intervista a Mauro Castagnaro

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Mauro Castagnaro vive a Crema, Laureato in Scienze politiche, da sempre impegnato sui temi della pace e nella solidarietà internazionale, è educatore-sociologo presso la Comunità per il recupero di tossicodipendenti "Il cuore di Crema". Giornalista specializzato sulla realtà economica, sociale, politica ed ecclesiale dell'America latina, già redattore del Servizio informazione America latina (Sial), attualmente è membro della redazione di Missione Oggi e collabora con altre testate (Jesus, Il Regno, Popoli, ecc.). Si occupa anche di ecumenismo e ha curato per conto dell'Associazione italiana "Noi siamo Chiesa" i volumi "Il posto dell'altro", "Dopo il matrimonio" e "Confessione addio?" ( Ed. La meridiana).

 

 


 

MASCOLINITÀ E TENEREZZA

Prima parte dell’intervista a MAURO CASTAGNARO

1) Nei movimenti di una "Chiesa dal basso" sono oggi presenti momenti teologici di liberazione tra i quali  la teologia femminista che vorrebbe collocarsi trasversalmente ed interagire con ogni linguaggio, anche rivoluzionario, "al maschile": che cosa apprezzi e come valuti, personalmente, una visione teologica di genere? Hai avuto modo di approfondire queste tematiche?

Ho avvicinato e conosciuto (in parte) il pensiero di genere una quindicina di anni fa muovendomi da due punti di partenza e all’interno di due percorsi diversi, l’uno più personale, l’altro professionale. Da una parte, infatti, in una fase della mia vita in cui sentivo particolarmente necessario interrogarmi sulle mie relazioni con le donne, soprattutto approfondendo le dinamiche dei miei rapporti di coppia, mi imbattei nel volume “Riscoprire la mascolinità. Sessualità, ragione, linguaggio”, scritto dal sociologo inglese e militante della sinistra laburista Victor Seidler. Cresciuto con una forte tendenza a intellettualizzare e a “bastare a me stesso”, mi riconoscevo in questo libro (il primo di un autore maschio comparso nella collana sul “pensiero della differenza” curata da Luisa Muraro per Editori Riuniti), che indagava criticamente le implicazioni dell’identificazione storica tra mascolinità, ragione (e progresso) e autocontrollo/dominio sulle emozioni e sui sentimenti, tanto che da allora molto del mio cammino personale può essere riassunto nella ricerca di una maggiore integrazione e di una mia sintesi tra sfera emotiva e sfera razionale.

Intuisco che l’essere uomo o donna influenzi il proprio modo di sentire, di vivere, di guardare il mondo, anche se forse non è poi così facile definire quanto di ciò sia frutto di un’esperienza biologicamente differenziata (in primis, ovviamente, quella tutta femminile della gravidanza e del parto, cioè del sentire crescere una vita dentro di sé e poi doversene fisicamente separare) e quanto sia determinato culturalmente, se certe caratteristiche (penso a quelle ricondotte, nel magistero cattolico recente, alla categoria del “genio femminile”, ma, più in generale, tradizionalmente attribuite alla donna – tenerezza, emotività, accoglienza, impulsività, ecc. – o all’uomo – aggressività, volontà, forza, razionalità, ecc.) connotino “per natura” ciascun genere o piuttosto siano compresenti in ognuno in un “femminile” e in un “maschile”. Tutto ciò attraversa pure la mia vita, perché sono consapevole che alcuni tratti propri di uno stereotipo maschile (razionalità, autosufficienza, ecc.) mi appartengono profondamente. D’altro canto, non so quanto nella consueta ascrizione, per esempio, della tenerezza al “femminile” ci sia di “naturale” e di “culturale”, ma so che, come maschio, non posso rinunciare a essa e che l’esserne carente è un limite, perché si tratta di un valore “umano”.

 

E sul piano professionale?

Nello stesso periodo, avendo sempre concepito il mio lavoro di giornalista specializzato sull’America latina anche come impegno a dare voce in Italia a quanto di particolarmente interessante e innovativo emergeva nelle Chiese di quel continente, incontrai alcuni saggi di teologhe che innestavano l’elaborazione femminista nel tronco della teologia della liberazione, producendo una riflessione e pratiche originali. Queste mi parvero capaci di illuminare nuovi aspetti del mistero di Dio e di animare una vita cristiana più integrale, per cui tradussi qualche testo di Maria Pilar Aquino, Maria Teresa Porcile, Ivone Gebara, ecc. sul Servizio informazione America latina (Sial), alla cui redazione lavoravo, e ho poi continuato a seguire questo filone, oggi molto fecondo, pubblicandone altri su Missione Oggi, l’ultimo su “teologia femminista nera della liberazione” di Maricel Mena Lopez, una cattolica afrocolombiana che insegna Antico Testamento alla Escola superior de teologia di Sâo Leopoldo, un’università luterana del Brasile.

Svelando la pretesa neutralità e la falsa universalità dell’ordine simbolico e del linguaggio maschile, questa riflessione di genere consentiva (e consente) di mettere a nudo le strutture di oppressione patriarcali, individuando terreni prima ignorati, eppur ineludibili, in cui agire la liberazione, e al tempo stesso rendendo più complesso e aderente alla realtà il volto del soggetto protagonista della liberazione: non solo il “povero” dal punto di vista economico e sociale, ma la “donna” nella relazione di genere (come poi l’indigeno o il nero in quanto oppresso sul piano culturale, ecc.). Inoltre, destrutturando la costruzione e definizione del divino “al maschile”, si apriva un immenso, inesplorato e affascinante terreno di scoperta di Dio e la possibilità di un’esperienza di fede che, assumendo il carattere sessuato dell’identità, permettesse a tutte e tutti (ma principalmente agli uomini) di “ripartire” dalla consapevolezza della propria parzialità e quindi dal bisogno di dialogo con l’altra/o anche in quanto credente.

 

Nel tuo lavoro di giornalista hai mai scelto di usare un linguaggio inclusivo delle differenze di genere?

Quando scrivo mi sforzo sempre di seguire le “raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, elaborate dalla Commissione nazionale per la realizzazione delle parità tra uomo e donna nel 1994, perché mi sono accorto che quando ricorrevo al “maschile neutro” (per esempio, la parola “uomini” utilizzata in senso universale) inevitabilmente esprimevo un concetto che nella mia mente era rappresentato con un segno dominante maschile, per cui evitarlo (per esempio, sostituendo “uomini e donne”) mi costringeva (e mi costringe) ogni volta a “ricomprendere” il genere escluso (o relegato in seconda fila).

A questa sensibilità credo abbia contribuito il fatto che nella mia educazione forte è sempre stato il richiamo alla parità tra maschi e femmine, soprattutto da parte di mia madre, la quale ha costantemente affermato – non a parole, ma facendo capire come questo fosse un principio indiscutibile – tanto il proprio diritto a lavorare fuori casa quanto il trattare me e mia sorella (che pure era più giovane di un paio d’anni) allo stesso modo: per esempio, la mancia settimanale era rigorosamente la stessa e, fatto piuttosto insolito soprattutto a una certa età, uguali gli orari serali di rientro a casa.

Inoltre sono incuriosito dalle incipienti esperienze e riflessioni di genere da parte degli uomini.

 

Non credi che oggi sia praticamente impossibile nella chiesa cattolica italiana sperimentare vita comunitaria paritaria per uomini e donne?

Non c’è dubbio che nella Chiesa cattolica prevalga ancora, magari oggi in forme non teorizzate e meno esplicite, ma in realtà molto robuste, un’antropologia che considera l’uomo superiore alla donna. Questa visione giudaico-cristiana si basa sul mito di Adamo ed Eva (la quale corrompe il compagno, dopo essere stata a sua volta traviata dal serpente, a disegnare una sorta di scala morale che colloca gli istinti animali al livello più basso e al vertice un maschio fondamentalmente onesto, ma ingenua vittima del potere femminile di seduzione), a sua volta fondamento della cultura occidentale. È una mentalità millenaria, o più ancora forse un inconscio collettivo, tuttora fortemente radicato nelle nostre società, dove, in fondo, un’emancipazione femminile non limitata a singole esponenti delle classi agiate risale al massimo a un paio di generazioni.

Nelle Chiese, a volte più che nelle società, i ruoli di potere e responsabilità sono con assoluta prevalenza nelle mani dei maschi, specie dove, come nelle comunità ortodosse e cattolica, le donne sono rigidamente escluse dai ministeri ordinati, cioè dalla struttura del governo ecclesiale e solo oggi si affacciano ai luoghi “ufficiali” di formazione e produzione teologica, i quali non possono che elaborare immagini “maschili” di Dio, a loro volta legittimanti il potere degli uomini nella Chiesa. Tuttavia l’evolversi della società non può non costringere, come già sta avvenendo, le Chiese a cambiare, non per mero “adeguamento ai tempi”, ma per consapevolezza che la comprensione del progetto del Dio di Gesù Cristo avviene nella storia ed è progressiva, come ricorda il n. 8 della Dei Verbum. E una esigenza di rapporti più paritari nelle Chiese è diffusa.

 


 

…..NUOVE RELAZIONI SENZA SENTIRSI MENO UOMINI…..

Seconda parte dell’intervista a MAURO CASTAGNARO

 

 

Nel tuo lavoro in America Latina quali ricordi ed esperienze di realtà significative nelle relazioni tra donne e uomini?

Nel 2002, su proposta dell’allora responsabile per il Centroamerica dell’Associazione di cooperazione rurale in Africa e America latina (Acra), Marco Cantarelli, visitai i progetti che questo organismo finanziava in Nicaragua. L’esperienza che più mi colpì fu quella del Centro di orientamento familiare ed educazione sessuale “Xochilt Acalt” a Malpaisillo, un municipio abitato da 35.000 persone sparse in 46 villaggi su un territorio molto arido, dove, come negli altri distretti ex cotonieri, la disoccupazione supera il 70 per cento, l’alcolismo è diffuso e la povertà estrema. In quel contesto, caratterizzato da cultura maschilista e da livelli elevati di violenza sulle donne, da una clinica ginecologica “itinerante”, creata nel 1991 da tre consigliere comunali del Fronte sandinista di liberazione nazionale per la salute riproduttiva delle donne, è sorta un’associazione che ne riunisce 800 e opera anche sul piano educativo ed economico, in particolare offrendo alle donne crediti a tassi ridotti a patto che padri o mariti intestino loro terreni produttivi. Tutto ciò ha rivoluzionato l’esistenza delle donne e le loro relazioni nella società patriarcale, mettendo in discussione i rapporti di potere tra i sessi. Questo processo di empowerment, che ha consentito alle donne di aumentare il proprio reddito e riflettere su loro stesse da un punto di vista di genere, ha incontrato notevoli ostacoli in maschi cresciuti con la mentalità del “padre-padrone”, cui risultava molto difficile accettare che la moglie lavorasse fuori casa, uscisse alla sera per partecipare a riunioni di sole donne, decidesse che cosa seminare o allevare, chiedesse di essere aiutata nelle faccende domestiche o addirittura di avere voce in capitolo nella sfera della sessualità.

Tuttavia il Centro aveva deciso di coinvolgere anche i maschi nei programmi per nuovi leader delle comunità, offrendo a uomini e donne una formazione di genere, con una parte di riflessione sul vissuto e una di discussione teorica. E alcuni avevano accettato di mettersi in discussione, uscendone trasformati. Incontrandoli rimasi impressionato dal loro grado di consapevolezza. Uno mi disse: “Un tempo pensavo che il maggiore potere dell’uomo nella relazione con la donna fosse un dato di natura. Scoprire le discriminazioni che avevo compiuto verso mia moglie e le mie figlie mi ha fatto capire che potevo ricostruire nuove relazioni senza sentirmi meno uomo. E condividere il potere assoluto che detenevo in casa mi ha dato sollievo. Ho imparato pure a comunicare i sentimenti, che noi maschi siamo abituati a celare perché crediamo che essere uomini significhi non esprimerli. Invece è bello manifestare l’affetto con libertà e la relazione tra uomo e donna è più ricca”.

Un altro sottolineava il disorientamento dei familiari: “A volte ho difficoltà a farmi capire in casa mia. Non ho figli, ma i miei nipoti mi accusano di essere femminista perché ho assunto nuovi atteggiamenti. Prima ero molto aggressivo. Anche mia moglie fatica a comprendermi perché in fondo continua a pensare che l’uomo debba essere il capofamiglia, colui che decide”. E il discorso non si chiudeva nell’ambito privato: “Se vogliamo che il Nicaragua si sviluppi davvero dobbiamo smantellare il sistema patriarcale. Una trasformazione economica e sociale richiede una diversa leadership politica. Dobbiamo partire dalla famiglia, perché se cambiamo qui, saremo dirigenti diversi anche nell’ambito pubblico”.

 

E sul terreno teologico, dopo la teologia della liberazione, esiste una riflessione ed un approfondimento sull’identità di genere, sulle condizioni di mascolinità e femminilità nella comunità ecclesiale in rapporto alla tradizione e al messaggio biblico?

In America latina si cominciano a muovere i primi passi. Tempo fa, per esempio, la rivista Caminos del Centro Memorial Martin Luther King dell’Avana, diretta dal pastore battista Raul Suarez, ha pubblicato un articolo intitolato “Mascolinità e teologia” di Francisco Reyes Archila, un teologo colombiano che insegna in Guatemala, all’Università “Rafael Landivar”, retta dai gesuiti. Siamo ancora al livello della “istruzione del problema”, ma è chiara la domanda di partenza: “Si può parlare del maschio come nuovo soggetto teologico?”. Considerato che per secoli gli uomini hanno monopolizzato la produzione di teologia, la risposta può essere positiva solo nella misura in cui ci si riferisca a maschi che stanno diventando consapevoli della propria identità di genere, della propria parzialità, e cercano di elaborare una mascolinità più libera, integrale e umanizzante. Nel volumetto “Un’altra mascolinità possibile. Un’approssimazione biblico teologica”, Reyes approfondisce la mascolinità come costruzione socio-simbolica e presenta Gesù come esempio di maschio umano e umanizzante.

È chiaro che il tradizionale modello maschile non tiene più e il cammino per elaborarne uno nuovo appare più difficile, al punto che qualcuno parla di “eclissi del maschio”, di “società senza padri”, e in effetti la fatica, a volte senza esito, di ridefinire ruoli, competenze eresponsabilità del maschio sono esperienza quotidiana nella vita delle persone e delle famiglie. D’altro canto la storia non si ferma e tra gli uomini si fanno strada nuove maniere di vedere, di sentire e di essere. Ripensare la mascolinità può favorire una “crescita in umanità” per gli uomini e per le donne: ai primi consente di recuperare dimensioni negate o trascurate, soprattutto nella sfera dei sentimenti e delle emozioni, verso un modo più integrale di comprendere se stessi e la realtà attraverso strade (l’intuizione, gli affetti, i desideri) considerate tipicamente femminili, oltre che di liberarsi da ruoli stereotipati che sono fonti di inibizione, dolore e frustrazione, e alle seconde di uscire effettivamente dalla subalternità, dalla sottomissione, e trovare al contempo partner in grado di instaurare relazioni di autentica reciprocità ed equità.

Sulla stessa linea si colloca Amilcar Ulloa, pastore della Chiesa evangelica interamericana della Colombia ed ex segretario della Comunità di educazione teologica ecumenica latinoamericana (Cetela), secondo il quale, di fronte alla “lotta delle donne per una società più giusta e inclusiva”, la costruzione di una “nuova umanità” non sarà “possibile senza il concorso di uno nuovo modo di essere uomini”, il che esige di “assumere la riflessione teologica a partire dalla prospettiva della mascolinità”. Non a caso il cileno p. Diego Irarrazaval, presidente dell’Associazione dei teologi e delle teologhe del Terzo Mondo, ha riconosciuto che l’aver accompagnato per un certo periodo la teologia femminista, lo ha portato a “ricreare” la propria mascolinità, definendo questa esperienza personale “una liberazione relazionale”. Secondo Ulloa, per il maschio si tratta, usando un’immagine paolina, di “morire all’uomo vecchio per risorgere all’uomo nuovo”, liberandosi dai miti della società androcentrica che gli chiedono sempre di essere forte, non aver paura, affrontare qualunque avversità, provvedere alla famiglia su cui esercita autorità, salvo scoprire quanto questa “ossessione per il coraggio renda rudi fuori, ma vuoti dentro” e questo “regno sia schiavizzante”. Anzi, il modello di mascolinità dominante è, in ultima analisi, ansiogeno per i maschi, per esempio imponendo loro “di fare il proprio dovere” ed “lavorare sempre”, il che produce quel senso di oppressione e quegli affanni da cui Gesù ci invita a liberarci per affidarci alla provvidenza di Dio, vivendo “da uomini credenti e sereni”.

Discriminazioni vengono subite nell’ambito della Chiesa anche da parte degli omosessuali: tu hai curato “Il posto dell’altro. Le persone omosessuali nelle Chiese cristiane” dove vengono invece sviluppate apprezzabili considerazioni sull’accettazione delle diversità sessuali. Esiste una riflessione analoga in America latina?

Anche qui siamo alle “considerazioni preliminari”, che sorgono dall’incontro tra il nucleo fondamentale delle Teologie della liberazione e l’emergere di nuovi soggetti tradizionalmente esclusi, tra cui gli omosessuali, con la nascita pure di Gruppi cristiani di gay, lesbiche, travestiti, trangender e bisessuali, specie nei paesi del Cono sud. Per ora siamo ancora alla manifestazione del malessere delle minoranze sessuali per la sfasatura tra discorso teologico ed esperienza di fede. Tuttavia, dopo la fase in cui alcuni teologi eterosessuali denunciavano la grave emarginazione sociale in cui - più che nel Nord del mondo – gay, lesbiche e transessuali vivono in America latina, e criticavano l’omofobia, sollecitando la “accettazione e solidarietà con i ‘diversi’”, oggi si comincia a riconoscere agli omosessuali stessi la capacità di produrre teologia a partire dalla propria differenza. È il caso del pastore anglicano cubano Ivan Pérez Hernandez e del teologo luterano brasiliano André Sidnei Musskopf, che si è cimentato con la teoria, l’ermeneutica e la corporeità queer, partendo dall’idea della sessualità come realtà fluida, complessa e molteplice, in un articolo comparso nel volume “Teologia e sessualità. Un saggio contro l’esclusione morale”, curato da p. José Trasferetti, presidente della Società brasiliana di teologia morale, da anni impegnato nella pastorale con persone omosessuali e travestiti, oltre che autore di “Omosessuali ed etica cristiana”.

Tutti questi teologi tengono conto del fatto che in questo continente gli omosessuali “sperimentano la propria sessualità in un modo determinato da tutte le limitazioni socioeconomiche e politiche che condizionano le vite della maggioranza della popolazione dell’America latina. Tali restrizioni includono la mancanza di indipendenza economica e condizioni di povertà in relazione all’abitazione, all’assistenza sanitaria, all’istruzione e alla cultura. Ciò rende gli omosessuali più dipendenti dalle loro famiglie per le necessità quotidiane e meno disposti a mettere in discussione i costumi tradizionali delle loro comunità”. La riflessione perciò sottolinea sempre “un’oppressione che prima di tutto è economica” e afferma che “un’autentica liberazione omosessuale in e a partire dall’America latina” deve respingere in gran parte il riferimento all’“ideale illuminista di autonomia dell’individuo” e “la logica di consumo e spreco” in “molte occasioni seguita acriticamente dalle comunità omosessuali dei paesi ricchi”, perché non “coerenti con la liberazione/salvezza dell’umanità”.