Il divino: abitare il vuoto

 

Vuoto come esperienza del divino in uno spazio – tempo non identificati in alcun dentro – fuori.

Con coraggio dagli anni ‘90 i gruppi donne delle Comunità di base (www.cdbitalia.it) lavorano sul “divino: come liberarlo, come dirlo, come condividerlo”. Un divino “al di là di Dio padre” nel 2001, “in un corpo sessuato” nel 2002 (nel 2003 c’era il Sinodo europeo delle donne a Barcellona), “leggero fra di noi” nel 2004.

Il 15^ incontro nazionale svoltosi a Genova dal 2 al 4 giugno ha visto le cento e più donne che vi hanno partecipato impegnate con timore e passione in un lavoro di decostruzione estrema del divino in “mancanza di pezzi di tradizione, e di relazioni con persone care”, e sollecitate a “vivere il vuoto anche nei linguaggi verificandole difficoltà ditrovare segni, gesti e parole che ci esprimano nell’interezza di corpo-mente-emozioni, alla ricerca di parole incarnate”.

Immagine di sintesi dell’incontro una scultura raffigurante un “vuoto abbracciato”, uno stimolo tanto più forte in un momento in cui, sottoposti al flagello della globalizzazione economica, un movimentonelle chiese invoca ed evoca la promessa di pienezza di vita.

Perché e cosa significa fare il vuoto per sentire il divino leggero, la “voce di silenzio sottile” (I Re,19:12)? Un gesto disperato? un rientro negli argini dell’umanità?

Il vuoto non è il nulla ma può essere pieno di nulla. Un pieno svuotato, una stanza dopo uno sgombero o non ancora abitata. Vuota è una cella di rigore, uno spazio senza riferimenti, senza memoria e senza spiriti, un tempo di attesa o sospensione. Ricordava Paolo De Benedetti ne La morte di Mosè l’affermazione del filosofo Wittgenstein “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere” per considerare con quanta passione gli umani (e fra di loro particolarmente i filosofi, i teologi, gli scienziati e gli artisti) si misurano con l’ignoto, l’inconoscibile, l’irreale, l’inesprimibile o il non ancora noto mentre sapienza vorrebbe che essi riconoscano di “non saper dire”. Assenza e astinenza per smascherare l’idolatria.

Decidere di abitare –con grandezza- il vuoto è allora come accamparsi nel deserto controllando il bisogno di appartenere e di possedere, la nostalgia di mura, come seguire Gesù (che nel deserto andava ma non risiedeva) senza “neanche il cuscino per posare il capo”.

Per questo, guardare il vuoto per incontrare il divino è “un atto di coraggio dell’intelletto” (Giancarla Codrignani) che richiede una condizione esistenziale disposta all’instabilità, condizione rarefatta dalla precarizzazione delle vite materiali (a cui infatti le chiese rispondono generalmente elargendo consolazione),saturate di rumori e parole-pattumiera denaturate e a getto continuo che puntano a otturare il cervello come il cibo fast food che riempie senza nutrire producendo obesità. Fare il vuoto è allora anche un fare ordine, ridefinire e riorientare.

In questo senso il silenzio è rivoluzionario! È la prima forma di resistenza.

“Dall’altare alla mensa. Lontane dal sacrificio, vicine nella condivisione” a cura delle donne di Trento, “lo spazio della biodanza” e “il mistero della creta” offerti da Elisabeth Green e daLuisella Veroli sono state tre esperienze di preparazione con cui l’incontro si è aperto, attraverso la presa di contatto con la terra, il cielo e le altre, e lasciando andare le relazioni che ci fanno male. Non sapevo che le figure costruite con la creta dovessero essere cave all’interno per evitare di esplodere in cottura, così come non avevo riflettuto sul vuoto come condizione per abitare.

In questo cammino ci siamo poi lasciate condurre attraverso due corpi disciplinari: la psicanalisi e la filosofia.

Anna Maria Panepucci, “a favore dell’insaturo”, ha introdotto il vuoto come nostalgia di un pieno originariosenza tempo, avvoltodalle acque o da serpenti come la terra in qualche mito di creazione. Trauma collettivo ed individuale che cerchiamo di colmare ricorrendo a contenitori di senso rassicuranti come la famiglia, la chiesa, il partito, l’”imitatio Christi” per eludere la fatica di vivere nella consapevolezza e nella responsabilità su impalcature provvisorie, come quando abbiamo camminato disordinatamente nella stanza qualche volta scambiandoci sguardi, ognuna seguendo il suo percorso. L’insaturo è dunque condizione di apertura di una possibilità.

“Come nominare il vuoto con parole non consumate”? L’invito di Chiara Zamboni(giocando con il titolo di un suo libro) è di non aver fretta di riempirlo di immagini, scegliendo “una dimensione sintattica e non semantica” nell’esperienza del divino, mosse da un “desiderio di assoluto” non inteso come un eterno dove non andremo ma fuori di noi e interno alla nostra esistenza. Il desiderio è una forza potente che ci fa muovere un passo dopo l’altro guidate dall’intuito attraverso la materialità quotidiana: il desiderio della luce produce la luce e compone un disegno comprensibile a distanza, come accade di certi quadri. Il paradiso è la nostra stessa realtà girata di qualche grado, recita un detto ebraico.

Sono poi seguiti tre laboratori di approfondimento su “l’esperienza dell’incontro ascoltando il nostro ‘essere in relazione’”, su Giobbe 26:6-7 “davanti a lui il soggiorno dei morti è nudo, l’abisso è senza velo. Egli distende il settentrione sul vuoto, sospende la terra sul nulla”, bibliodramma proposto dalle donne di Pinerolo con Karola Stobaus, e un terzo sulla fiaba “Vassilissa la bella” di A. Afanasiev: dalla mancanza all’agio dello stare al mondo.

La sera è stata allietata dalla recitazione del gruppo donne di Genova "Il tesoro della mente: la visione di Maria di Magdala" liberamente tratto da “il vangelo secondo Maria Maddalena” di Mary Ellen Ashcroft.

Raccogliendo e seminando, Elisabeth Green a questo punto ha rilanciato alcuni interrogativi provando a “dire l’edificio (Dio) attraverso l’impalcatura” provvisoria delle immagini -su cuile chiese cercano diesercitare il monopolio-, delle rappresentazioni e delle storie che ci possono aiutare in questa fase a “traghettare” sul vuoto (Giovanna Romualdi).

Per esempio rileggendo Filippesi 2:5-7 in cui Gesù non “spogliò se stesso” ma “si svuotò” per prendere forma di servo.Non usò il potere per sé, né gli interessava essere uguale a Dio perchè il trono deve rimanere vuoto, come vuota era la tomba senza l’epilogo consolatorio della risurrezione.

Per contrasto, il giovane ricco accumulava beni materiali e, attraverso l’osservanza dei precetti, beni spirituali: era troppo pieno. Non c’era niente che potesse lasciare andare, non aveva capito il senso del sabato in cuisospendiamo e lasciamo che le cose facciano il loro corso, senza il nostro operoso lavoro. Proviamo allora a liberarci dall’attaccamento alle cose, dall’osservanza religiosa, dal fare (praticando il riposo) e dalle parole (praticando il silenzio).

Vuoto è anche il posto a tavola che gli ebrei lasciano durante la celebrazione della Pasqua in caso Elia decida di tornare.

Vuota e informe era la terra descritta in Genesi 1:2 quando lo Spirito aleggiava sulla superficie delle acque.

Vuota la pancia di Lazzaro sotto il tavolo del ricco Epulone.

Guardare il vuoto richiede forza, è stato ribadito, e non è da considerarsi rinuncia ad una presa di parola faticosamente cercata, quanto un tempo di preghiera e di ricerca spirituale.

 

 

Antonella Visintin

– FDEI - Torino