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PERCHÉ?

Quando mi sono imbattuto, quasi per caso, nella notizia che era stata istituita la Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi, ho avuto una sensazione  di sorpresa. Ma scorrendo il testo del “comunicato” della sottosegretaria Eugenia Roccella, a cominciare dalla data scelta per la celebrazione della “giornata”, l’anniversario della morte definitiva di Eluana Englaro, la mia sorpresa  si è tramutata in sconcerto. Lo stesso sentimento che ho provato ascoltando le parole gridate in parlamento dalla onorevole Paola Binetti a proposito del suicidio di Mario Monicelli:  un episodio di un uomo disperato, perché Monicelli era stato lasciato solo da famiglia e amici ed il suo è un gesto tremendo di solitudine non di libertà.

            Non è il caso di entrare nel merito di questi due fatti, circa i quali ho le mie personali convinzioni che ritengo non interessino a nessuno. Vorrei solo porre degli interrogativi, non prima però di aver accennato ad alcune delle tante risposte polemiche che l’istituzione di quella “giornata” ha acceso.

            Alla “giornata nazionale degli stati vegetativi” si è subito contrapposta la “giornata della libertà di scelta sulla propria vita” (UAAR e Micromega).

            Alla motivazione della scelta del 9 febbraio “perché il ricordo di Eluana non sia più una memoria che divide ma un momento di condivisione” si replica mettendo in risalto “l’ ipocrisia di coloro che sostengono di voler unire su un obiettivo che è palesemente destinato a dividere: la difesa del principio assoluto di sacralità della vita”  (Commissione bioetica della Tavola Valdese).

            E se una parte sostiene che la giornata sarà l’occasione per ricordare a tutti noi quanto è degna l’esistenza di tutti coloro che vivono in stato vegetativo e non hanno voce per raccontare il loro attaccamento alla vita (con il voluto riferimento al programma “Vieni via con me”), dall’altra si risponde che il dramma di quanti hanno un malato gravemente disabile da accudire non ha nulla a che fare con la disattenzione dei media; piuttosto ha a che fare con la disattenzione delle istituzioni e di quanti, chiamati a gestire il sistema sanitario, indicono improbabili crociate in difesa della vita e abbandonano poi i disabili e le loro famiglie a se stessi (Alessandra Maiorino), come dimostrano, ad esempio, progetti di legge per il prepensionamento dei genitori di disabili gravi e gravissimi, fermo al palo da 15 anni e, buon ultimo, il fondo nazionale per le politiche sociali del 2010 e 2011 ridotto quasi a zero.

            E di fronte a chi teme che il gesto di Monicelli (la cui presunta solitudine è stata smentita dalla figlia Martina e da tantissimi amici) possa assumere valore esemplare si contrappone l’ammirazione per il coraggio del gesto estremo, per l’ultimo atto di libertà del grande regista, nonché la profonda delusione per il fatto che non ci possa essere un modo più umano di togliersi la vita quando lo si ritiene opportuno.

            E vengo agli interrogativi che vorrei sottoporre in primo luogo a chi nel Governo ha deciso quella “giornata” in quella data e con quelle motivazioni e poi a quella parte del mondo cattolico italiano che ha ritenuto la decisione di introdurre la ricorrenza del 9 febbraio come qualcosa di “indispensabile” (Avvenire, 02.12.2010).

            Mentre credo ci sia un consenso generale  sulla necessità di garantire  sostegno alle famiglie ed ai centri che si fanno carico di coloro che vivono in stato vegetativo e sull’opportunità di fare il punto scientifico sulla scoperte concernenti queste situazioni, mi domando se era proprio necessario ed opportuno  indire la “giornata” il giorno dell’anniversario della morte definitiva di Eluana. Il prof  Pessina del centro di bioetica dell’università cattolica ritiene “sbagliata e non condivisibile” la proposta di celebrare la “giornata” in quel giorno. Ed il prof. on. Ignazio Marino ha definito la cosa una “inutile provocazione”.

            Perché poi presentare Eluana come “una ragazza affetta di disabilità grave”, la cui “vita è stata interrotta per decisione della magistratura”, quasi a voler significare che lo stato della donna non fosse irreversibile e che quindi i giudici avrebbero consentito la soppressione di una disabile?  

            Perché non si può parlare, discutere, confrontarsi su questi temi (testamento biologico, fecondazione artificiale, cellule staminali, ed anche questioni più complesse come suicidio assistito ed  eutanasia,) senza dogmatismi, senza pretese di essere gli unici depositari della verità, senza voler imporre per legge a tutti quello che dovrebbe invece rientrare nella sfera delle libertà individuali? Non si può convivere in un normale pluralismo, dove idee e prassi diverse, che non obbligano nessuno e non danneggiano nessuno, possano coesistere senza reciproche condanne, scomuniche, anatemi? Lo si fa più o meno in quasi tutto il mondo, perché non si potrebbe fare anche in Italia?

Leo Piacentini - Comunità di Piazza del luogo Pio - Livorno


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