Spiritualità indigena

Evo Morales, eletto da poche settimane presidente della Bolivia, è il primo presidente indio di un paese a grande maggioranza indigena. Il 21 gennaio scorso sulla sponda boliviana del lago Titicaca, Evo Morales, con un rito che non si celebrava da 500 anni, riceveva, dopo quella democratica, l’investitura religiosa a capo supremo dei popoli originari boliviani. (Con singolare coincidenza nella stessa data in Salvador gli indigeni rivendicavano, in una cerimonia maya, la memoria storica del massacro del 1932, una strage che segnò di fatto, nel Paese, la scomparsa dei popoli indigeni come soggetto politico).

Questa rivitalizzazione e riappropriazione di una religiosità propria e originale (forse mai del tutto scomparsa sotto la cappa di un cristianesimo imposto dai conquistatori europei organico e funzionale alla loro politica di dominio) sembra concretizzare quello che la scorsa estate sembrava appena un auspicio di padre Franco Masserdotti il vescovo incaricato dalla Conferenza episcopale brasiliana di occuparsi degli indigeni. A noi che eravamo in visita alla sua diocesi confidava di condividere, prendendolo in seria considerazione, il suggerimento scaturito da un convegno di antropologi di stabilire insieme una moratoria di trent’anni per ogni forma di catechizzazione cristiana di questi popoli; una moratoria durante la quale noi cristiani dovremmo sforzarci di comprendere la spiritualità indigena non riducibile a panteismo senza trascendenza – come spesso si è sbrigativamente sentenziato.

Una eventuale successiva evangelizzazione potrebbe così, forse, fare i conti con un’inculturazione corretta di una proposta di fede non condizionata dal potere colonizzatore che l’ha imposta e di cui continua a portare lo stigma, una proposta che solo così potrebbe essere rispettosa delle loro radici spirituali e religiose.

Pier Giorgio Rauzi - Trento