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2008: un anno per due anniversari.

150 anni fa un gruppo di laici bolognesi si assunse la responsabilità di organizzare una presenza visibile dei cattolici italiani in un’Italia che si andava costruendo fuori, se non contro, la Chiesa. Fu il germe dell’Azione cattolica italiana. Riuscì a portare frutti perché gerarchia e Santa Sede, tagliate fuori dai processi di rapida modernizzazione e secolarizzazione che attraversavano la società italiana, trovarono conveniente legittimare la nuova realtà. Dopo l’avvento del fascismo, che non tollerava organizzazioni autonome, l’Azione cattolica non subì la sorte di altre associazioni ecclesiali perché la Santa Sede trovò altrettanto conveniente assumerne la responsabilità diretta, riducendola, però, a collaboratrice dell’apostolato gerarchico. Eliminò ogni sua autonomia e con essa il rischio di vedere ridotta la piena autoreferenzialità della casta clericale.

Quarant’anni fa la stessa operazione fu ripetuta all’interno del sommovimento epocale del sessantotto. Confortati dalla svolta conciliare, che aveva proclamato la Chiesa Popolo di Dio in cammino, gruppi di cattolici, che avevano preso sul serio quel rovesciamento della centralità della gerarchia, si assunsero la responsabilità di costruire esperienze di chiesa all’interno di quell’evento che, come sostiene Enzo Mazzi nel suo ultimo libro Cristianesimo ribelle, si era caratterizzato come gestazione planetaria della speranza. Ben altro che una sommossa di pochi esaltati o opportunisti come emerge da tanti commenti: il pianeta non fu più come prima.

Fra i tanti sessantotto che nella politica, nelle fabbriche, nei servizi, nella scuola, nella cultura tentarono di dare dignità e responsabilità ai dannati della terra, agli esclusi, alle plebi, contadine o proletarie, dichiarando tutte/i cittadini e non sudditi ce ne fu uno anche nella Chiesa cattolica. Furono in molti, consacrati e non, a sentirsi Popolo di Dio impegnati ad assumersi la responsabilità di cambiare: se addetti a ruoli ministeriali, recuperandone l’autentica funzione di servizio, se sparsi per società testimoniando che il Vangelo poteva essere realmente vissuto e non solo predicato. Fra di loro nacquero le Comunità di base: di base perché autoconvocate, di base perché gli esperti non avevano ruolo di leader, di base perché immerse nella fatica del vivere quotidiano.

Poteva sembrare la stessa operazione di cent’anni prima ma i tempi erano cambiati: la gerarchia italiana e la Santa Sede, protette dall’ombrello concordatario e dallo scudo della Dc al governo, le bollarono come dissenso. In verità esse non mettevano in discussioni dogmi, non si cimentavano in questioni teologiche: si può dissentire da una dottrina, come fanno teologi o canonisti. Esse  erano solo impegnate nella ricerca di prassi alternative, di “chiesa altra” rischiando in proprio e senza pretendere legittimazioni, senza neppure un disegno predefinito. Proprio per questo dovevano essere represse. Dove non fu sufficiente la sanzione canonica supplirono i processi o le aggressioni, come a Firenze, a Lavello, a Giojosa Jonica. Ad esse furono preferiti i movimenti ecclesiali guidati da leader carismatici con cui si può trattare di legittimazioni e deleghe. Questi sono oggi fiorenti, l’Azione cattolica ulteriormente normalizzata, le Cdb, pur se notevolmente ridimensionate nel numero, continuano il loro cammino fedeli all’intuizione originaria, indisponibili a ridursi a comunità terapeutiche o ad appendici di operatori pastorali, più o meno alternativi, a discepole di teologi più o meno progressisti. Non si sentono orfane del sessantotto né intendono abortire: continuano a portare avanti la gestazione planetaria della speranza. Fedeli alla memoria di quanti hanno contribuito a generarla: Gigi, Elio, Martino, Ciro, Nanda, Agnese, Elisabetta, Marco, Natale, Amilcare, e tante/i /altre/i, ......

Marcello Vigli

Gruppo di controinformazione ecclesiale


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