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David Gabrielli

Un testamento che lacera la Chiesa romana

Confronti n. 3/2009

                   

A cinquant’anni dal primo annunzio del Concilio, che ne è dell’eredità della grande Assemblea voluta da papa Giovanni? Benedetto XVI ha celebrato l’anniversario cancellando la scomunica ai vescovi lefebvriani che pur continuano a sostenere l’antisemitismo teologico. La vergogna di Richard Williamson.

 

Sono appena trascorsi cinquant’anni da quando, il 25 gennaio 1959, Giovanni XXIII annunciò per la prima volta l’intenzione di convocare il Concilio Vaticano II, che si sarebbe poi celebrato in san Pietro dal 1962 al 65, in quattro distinte sessioni autunnali. L’anniversario, per volere di Benedetto XVI che così ha inferto un vulnus calcolato alla memoria ed alla eredità del Concilio, si è incrociato con la cancellazione della scomunica a quattro vescovi seguaci di mons. Marcel Lefebvre, acerrimi avversari delle deliberazioni della grande Assemblea. Uno, poi, di tali vescovi, il britannico Richard Williamson, ha sostanzialmente negato la Shoah, e questo ulteriore fatto – di per sé non legato alla precedente vicenda – ha aperto un’altra finestra che, indirettamente, getta una luce sinistra sul mondo dei tradizionalisti ora riabilitati e sulla «politica» d’Oltretevere.

 

Le quattro stagioni del Vaticano II e del post-Concilio

Il Concilio approvò quattro costituzioni: su liturgia (Sacrosanctum Concilium), Chiesa (Lumen gentium), divina rivelazione (Dei verbum) e rapporti Chiesa-mondo (Gaudium et spes); nove decreti – tra i quali sull’ecumenismo (Unitatis redintegratio); tre dichiarazioni, tra cui sui rapporti con le religioni non cristiane, in particolare con l’ebraismo (Nostra aetate), e sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae). Nell’insieme, questo corpo dottrinale e pastorale ha rappresentato il più grande sforzo, a livello del massimo magistero cattolico, nel secolo ventesimo, per «aggiornare» la Chiesa cattolica romana. Caratteristica del Vaticano II, rispetto agli altri Concili del secondo millennio, ecumenici per la Chiesa di Roma, ma solo generali della Chiesa latina secondo l’Ortodossia (e anche secondo diversi teologi cattolici), e soprattutto rispetto ai due precedenti – Trento (1545-63) e Vaticano I (1869-70) – fu che le proclamazioni dogmatiche e le indicazioni pastorali non furono seguite dalla famosa espressione anatema sit (sia scomunicato chi non crede che…).

     Più forte, spesso, dei suoi documenti, fu l’evento stesso del Concilio, e cioè il fatto che circa duemilacinquecento «padri» – l’idea che ci potessero essere anche le «madri» era totalmente estranea, allora, tanto ai vescovi e teologi «conservatori» che «progressisti» – provenienti da ogni parte del mondo, discutessero liberamente su come scrostare dalla polvere dei secoli l’antico albero della Chiesa romana per farvi scorrere meglio la linfa vitale sì da riuscire ad annunciare in modo credibile l’evangelo, inserendolo nelle diverse culture, e quindi relativizzando la cultura ecclesiastica europea fino ad allora dominante. Il Concilio, insomma, poneva l’intera Chiesa cattolica in stato di Concilio.

     Papa Giovanni parlò del Concilio come «fiore di inaspettata primavera». Assumendo questo paragone, potremmo dire che, dopo il lieto inizio, venne poi l’estate con la sua messe, cioè il dibattito e l’approvazione dei sedici documenti finali. E poi arrivò l’autunno, caratterizzato da prevalenti segnali negativi, ma qua e là, come ogni stagione che si rispetti, anche da eventi fecondi. Paolo VI attuò con coraggio la riforma liturgica di cui la Sacrosanctum Concilium aveva posto le premesse fondamentali, ma non certo l’intera elaborazione; e proprio a questa riforma si appigliò monsignor Marcel Lefebvre per contrastare le conseguenze del Vaticano II. Ma Montini fu anche il papa che sottrasse al Concilio la discussione su due temi caldi: il celibato obbligatorio per i preti latini, e i mezzi moralmente leciti per la regolazione delle nascite. E, dopo il Concilio, confermò la normativa vigente sul primo tema, e con l’enciclica Humanae vitae nel 1968 riaffermò – malgrado il diverso parere della grande maggioranza di una commissione consultiva da lui stesso voluta – il no alla contraccezione. Un atto di imperio che provocò vastissimo esplicito o implicito dissenso, portando milioni di cattolici a mettere in questione, in concreto, il senso del magistero ecclesiastico. Si avviò, insomma, quello «scisma sommerso» che da allora, malgrado i tentativi del trionfalismo ecclesiastico di occultarlo, percorre il corpo della Chiesa romana.

      Ma fu soprattutto sulla collegialità episcopale e nella concretizzazione della Chiesa come «popolo di Dio» che Montini svuotò il Vaticano II: infatti, il Sinodo dei vescovi da lui voluto nel ’65 è lontano dall’inverare, a livello teologico e normativo, le intuizioni della Lumen gentium; dunque il potere papale, abbellito da una cosmesi facciale, è rimasto lo stesso – monocratico e, attraverso la Curia romana, accentratore – a scapito delle Chiese locali (diocesi e gruppi di diocesi sparse nel mondo).

      Da parte sua, andando a visitare, il 13 aprile ’86, la sinagoga di Roma e, il 27 ottobre successivo, convocando ad Assisi i leader delle varie religioni del mondo a pregare per la pace, Giovanni Paolo II fece due gesti davvero incisivi per attuare la Nostra aetate. E un seme capace di generare, in futuro, frutti inattesi di conversione per l’istituzione ecclesiastica, fu – nel Duemila – la giornata da lui indetta per chiedere perdono a Dio dei peccati dei «figli» della Chiesa. Ma il pontificato di Wojtyla – attraverso la longa manus del cardinale Jospeh Ratzinger, da lui nell’81 nominato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede – nel contempo si caratterizzò anche per una scientifica e sistematica emarginazione delle teologhe e dei teologi impegnati ad approfondire gli input del Vaticano II, e contro le realtà di base decise ad incarnare l’evangelo nello storia ponendosi dalla parte degli impoveriti. Egli sempre si rifiutò di dare voce deliberativa al Sinodo dei vescovi e, continuando in proposito il silenzio montiniano, ignorò le possibili soluzioni per dare voce, a livello della Chiesa universale, alla partecipazione del «popolo di Dio» alle scelte e decisioni riguardanti tutti e tutte.

 

L’inverno di Ratzinger

Tutti ben conoscevano le posizioni teologiche del cardinal Ratzinger; e dunque si deve dire che i cardinali (praticamente tutti scelti da Wojtyla, che pilotò la sua successione prevedendo per il conclave un’evidente maggioranza di prelati legati ad una interpretazione restrittiva del Vaticano II) lo vollero come papa proprio per le sue tesi. E Benedetto XVI, programmaticamente, porta avanti le battaglie fatte da porporato; e, dall’alto del suo soglio, ora impone all’intera Chiesa romana anche le tesi e le scelte che da porporato non era riuscito del tutto a far passare.

      Per limitarci qui al nodo del Concilio, riteniamo che la magna charta del pensiero del nuovo papa sia il suo discorso alla Curia romana il 22 dicembre 2005: un intervento la cui asse, ci sembra, sta nel rifiuto di interpretare il Concilio con la «ermeneutica della discontinuità e della rottura», preferendo invece «l’ermeneutica della continuità e della riforma»». Ora (riduciamo in pillole una problematica articolata) è vero che il Vaticano II per molti aspetti è in piena continuità con il magistero papale e conciliare precedente. Ha cambiato però prospettiva nel valutare, nell’insieme e non senza contraddizioni, il modo con cui la Chiesa si pone di fronte a se stessa ed al mondo; cioè ha rovesciato l’ottica della Controriforma. Ha posto alcune premesse (spesso poi tradite) per l’uscita dal regime di Cristianità che è quello – in realtà – che ha in mente Ratzinger quando pretende di essere l’interprete autorizzato, erga omnes, della legge naturale che, lui dice, dovrebbe innervare anche le legislazioni degli Stati.

     Vi sono comunque almeno due punti sui quali il Vaticano II ha cambiato radicalmente, cioè ha posto una discontinuità invalicabile con il magistero precedente: la valutazione teologica del popolo ebraico nel piano della salvezza e la libertà religiosa. Nel citato discorso, Ratzinger – come spesso gli accade – fa una descrizione caricaturale dei sostenitori della «discontinuità»per meglio così sostenere le sue proprie tesi; ma poi deve arrampicarsi sui vetri per cercare di mostrare comunque la continuità del magistero ecclesiastico. Ma non vi è alcun artifizio retorico che possa affermare «continuità» tra il seminare, per secoli ed a piene mani, l’antigiudaismo e l’antisemitismo teologico, e l’affermare, con Nostra aetate, la permanente validità del patto di Dio con il popolo d’Israele. Né vi è «continuità» tra l’affermazione – proposta per secoli da papi e Concili – del diritto-dovere, in linea di principio, di eliminare gli «eretici», e la Dignitatis humanae che afferma il dovere di rispettare concretamente la scelta di coscienza di ogni persona, anche in materia di fede.

 

Viva Lefebvre, abbasso Lefebvre

Il discorso del 2005, e altre scelte cruciali, o anche apparentemente minori del pontificato ratzingeriano, avevano ed hanno lo scopo precipuo, ci sembra, di «recuperare» i seguaci di mons. Lefebvre, a costo di manomettere il Concilio. Il prelato, infatti, quarant’anni fa si oppose di petto all’orientamento che, su ebrei e libertà religiosa, stava prevalendo tra i «padri», ponendo ad essi questo dilemma: o si ammette che per secoli il magistero papale e conciliare si è sbagliato, ed ha ragione il Vaticano II – ma allora cade l’intero magistero che per secoli ha predicato l’errore; o si afferma che sbaglia questo Concilio ed ha ragione il magistero precedente – ma allora sono eretiche le «novità» di Nostra aetate e di Dignitatis humanae.

      Il Concilio, senza ammettere esplicitamente che tagliava con il magistero precedente e, anzi, cercando di dire che la nuova posizione era una semplice «evoluzione», di fatto cambiò radicalmente la passata dottrina. Dunque, per custodire la «Chiesa di sempre» Lefebvre, nel ’70, fondò la Fraternità sacerdotale san Pio X (con sede ad Econe, Svizzera): e poi rese esplicito il suo rifiuto di accettare la riforma liturgica varata da Paolo VI, sostenendo che il nuovo rito post-conciliare era di sapore «protestante». Il pontefice lo sospese a divinis nel ’76; e papa Wojtyla, quando il 30 giugno ’88 Lefebvre consacrò – contro il parere di Roma – quattro vescovi (Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso de Galarreta) scomunicò i cinque. Fallirono i successivi tentativi della Santa Sede di risolvere il caso. Esso fu riaperto da Benedetto XVI, arrivando alla conclusione annunciata il 24 gennaio scorso. Si apprendeva allora che il 15 dicembre 2008 Fellay, a nome degli altri tre confratelli, proclamando la loro volontà di «rimanere cattolici… Noi crediamo fermamente al Primato di Pietro e alle sue prerogative», aveva chiesto la cancellazione della scomunica. Risposta, il 21 gennaio, attraverso un decreto del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi: il papa «con sollecitudine pastorale e paterna misericordia, rimette la scomunica», auspicando però che «non sia risparmiato alcuno sforzo per approfondire nei necessari colloqui con la Santa Sede le questioni ancora aperte, così da poter giungere presto a una piena e soddisfacente soluzione del problema posto in origine».

     Nel loro carteggio, tanto Econe che Roma ignorano il Vaticano II, e cioè l’oggetto stesso alla radice della contesa: un’assenza così scandalosa per molti cattolici che il 28 gennaio il papa è stato costretto a nominare il «convitato di pietra», auspicando che i perdonati presto giungano ad un «vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del papa e del Concilio Vaticano II». Siamo così al paradosso: i quattro prelati lefebvriani sono riconosciuti vescovi cattolici pur, intanto, essi non riconoscendo il Vaticano II. La sua accettazione (in particolare nei punti cruciali ricordati) sarà oggetto di trattative… future. Dunque, il Concilio è un optional. Il papa che ad ogni momento tuona contro il relativismo, relativizza, di fatto e sostanzialmente, il Vaticano II. Alcuni ventilano l’ipotesi che i lefebvriani infine firmino questa formula: «Accettiamo il Vaticano II in quanto non contrasti con la Tradizione della Chiesa». Traduzione del pastrocchio: ai lefebvriani sarebbe (oppure è?) concesso non accettare Nostra aetate e Dignitatis humanae, anche perché la dottrina di questi documenti non è stata proclamata come dogma!

      Si sussurra che l’eminenza grigia della «pax helvetica» sia stato il presidente di Ecclesia Dei (la commissione pontificia per trattare con i lefebvriani), il cardinale colombiano Darío Castrillón Hoyos. E’ probabile, anche perché la diuturna battaglia da lui sempre condotta, in America latina e in Curia, contro la Teologia della liberazione, lo raccomandava per l’alto còmpito. Ma, infine, è stato il papa – dopo l’udienza, il 29 agosto 2005, a Fellah – ad indicare i binari della trattativa, ad approvarne ora l’esito, e ad assumerne ecclesialmente la responsabilità.

     Del resto, non da oggi Ratzinger si muove inesorabilmente per scuotere con colpi di maglio il Vaticano II e spianare la strada ai lefebvriani: la riabilitazione della liturgia pre-conciliare (2007); l’affermazione che le Chiese nate dalla Riforma «non sono Chiese in senso proprio» (2007); una esegesi teologicamente faziosa dell’affermazione della Lumen gentium («la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica romana»), per farle dire che… «la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica romana» (2007); il discorso di Ratisbona (2006) che molto irritò i musulmani e, ancor più, i teologi cattolici che vogliono dialogare con i non cristiani; l’affermazione (2007) che in America latina «l’annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un’alienazione delle culture precolombiane, né fu un’imposizione di una cultura straniera»; la nuova preghiera (2008) del Venerdì santo per gli ebrei che indirettamente continua a chiedere la loro conversione. E, «paterno» con i lefebvriani, non ha riabilitato nessuno dei teologi/e da lui puniti quando era cardinale.

 

La negazione della «Shoah»

Ad un pontefice che ha tanto a cuore i simboli, soprattutto se pre-conciliari, non poteva non sfuggire che, perdonare i lefebvriani praticamente alla vigilia della giornata della memoria della Shoah (27 gennaio), avrebbe significato – malgrado ogni pur esplicita dichiarazione contraria – avallare l’antisemitismo teologico che innerva la loro opposizione al Concilio, e soprattutto a Nostra aetate. Un dato per certi aspetti più deflagrante delle farneticanti affermazioni di Williamson – note a Roma prima del 24 gennaio! – nelle quali l’ex scomunicato negava gli orrori della Shoah (o di quelle, analoghe e vergognose, del responsabile dei lefebvriani del Nord-Est italiano).

     Sono certo importanti le ferme parole con le quali il 28 gennaio il papa ha ripreso l’argomento: «In questi giorni nei quali ricordiamo la Shoah, mi ritornano alla memoria le immagini raccolte nelle mie ripetute visite ad Auschwitz, uno dei lager nei quali si è consumato l’eccidio efferato di milioni di ebrei, vittime innocenti di un cieco odio razziale e religioso… Rinnovo con affetto l’espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri fratelli destinatari della Prima Alleanza… La Shoah sia per tutti monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo». E’ anche vero che Fellay ha preso le distanze dal confratello vescovo, notando che le sue opinioni sulla storia non rappresentano Econe; e che infine lo stesso Williamson ha chiesto scusa al pontefice per il clamore suscitato, ma non per la sostanza del suo pensiero e senza scusarsi affatto con il popolo ebraico. Resta, insomma, irrisolto, il nodo di fondo: Ratzinger ha sdoganato i lefebvriani che continuano imperterriti a mantenere la loro teologia radicalmente antisemita.

      Dunque benissimo hanno fatto rappresentanze della diaspora ebraica, a Roma e nel mondo, e il rabbinato di Israele, a protestare non solo contro Williamson e soci, ma, anche, contro la persistente ambiguità vaticana. Ma, avendo dischiuso clamorose contraddizioni nel magistero papale, l’affair lefebvriano potrebbe diventare il detonatore che obbliga anche i cattolici «conciliari» (soprattutto quei «progressisti» che mugugnano nei corridoi ma non osano esprimersi in pubblico) ad opporsi a viso aperto contro «il tradimento del Concilio». Per salvare quel corpus e quell’evento, da varie parti stanno sorgendo iniziative per celebrare in questi anni – 2009/15 – i cinquant’anni dall’annunzio e dalla conclusione del Vaticano II: rendendo grazie, organizzando studi e convegni, ed impegnandosi ad inverarlo dove è stato congelato, ed a svilupparne i germi appena appena seminati. Perché dopo l’inverno torni la primavera.