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“UN PALESTINESE PORTA LA CROCE”.
MA CREDE ANCORA IN UNA PACE GIUSTA

di Luigi Sandri  

da Adista n. 49/2009

 

 “Avrebbe senso il prossimo viaggio del papa in Terra santa se egli non visitasse anche la Striscia di Gaza, per vedere con i suoi occhi la desolazione provocata dall’attacco israeliano in dicembre e gennaio?”. È quanto si è chiesto Geries Saed Khoury, presentando il 18 marzo a Roma "Un palestinese porta la croce" (Emi, Bologna 2009, pp. 224, euro 14), libro nel quale l’autore – arabo israeliano, teologo, cattolico greco-melkita – riflette appunto su che cosa significhi oggi cercare di vivere l’Evangelo inseriti in un contesto storico e geopolitico dominato dal conflitto e gravato dall’occupazione militare israeliana che nei Territori dura dal 1967.

A metà marzo non era stato ancora reso noto, nel dettaglio, il programma ufficiale della visita che Benedetto XVI avrebbe compiuto in Giordania, Israele e Territori palestinesi dall’8 al 15 maggio; le indiscrezioni fino ad allora diffuse sostenevano tuttavia che il pontefice si sarebbe recato a Betlemme e nel vicino campo profughi di Aida, in Cisgiordania, escludendo del tutto un pur brevissimo passaggio a Gaza. Un’esclusione - confermata il 26 marzo quando il Vaticano ha comunicato il programma completo del pellegrinaggio - che, secondo Khoury, avrebbe provocato “una sensazione amara”.

Ma il volume non parla del viaggio papale in Terra Santa; approfondisce invece la questione della presenza cristiana a Gerusalemme e dintorni: un fatto, in astratto, noto a tutti ma, in realtà, quasi sconosciuto, perché pochi, in Occidente, riflettono sulla difficilissima situazione spirituale (oltre che fisica e materiale) dei cristiani che vivono in un contesto dominato da una parte dagli ebrei e, dall’altra, dai musulmani. D’altronde, nell’insieme dello Stato di Israele e dei Territori palestinesi occupati, i cristiani, delle varie Chiese, oggi rappresentano solo l’1,6-1,7% degli undici milioni di popolazione complessiva.

L’autore apre il libro raccontando lo shock che provò quando negli anni Settanta, a Roma per studiare, all’affermazione “sono arabo”, invariabilmente gli veniva replicato: “Ah, allora sei musulmano”. Quasi nessuno, infatti, sapeva che in tutti i Paesi del Medio Oriente, e dunque anche a Gaza e in Cisgiordania, esistono, pur con intensità variabile, antichissime comunità cristiane. Se tale era l’ignoranza trent’anni fa, oggi non è che sia molto meglio: e perciò, partendo dalla sua storia personale, Geries Khoury aiuta a conoscere dal vivo la situazione dei cristiani palestinesi che, insieme ai loro fratelli musulmani, stragrande maggioranza della popolazione, vivono la tragedia in atto.

Con qualche racconto di carattere anche personale, l’autore mostra le umiliazioni e le sofferenze inflitte ogni giorno ad un intero popolo, e che hanno la loro origine – ribadisce Khoury – nella perdurante occupazione militare e coloniale israeliana dei Territori che si protrae da oltre quarant’anni. In tale contesto, che significa l’evangelo della riconciliazione, e il discepolato di Gesù? Può esservi perdono verso la potenza occupante se essa perdura nel suo dominio? Si dà forse pace senza giustizia? E se giustizia non c’è, come resistere all’ingiustizia? Il primo Testamento fonda il possesso della terra per il popolo ebraico e lo legittima a cacciare i palestinesi dalle loro case?

Oltre ad illustrare la situazione dei cristiani di Terra Santa, l’opera pone domande scomode per loro stessi, ma anche per noi occidentali, e tanto più per i cristiani occidentali che, per non andare in crisi, queste domande di solito le evitano, lasciando soli i palestinesi a portare una croce pesantissima. Data la sua professione – è preside del dipartimento di Teologia delle Mar Elias Educational Institutions di Ibilin (Israele), e lavora al Centro Al-Liqà di Betlemme per la promozione dell’amicizia tra cristiani, musulmani ed ebrei – e dunque vivendo la situazione sui due versanti del conflitto arabo-israeliano, l’autore è un testimone privilegiato dei fatti che racconta; e su di essi radica le sue riflessioni storiche e teologiche che, dunque, non sono accademiche, ma nascono come spine da una cruda realtà. Solo partendo dall’analisi di questa realtà – conclude Geries – è possibile, per un cristiano, coltivare una speranza che non sia un gigantesco alibi, e volere una riconciliazione con lo Stato di Israele che non sia annullamento dei diritti del proprio popolo.