Etica. Accanimento o resistenza

di Giovanni Franzoni – Cdb S.Paolo-Roma
da www.confronti.net

La terapia intensiva è importantissima se si inserisce in un percorso veramente terapeutico, ma diviene sadica quando è contro l’interesse della persona e se è praticata per fini ideologici si avvicina alla tortura. Ma nessuno vuole negare cure a oltranza a chi abbia lasciato una volontà testamentaria in tal senso.

Bisogna riprendere pacatamente il discorso, in questa fase di isterismo ideologico suscitato intorno al caso di Eluana Englaro, per chiarire i termini con i quali affrontiamo il tema della fase terminale della vita umana.

L’espressione «movimento per la vita», per fare un esempio, sembra infatti pretendere una sorta di esclusiva, quasi che i movimenti impegnati nell’affrontare il problema della fame e del sottosviluppo nel mondo o quelle organizzazioni sindacali che pretendono la prevenzione degli incidenti sul lavoro e sulle «morti bianche» non fossero movimenti «per la vita». L’unica prerogativa del Movimento per la vita, alla fin dei conti, è la pretesa di considerare una cellula staminale, in forza del suo Dna, soggetto umano di diritti come un individuo evoluto e complesso, dotato di memoria, libertà e relazioni. Questa riduzione sembra spogliare la vita, per cui il Movimento si adopera con tanto fervore, di ogni contenuto relazionale.

Appare poi terroristico definire «cultura della morte» ogni pensiero che si investa del problema di seguire un malato nella fase terminale privilegiando la qualità del vivere nei confronti della quantità, e ponendo al centro dell’attenzione la dignità della persona e l’espressione libera della sua volontà sulle terapie accette e rispettose dell’immagine che ciascuno ha di se stesso.

È comprensibile che ci sia dell’allerta, dato che la vita, nel nostro mondo, è immersa nella precarietà e nella vulnerabilità. Disattenzione, leggerezza, cedimento a istinti e pulsioni, violenze e guerre sono quotidianamente causa di sofferenza e di morte. Sarebbe peraltro bene che il «mea culpa» fosse recitato globalmente e che varie culture e istituzioni fossero rappresentate al tavolo della elaborazione di nuove terminologie e pratiche condivise. Resistenza, dunque, alla malattia e alla sopravvenienza del morire, ma non accanimento artificioso.

La stessa espressione «fine della vita» che si affaccia oggi come tema di un provvedimento di legge, sembra riduttiva. Riduttiva per coloro che hanno fede in una sopravvivenza spirituale, e questi non sono solo religiosi dell’area ebraico-cristiana-islamica, perché fra gli induisti può essere praticato il digiuno fino alla morte per desiderio di accedere ad una vita spirituale più fruttuosa: tutti ricordiamo il digiuno fino all’estinzione di Vinoba Bave, l’illustre e fedele discepolo di Gandhi, bramoso di liberarsi dall’esistenza corporea per passare ad una attività spirituale in cui credeva con tutta la sua anima. Riduttiva anche per coloro che, pur non avendo una fede nella sopravvivenza spirituale, credono fermamente che una vita non finisca, se la memoria del vivere e del morire coerentemente di una persona lascia una traccia profonda e sopravvive in coloro che hanno condiviso il suo vivere e il suo morire. Chi ha seguito il percorso spirituale di Welby sa benissimo che la sua vita, per coloro che lo hanno amato, non è finita.

Le parole vivere e morire, or ora venute in causa, dovrebbero sostituire nel nostro discorso le parole vita e morte. Vivere e morire sono infatti due termini che esprimono il dinamismo di una persona e possono essere assecondati e curati nei loro aspetti più fragili e vulnerabili in un percorso di crescita e di decrescita che fa la storia di una vita. Curare il morire comunque è possibile, curare la morte evidentemente no. Ecco perché il medico che troppo spesso diserta il morente nella sua fase terminale con la scusa che non può fare più niente con la sua scienza, perché «la morte non si cura», va ricondotto a fianco del morente per esercitare la terapia del dolore e curare quel morire. Nell’ultimo momento il medico è disarmato come il prete o come la compagna o l’amico o il cane; l’unica cura, questa sì preziosa, è il calore dello stare accanto.

La nozione che più di ogni altra reca confusione è quella di «accanimento terapeutico». Terminologia molto usata, soprattutto fra gli oppositori dell’eutanasia, perché, decolpevolizzando il mancato ricorso a operazioni chirurgiche del tutto straordinarie o a cure non comuni nell’ambito sociale del morente, già la morale cattolica, per secolare consenso, aveva scaricato le coscienze da eventuali sensi di colpa «per non aver fatto tutto» per il morente.

Questa nozione è invece contraddittoria, giacché se si parla di ostinato accanimento sulla persona, che senso ha parlare di terapeutico, cioè curativo?

Una terminologia più utile e appropriata sarebbe «intervento medicale a oltranza», terminologia che darebbe luogo ad un dilemma chiaritore: l’intervento medico a oltranza è nell’interesse del paziente o contro l’interesse del paziente? Che l’intervento medico a oltranza possa essere contro l’interesse del paziente è chiarissimo nel caso della tortura. Se la persona sottoposta a tortura sviene o collassa, interviene il medico per rianimarlo e consentire ai torturatori di proseguire nel loro orrendo mestiere onde ottenere una confessione, un nome o qualche altro successo.

Non è certo nell’interesse del torturato.

Non molto dissimile la condizione delle persone che sono sottoposte a terapie intensive non per superare una crisi o per riprendere un decorso vitale, ma perché è importante differire la loro estinzione per interessi politici – vedi le tristi morti di molti sovrani o dittatori – o per interessi testamentari.

Mentre la terapia intensiva è importantissima e non ha limiti se si inserisce in un percorso veramente terapeutico, diviene sadica quando è esercitata contro l’interesse della persona. C’è da domandarsi – e la domanda è di attualità – se la terapia intensiva praticata per fini ideologici non sia equiparabile alla tortura.

Se poi c’è qualche persona che lascia una volontà testamentaria di cure a oltranza, qualsiasi sia la condizione del suo vivere, potrà anche essere soddisfatto e perfino ibernato in attesa di improbabili resurrezioni. Ma questo deve dipendere da volontà esplicitamente espressa.

L’ultima nozione in via di chiarimento è quella di testamento biologico alla quale, per alcuni, sarebbe preferibile una espressione che espliciti la determinazione delle cure in caso di assenza mentale del soggetto. Il dibattito parlamentare è attualmente in corso ed il problema si incentra proprio sul peso che si dà all’esercizio della libertà.

A molti pare che inchinarsi all’ultima libera scelta della persona, per quanto riguardi le terapie da prestargli nel suo vivere il morire, sia un atto dovuto, nobile e perfino, nel caso di un credente, religioso. Nel racconto biblico Dio, nel dare ad Adam la sua stessa immagine, non l’ha posto sulla strada dell’esercizio della libertà?