Ora Ratzinger non può tacere

di Marco Politi
in “la Repubblica” del 28 gennaio 2009

Adesso è bene che parli il Papa. Perché la lettera di scuse di monsignor Fellay, leader dei
lefebvriani, chiude una breccia e apre una voragine. Richard Williamson, il vescovo che nega le
camere a gas, ha ricevuto l’ordine di tacere e i seguaci del movimento si distanziano dalle sue
affermazioni. Ma gli ebrei devono evidentemente fare ribrezzo ai custodi della Tradizione, perché
Fellay nella sua missiva chiede perdono al Papa e agli uomini di buona volontà, ma non ce la fa a
inchinarsi davanti alle vittime delle Shoah.
Che gli ebrei siano «fratelli maggiori» dei cristiani, come disse Wojtyla, che gli ebrei siano vittime
cui chiedere perdono per l’infamia del negazionismo, è qualcosa che non fa parte dell’orizzonte
religioso, culturale, storico della Fraternità San Pio X. Hanno chiesto scusa in queste ore alla
memoria ebraica i vescovi svizzeri, sul cui territorio sta la sede centrale del movimento scismatico,
ma i lefebvriani no.
D’altronde basta leggere cosa fiorisce nella galassia reazionaria e tradizionalista per capire le radici
lontane dell’odio antigiudaico. Sacrum Imperium, una delle associazioni così appassionate del rito
tridentino in latino, si chiede via internet se ormai un vescovo cattolico debba essere obbligato a
«inchinarsi al mondo e avere l’indispensabile assenso del rabbinato».
Ha ragione Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, a dire che il problema non riguarda un
singolo negazionista, ma tocca la visione complessiva del movimento lefebvriano che il Vaticano si
prepara ad accogliere nella riconciliazione. Si può dire anche di più. Il problema non riguarda solo i
lefebvriani o gli ebrei, la questione interpella i cattolici tutti e insieme tutti coloro che considerano
la Chiesa cattolica portatrice di un messaggio etico rilevante per la società contemporanea. E che
proprio per questo hanno seguito con interesse i dibattiti del Concilio, il cammino di Giovanni
Paolo II e il pensiero di Benedetto XVI.
C’è un mondo di credenti e diversamente credenti e anche di non credenti, che ha guardato con
attenzione all’assemblea conciliare quando mons. Marcel Lefebvre difendeva la concezione del
popolo ebraico «deicida» e questo mondo si è rallegrato con i vescovi nel momento in cui è stata
votata la dichiarazione Nostra Aetate, che ha spalancato la porta al dialogo tra la Chiesa e gli ebrei,
seppellendo l’antigiudaismo. La «più autorevole svolta cattolica nei confronti dell’ebraismo»: parole
dell’Osservatore Romano.
Ora i frutti di questa svolta sono in forse. Non perché la Chiesa cattolica abbia cambiato linea e
tantomeno perché Benedetto XVI abbia intenzione di non proseguire il dialogo con il mondo
ebraico. Al contrario, il pontefice è intimamente legato al popolo e al retaggio di Abramo e in un
lontano discorso a Gerusalemme, da cardinale, delineò con passione l’incontro mistico alla fine dei
tempi tra le due tradizioni di fedeltà al Signore.
La crisi nasce dal fatto che tutti oggi si chiedono se Richard Williamson sia o no da considerarsi un
vescovo della Chiesa cattolica. Nei giorni passati il portavoce papale, l’Osservatore Romano e la
Radio vaticana hanno ben rappresentato la posizione ecclesiale assolutamente contraria ad ogni
espressione di negazionismo, che – lo ha scritto efficacemente la storica Anna Foa – è la maschera
dell’antisemitismo.
Ma le precisazioni dei media vaticani in questo frangente non sono sufficienti. E’ dai massimi livelli
della gerarchia che deve arrivare il segnale chiarificatore atteso dal mondo ebraico (e non solo). Il
silenzio mantenuto nei giorni passati non è il modo migliore per gestire la seconda grande crisi
apertasi, dopo il discorso di Ratisbona, fra la Chiesa e una delle grandi religioni mondiali.
E’ dal vertice dell’istituzione ecclesiastica che si aspetta di sapere se un vescovo cattolico può
negare la Shoah e soprattutto se questo personaggio sia effettivamente vescovo. Chi è oggi Richard
Williamson? Un semplice fedele, cui è stata tolta la scomunica ma che rimane sospeso a divinis e
non può esercitare nessuna funzione sacra, come mostra di suggerire l’episcopato svizzero? Oppure
è un confratello del vescovo di Roma e membro dell’episcopato mondiale? La risposta può venire
soltanto dal palazzo vaticano.