Nessuno scagli la prima pietra

di Monica Lanfranco
da www.liberazione.it

Domanda: ci sono culture, (o popoli) che possono essere considerate più misogene e stupratorie di altre? La risposta è difficile e oggi più che mai non è da eludere, quando la politica diventa pericolosa per l’intera società al punto da avanzare soluzioni dettate dall’odio, come la castrazione chimica per chi stupra.

La storia dell’umanità indica con chiarezza che è nell’intreccio tra valori patriarcali, sistemi dittatoriali e fanatismo religioso che germoglia la violenza di maschile sulle donne.

Non è un caso che alla base di tutte e tre le strutture simboliche citate (il patriarcato nella sfera delle relazioni, la dittatura in quella sociale e il fondamentalismo nell’ambito della fede) le caratteristiche comuni siano il dominio, la mancanza di democrazia e la logica del nemico e della sopraffazione.

Il collante non secondario è l’alimentazione di un clima di paura verso ciò che non si conosce e non si vuole conoscere, identificando in chi è estraneo il capro espiatorio sul quale far ricadere ogni responsabilità, badando bene di non dare alla popolazione gli strumenti per debellare la paura, come l’istruzione, la conoscenza, l’emancipazione e l’autodeterminazione.

Certo che ci sono sacche di minoranze violente in chi migra da luoghi poveri, affamati, colpiti da guerre e nei quali da tempo i processi sociali collettivi sono improntati sull’oppressione, l’ignoranza e la superstizione, oppure da terre che hanno visto nel giro di pochi anni lo sgretolarsi delle certezze economiche e collettive. Questo fa di tutti i cittadini rumeni, cingalesi, pakistani, albanesi e via citando altre geografie degli aggressori?

E, anche volendo solo per un attimo dialogare con la logica folle e criminale di chi invoca la castrazione: questa è davvero la soluzione che una società civile sceglie di adottare perché la crede efficace, o è il grido impotente e schiumante di rabbia di una collettività frantumata al suo interno, incapace di pensare un futuro di riparazione, di tutela e di evoluzione, efficiente solo nel produrre rimedi uguali e contrari alle ingiustizie che subisce, sempre più sprofondata nella logica dell’occhio per occhio?

Una mia amica, oggi cinquantenne, mi confessò che da quando si era sposata, appena ventenne e fino al divorzio, (circa diciotto anni dopo), veniva regolarmente picchiata dal marito, dopo un breve periodo di equilibrio durato i primi momenti del matrimonio.

Silvia, (la chiamerò così,) aveva dato per scontato, per decenni, che nelle relazioni tra i due sessi la violenza fosse inevitabile, un accessorio indispensabile che segnava il dover essere di un marito, uomo, compagno.

In parte, a corollario di questa convinzione, trasmessa anche della madre di Silvia con il consenso del suo ambiente sociale, lei stessa pensava che una donna meritasse quel trattamento.

Non stiamo parlando di un profondo sud o di una classe sociale disagiata, ma dell’esperienza di una donna del nord Italia di classe media. Come vuole la tradizione sessista, condivisa e tollerata, ad ogni latitudine e cultura, la sua vita è stata sottesa dalla massima: “Arrivato a casa picchia tua moglie: tu non sai perché, ma lei sì”.

Approdare, per Silvia, a porsi la domanda se gli uomini e le donne possano convivere senza che i primi siano violenti con le seconde ha rappresentato, per lei, l’inizio del percorso di riconoscimento della violenza.

Quella subìta, quella introiettata, quella trasmessa, quella potenzialmente trasmissibile da lei a sua figlia. Che viene accettata perché non la si riconosce, e viene rimossa socialmente con un’alzata di spalle, nell’indifferenza.

Oggi l’Italia vive una dimensione di limite pericolosissimo, in bilico tra l’invocazione della legge del taglione per i violenti, e la tolleranza per la violenza stessa, quella delle discoteche e della velocità alimentata dai modelli televisivi, delle tifoserie violente che fomentano odio assurdo per i colori degli altri o per la polizia, quella che ormai si dà per scontata tra i giovani, e in particolare i giovani maschi: non è forse il nostro presidente del consiglio ad aver dichiarato alla stampa che ’lo stupro è inevitabile’? Inevitabile per tutti gli uomini, in quanto tali?

Come è possibile che un capo di governo europeo faccia affermazioni di questo tipo?
Da alcuni decenni le/gli studiose/i di psicopedagogia infantile che lavorano sull’infanzia violata sostengono la necessità di insegnare come riconoscere la violenza, insegnando i propri diritti di esseri umani.

Chi accetta e non riconosce la violenza spesso non solo è destinato a subirla, ma anche a riperpetuarla a danni di altri, in una spirale senza fine.

Se non si rifiuta il paradigma della forza come fondativo delle relazioni non ci può essere alcuna speranza di convivenza umana pacifica e feconda.

Alla base di questo percorso c’è la necessità di riconoscere la violenza sulle donne come violenza primaria da sradicare. C’è bisogno di farlo a partire dalla scuola elementare, nei luoghi di lavoro e di aggregazione, lo si deve ricominciar a fare come società civile, come movimenti, perché una cultura violenta contro le donne originerà, a cascata, modelli violenti in ogni altra manifestazione del corpo sociale.

Riconoscerlo è un’emergenza.