Tra Stato e Chiesa. Il peso di un aggettivo sull’idea di laicità

di Daniele Menozzi
in “il manifesto” del 27 febbraio 2009

Il papato odierno propone la «sana laicità» come il criterio decisivo per stabilire la corretta
definizione dei rapporti tra le chiese e lo stato. Il contenuto di questa espressione è dato in prima
istanza da una differenziazione rispetto al laicismo: questo implicherebbe una separazione ostile tra
l’autorità civile e le confessioni religiose, anziché quella distinzione tra i due poteri che viene
ritenuta conforme alla dottrina cattolica, anzi direttamente ricondotta a una radice evangelica.
Inoltre il ricorso a quel sintagma implica, nell’attuale discorso pontificio, non solo l’accettazione di
una presenza del religioso, in particolare della chiesa cattolica, nella sfera del dibattito politico in
vista del contributo che esso può dare all’edificazione della città democratica, ma anche la richiesta
di un riconoscimento, sul piano costituzionale, delle radici cristiane della civiltà occidentale e, in
virtù di tale riconoscimento, di un ruolo pubblico della chiesa.
Questa concezione di laicità trova talora consenso anche in settori del mondo politico: senza voler
insistere sul rumoroso ossequio manifestato dalle correnti degli «atei devoti», occorre osservare che
il richiamo alla «laicità positiva» del presidente francese Sarkozy sostanzialmente coincide, come è
emerso nel recente viaggio in Francia di Benedetto XVI, con l’auspicio papale di una «sana laicità».
Non mi sembra poi un caso che in questi giorni anche il presidente della Camera, l’onorevole Fini,
abbia espresso, nel quadro delle celebrazioni della revisione del Concordato del 1984, la sua piena
adesione proprio a questa impostazione delle relazioni tra chiesa e stato. (…)
Si tratta dunque di una tematica che merita di essere approfondita. Tanto più che né nel discorso
pontificio né del discorso politico sulla «sana laicità» viene con chiarezza specificato cosa implichi
concretamente il riconoscimento di quel ruolo pubblico che, tramite essa, si dovrebbe assicurare alla
chiesa. Per cercare di capire le effettive questioni che sono in gioco dietro l’odierno uso di questa
espressione credo sia indispensabile muoversi in una prospettiva storica.
La locuzione «sana laicità» appare nel magistero pontificio nel marzo 1958. Pio XII, in occasione di
un pellegrinaggio dei marchigiani residenti a Roma, affrontando alcune questioni politiche di
attualità, sosteneva che una «sana e legittima laicità dello stato» costituisce uno dei principii della
dottrina cattolica. (…) Non abbiamo carte archivistiche che ci aiutino, ma il contesto ci fornisce
sufficienti indicazioni: esisteva nel mondo cattolico una contrapposizione tra quanti, ad esempio il
cardinal Ottaviani, rifiutavano ogni riferimento alla laicità proponendo come modello esemplare lo
stato cattolico che aveva trovato la sua realizzazione nel concordato della Santa Sede con la Spagna
franchista; e quanti, come il filosofo Jacques Maritain, presentavano nell’impegno dei cattolici a
basare la convivenza civile sui fondamentali diritti umani riconosciuti nella Dichiarazione
universale del 1948 la via per giungere alla costruzione di uno stato laico, pur cristianamente
costituito. Il tentativo di Ottaviani di far condannare nel 1956 dal Sant’Ufficio le opere del pensatore
francese non era riuscito e il dibattito era continuato sia pure in maniera ora più sotterranea ora più
esplicita.
Cosa cambia con il Concilio
In questo contesto l’intervento di Pacelli sembra assumere un preciso significato: il papa intendeva
proporre una mediazione tra la linee divergenti presenti nella cultura cattolica. Prendeva infatti le
distanze da coloro che volevano far scomparire il termine laicità dal lessico cattolico – in quanto
ritenevano ogni forma di indipendenza politica dalla chiesa, soprattutto se rivendicata da credenti,
come un attentato laicista allo stato cattolico – per renderla invece una «ipotesi» praticabile almeno
in determinate circostanze. Tuttavia l’apposizione degli aggettivi «sana» e «legittima» al sostantivo
specificava in maniera assai limitativa la maniera in cui la laicità veniva così accettata. Rinviando
alla sfera della morale, delle cui regole la gerarchia si proclamava suprema detentrice, tali aggettivi
in effetti indicavano che la laicità era lecita nella misura in cui si riservava all’autorità ecclesiastica
la «competenza delle competenze», vale a dire il diritto di determinare i confini del suo potere
d’intervento nella direzione della vita pubblica. Ne emergeva una visione della laicità che assicurava
la permanenza di una parola a lungo osteggiata nel vocabolario della cultura cattolica – in tal modo,
ad esempio, si legittimava il sostegno dell’episcopato francese nel referendum del 1958 alla
costituzione che proclamava la Repubblica «indivisibile e laica »; ma al contempo svuotava in
realtà il sostantivo del suo concreto contenuto politico, finendo per convergere con le concezioni di
Ottaviani.
Si trattava comunque di una linea che non sembrava incontrare grande successo nell’episcopato
italiano: la lettera pastorale collettiva sul laicismo emanata dalla Cei nel 1960 – assai apprezzata
anche da Giovanni XXIII, come mostrano le sue agende private da poco pubblicate – mostrava che
nella gerarchia del nostro paese continuava a prevalere quella sostanziale identificazione tra laicità e
laicismo che gli ambienti cattolici francesi avevano cominciato a distinguere: nella penisola la
costruzione di forme di vita associata indipendenti dalle direttive ecclesiastiche veniva qualificata
come una aggressione laicista alla chiesa dettata dalla volontà di cancellare il cristianesimo dalla
sfera pubblica. Ma, con l’avvento di Roncalli, si apriva l’innovativa stagione conciliare, sicché si
può porre la domanda se il Vaticano II modificava o meno questa linea.
La questione della laicità non emerge direttamente in nessuno dei suoi documenti, ma non va
nemmeno dimenticato che la dichiarazione Dignitatis humanae ha mutato uno degli elementi che
ostacolavano una valutazione positiva dello stato laico: il riconoscimento della libertà religiosa
come uno dei diritti inerenti alla natura dell’uomo e la conseguente proclamazione del dovere
dell’autorità civile di garantire il pubblico esercizio del culto ha posto evidentemente fine alla
concezione che vedeva nella parificazione delle confessioni la «peste del laicismo» secondo
l’espressione usata da Pio XI nel 1925 per caratterizzare l’uguaglianza dei diritti tra le diverse
confessioni religiose presenti in uno stato. La dichiarazione conciliare ribadisce l’obbligo per ogni
uomo di ricercare la verità, ma abbandona la tesi del magistero precedente secondo cui solo la verità
può godere dei diritti civili e politici. Non a caso proprio John Courtney Murray – il gesuita
americano che negli anni Cinquanta era stato ridotto al silenzio dal Sant’Ufficio guidato dal cardinal
Ottaviani per la sua affermazione della piena coerenza tra dottrina cattolica e diritto alla libertà
religiosa – è stato tra i principali periti cui si deve la redazione del documento.
Tuttavia questo risultato significa che il concilio determinava un superamento dell’insegnamento
proposto nell’ultima fase del magistero pacelliano? Ci si può insomma chiedere se, a seguito del
riconoscimento del diritto alla libertà religiosa proclamato dal Vaticano II, la laicità non appare più
un’ipotesi, accettabile solo nei casi cui il papato la giudica lecita. Credo che una pur rapida analisi
del rapporto tra chiesa e stato esposto nella costituzione pastorale Gaudium et spes sulla chiesa nella
società contemporanea possa aiutarci a trovar
e una risposta.
Una presa di distanza
Il documento preparatorio, redatto sotto l’influenza di Ottaviani, riprendeva la concezione
tradizionale secondo cui lo stato, avendo fini temporali subordinati a quelli spirituali, doveva
svolgere una funzione ministeriale nei confronti della chiesa: vi si ribadiva la visione dello stato
cattolico secondo quel modello che il cardinale aveva esaltato nel concordato stipulato con la
Spagna franchista. La discussione nell’aula conciliare modificò profondamente questa prospettiva.
La redazione finale della costituzione proclamava che la comunità politica e la chiesa sono
indipendenti e autonomi, in quanto la loro natura è profondamente diversa: la chiesa – popolo scelto
da Dio e riunito dalla sua Parola – è infatti una realtà comunionale e mistica che non entra in
concorrenza con gli stati che perseguono finalità temporali. Si auspicava però tra di essi una «sana
collaborazione»: per realizzarla la chiesa non chiedeva privilegi – anzi si dichiarava disposta a
rinunciare a quelli pur legittimamente acquisiti nel passato se rendevano poco credibile la sua
testimonianza -e domandava soltanto la libertà di poter esercitare la propria missione. Tuttavia
rivendicava anche un diritto, quello di «dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano
l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle
anime. E questo si farà, utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di
tutti».
Se era dunque evidente il rifiuto della tesi dello stato cattolico – che giungeva al punto di mostrare la
disponibilità a rinunciare anche ai privilegi legittimamente ottenuti tramite la prassi concordataria –
non meno netta risultava la presa di distanza da quel paradigma di laicità che si richiamava al
modello separatista. In primo luogo infatti si auspicava una collaborazione tra stato e chiesa, in vista
del raggiungimento del bene comune del consorzio umano. Inoltre si stabilivano le ragioni che
legittimavano un intervento ecclesiastico nella sfera politica: esso poteva avvenire, oltre che per la
tradizionale esigenza di assicurare la salvezza ultraterrena, anche in nome di una nuova istanza di
natura temporale e politica: la salvaguardia dei diritti fondamentali della persona. (…)
Le leggi «naturali»
Se dunque dal dettato della Gaudium et spes si ricavava un abbandono della prospettiva dello stato
confessionale – e non si può non sottolineare il mutamento notevole così compiuto rispetto alle
concezioni presenti in curia all’inizio dei lavori dell’assise ecumenica -, bisogna anche aggiungere
che il documento conciliare non cancellava la prospettiva di un intervento sul piano politico della
gerarchia, mostrando la distanza tra la concezione cattolica e quella visione della laicità che si
incentrava sull’autonomia del politico dal religioso e del religioso dal politico. È però vero che la
costituzione sulla chiesa nel mondo contemporaneo ricordava soltanto che la chiesa manifestava in
materia un «giudizio» che, per di più, doveva essere espresso servendosi di mezzi poveri, come
lasciava intendere il richiamo alla loro conformità con il Vangelo. Quale era dunque il significato di
questa formulazione? Si trattava di una valutazione indirizzata a illuminare le coscienze che poi
liberamente la traducevano in un concreto e determinato impegno sul piano storico-politico oppure
di una direttiva volta a dettare o almeno ispirare le norme regolatrici della comunità? Evidentemente
solo nel primo caso si avrebbe un sostanziale rispetto della nozione di laicità così come è stata
elaborata dalla cultura occidentale nel corso del Novecento.
Ora gli orientamenti generali fissati nella Gaudium et spes non credo lascino molti dubbi in
proposito. In effetti tutte le volte che il testo affronta la questione dell’autonomia del temporale o
della libertà dell’uomo, pur affermando che si tratta di valori leciti, cui spesso in passato la chiesa
non aveva riservato la debita attenzione, specifica pur sempre tali valori con l’apposizione di un
aggettivo – «legittima», «giusta», «ordinata» – che ne circoscrivono la portata, rinviando alla
necessità di una valutazione morale sulla loro pratica. In tal modo la chiesa rivendica il possesso di
una verità morale in ordine alla società cui le strutture e le istituzioni della collettività devono
conformarsi. Del resto il Vaticano II fornisce anche le ragioni di questa concezione. In diversi passi
si trova infatti l’asserzione che la convivenza civile si basa sulle leggi naturali di cui la chiesa si
proclama depositaria ed interprete in quanto esse sono determinate dall’ordine voluto da Dio per
l’universo.
Mi pare dunque che, in ragione di questa ottica, l’intervento ecclesiastico sulla politica assuma
inevitabilmente la forma della prescrizione vincolante quando la chiesa ritenga che sia in gioco una
di quelle norme fondamentali che, corrispondendo alla natura dell’uomo, non possono essere violate
dall’ordinamento giuridico della vita collettiva. Ritornava la prospettiva pacelliana di apporre un
aggettivo a un termine per riservare all’autorità ecclesiastica la facoltà di specificarne il significato
politico. A palesare in termini espliciti la continuità di questa impostazione sulla questione della
laicità sarebbe stato Paolo VI. Nel corso dell’udienza tenuta il 22 maggio 1968 (la data non è priva
di significato, se si tiene presente quanto quel maggio ha rappresentato nell’immaginario collettivo
dell’epoca) dapprima il papa si richiamava con una diretta citazione al discorso pronunciato da
Pacelli nel marzo 1958 sulla sana e legittima laicità e poi affermava che la chiesa era ormai giunta a
distinguere «fra laicità, cioè fra la sfera propria delle realtà temporali, che si reggono con propri
principi e con relativa autonomia derivante dalle esigenze intrinseche di tali realtà… e il laicismo
(cioè) l’esclusione dell’ordinamento umano dai riferimenti morali e globalmente umani che
postulano rapporti imprescrittibili con la religione».
Ma, proseguiva il papa, la laicità si rivelava sana nella misura in cui l’ordinamento civile recepiva
dalla chiesa «il duplice lume dei principi e dei fini che devono orientare e sorreggere la vita umana
in quanto tale». E il laicato cattolico era tenuto a seguire queste direttive in modo da far
«risplendere l’ordine … voluto da Dio anche nella sfera realtà temporali». In tal modo, pur
legittimando la distinzione tra laicità e laicismo che tanti ostacoli aveva incontrato nella cultura
cattolica del secondo dopoguerra, Montini ribadiva che l’accettazione cattolica della laicità passava
attraverso l’apposizione di un aggettivo che riservava all’autorità ecclesiastica la concreta
determinazione dei suoi contenuti.