Il cardinale Martini “Un Concilio sul divorzio”

di Eugenio Scalfari
da “Repubblica” del 18 giugno

Il volto è dimagrito ma gli occhi d´un azzurro intenso lo illuminano ancora
di più. Mi guarda fisso, come per riconoscermi. Sono molti anni che non ci
incontriamo anche se ci siamo sentiti spesso scambiandoci a distanza
sentimenti e pensieri.

Sono passati tredici anni da quel dibattito a due voci organizzato da don
Vincenzo Paglia, allora assistente ecclesiastico della comunità di
Sant´Egidio, nel grande salone di palazzo della Cancelleria a Roma, dinanzi
ad una platea gremita di sacerdoti d´ogni provenienza con i loro variopinti
costumi: vescovi e cardinali di Santa Romana Chiesa in talare e zucchetto
rosso, copti, patriarchi della Chiesa orientale, pastori protestanti,
anglicani. C´erano anche, ricordo, quattro monaci buddisti. Molti i gesuiti,
in veste nera e fascia alla vita, venuti ad ascoltare lui, il loro compagno
di seminario e di religione diventato poi cardinale e arcivescovo di Milano,

Quel dibattito aveva come tema: «La pace è il nome di Dio» con un
sottotitolo: «Che cosa può unire oggi cattolici e laici». Lui fece una
premessa (fare premesse è una sua abitudine per meglio definire
l´argomento). Disse: «Non sono qui per fare proselitismo, perciò non
parleremo di fede e di teologia ma di etica e di convinzioni». A mia volta
lo ringraziai e la discussione cominciò, ma ci accorgemmo subito che eravamo
d´accordo su tutto, la sua etica era anche la mia, lui la riceveva
dall´alto, io dall´autonomia della mia coscienza, tutti e due ci ponevamo il
problema dell´incontro tra il sentimento religioso e una modernità laica e
relativista.

Da allora la figura dell´arcivescovo di Milano è stata per me un punto di
riferimento, ho seguito la sua opera pastorale diretta ai credenti e il suo
dialogo costante con i non credenti, il suo rapporto con il cardinal
Silvestrini, con Pietro Scoppola, con la comunità di Sant´Egidio, con le
varie anime della Compagnia di Gesù. Ho letto i suoi libri e in particolare
le Conversazioni notturne a Gerusalemme. Ed ora quello appena uscito Siamo
tutti nella stessa barca, un lungo dialogo con don Luigi Verzè, fondatore
dell´ospedale di San Raffaele a Milano e dell´Università che porta lo stesso
nome.

Quel binomio Martini-Verzè ha stupito molti amici del cardinale. Il
fondatore del San Raffaele è un personaggio di notevole intraprendenza che
ha ben poco in comune con Martini. Perché ha scelto proprio lui come
interlocutore?

Il cardinale risponde così: «Io e don Luigi siamo molto diversi sia per
temperamento sia per formazione; sono diverse le nostre biografie ed anche
le nostre visioni politiche e sociali. Non so se don Luigi ed io abbiamo le
stesse soluzioni di fronte a scelte sempre più difficili. Ma siamo insieme
sulla stessa barca, la barca della Chiesa, pur con tutte le nostre
diversità. Ci accomuna un grande amore verso la Chiesa, un´ardente passione
per il Verbo Incarnato Gesù Cristo e il desiderio che la Chiesa incontri e
comprenda la società moderna».

La spiegazione è chiara, le differenze tra i due emergono dal libro ma
l´obiettivo comune è quello di porre all´attenzione dei cristiani cattolici
problemi non più oltre rinviabili.

Domando a Martini quale siano quei problemi in ordine di importanza.
«Anzitutto l´atteggiamento della Chiesa verso i divorziati, poi la nomina o
l´elezione dei Vescovi, il celibato dei preti, il ruolo del laicato
cattolico, i rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e la politica. Le
sembrano problemi di facile soluzione? Possono interessare anche un laico
non credente come lei?».

Mi guarda sorridente e si riassesta sulla sedia che scricchiola e mi viene
il timore che sia malferma ma lui mi rassicura: «E´ solida, stia tranquillo,
sono io che mi muovo troppo».

Ci troviamo in una stanza molto sobria, un tavolo lungo e qualche sedia,
nella casa di riposo dei gesuiti a Gallarate. Il cardinale, prima di
ricevermi, ha incontrato una cinquantina di preti venuti dal dintorno
milanese. Volevano ascoltare le sue parole di fede e di speranza in una
società sempre meno cristiana e sempre più indifferente.
Indifferente verso che cosa? gli chiedo.

«Non c´è più una visione del bene comune. Il sentimento dominante è di
difendere il proprio interesse particolare e quello del proprio gruppo.
Magari pensano di essere buoni cristiani perché qualche volta vanno a messa
e fanno avvicinare i loro figli ai sacramenti. Ma il cristianesimo non è
quello, non soltanto quello. I sacramenti sono importanti se coronano una
vita cristiana. La fede è importante se procede insieme alla carità. Senza
la carità la fede è cieca. Senza la carità non c´è speranza e non c´è
giustizia».

Lei, cardinal Martini, ha affermato in molte occasioni l´importanza della
carità, ma forse bisogna definire con esattezza che cosa lei intenda con
questa parola. Non credo che si limiti al far del bene al prossimo.
«Far del bene, aiutare il prossimo è certamente un aspetto importante ma non
è l´essenza della carità. Bisogna ascoltare gli altri, comprenderli,
includerli nel nostro affetto, riconoscerli, rompere la loro solitudine ed
esser loro compagni. Insomma amarli. La carità non è elemosina. La carità
predicata da Gesù è partecipazione piena alla sorte degli altri. Comunione
degli spiriti, lotta contro l´ingiustizia».

Nel suo libro Conversazioni notturne lei dice che i peccati sono numerosi e
la Chiesa ne enumera molti ma, a suo parere, il vero peccato del mondo – lei
dice proprio così se ben ricordo – il vero peccato del mondo è l´ingiustizia
e la diseguaglianza. Se ho ben capito le sue parole, la carità è lottare
contro l´ingiustizia?

«Gesù disse che il regno di Dio sarà dei poveri, dei deboli, degli esclusi.
Disse che la Chiesa avrebbe avuto come missione di essere vicina a loro.
Questa è la carità del popolo di Dio predicata dal suo Figlio fatto uomo per
la nostra salvezza».

Cardinale, che cosa intende per popolo di Dio? E´ il laicato cattolico il
popolo Dio?

«Tutta la Chiesa è popolo di Dio, la gerarchia, il clero, i fedeli».

I fedeli hanno un ruolo attivo nel governo della Chiesa, nella partecipazione,
nell´amministrazione dei sacramenti, nella scelta dei loro pastori?

«Hanno certamente un ruolo ma dovrebbero esercitarlo con molta più pienezza.
Troppo spesso è un ruolo passivo. Ci sono state epoche nella storia della
Chiesa nelle quali la partecipazione attiva delle comunità cristiane era
molto più intensa. Quando prima ho parlato d´una dilagante indifferenza
pensavo proprio a questo aspetto della vita cristiana. Qui c´è una lacuna,
una defezione silenziosa specie nella società europea e in quella italiana».

Pensa alla scarsa frequenza dei sacramenti, della messa, delle vocazioni?

«Questi sono aspetti esterni, non sostanziali. La sostanza è la carità, la
visione del bene comune e della comune felicità. Felicità non solo per noi
ma per gli altri e non solo nel presente qui e subito ma per i figli e i
nipoti, le generazioni che verranno».

La chiesa istituzionale fa abbastanza in questa direzione?

«Fa molto, ma dovrebbe fare molto di più».

Cardinal Martini, vorrei porle una questione piuttosto delicata. Un noto
scrittore cattolico, Vittorio Messori, ha scritto recentemente che la Chiesa
istituzionale, cioè il Vaticano con la sua Segreteria di Stato i suoi Nunzi
sparsi in tutto il mondo, le sue strutture di Curia, non può sanzionare i
vizi privati dei potenti. Il suo compito è stipulare accordi, Concordati,
affrontare problemi concreti da potere a potere. Fece accordi con Hitler,
con Mussolini, con Pinochet, con Franco, con Craxi. Se li avesse
pubblicamente giudicati sui loro com
portamenti, sulla loro moralità, non
avrebbe potuto operare politicamente come è suo compito. Il problema semmai
– secondo Messori – riguarda il confessore, ammesso che qualcuno di quei
potenti si confessi. Comunque il tema della salvezza riguarda il clero
pastorale, i parroci e i vescovi con cura di anime. Lei è d´accordo con
questa distinzione tra istituzioni vaticane e clero con funzioni pastorali?

«In verità non sono molto d´accordo, la distinzione che fa Messori ci
richiama ad una fase in cui esisteva ancora il potere temporale e il Papa
era anzitutto un sovrano; ma quel potere grazie a Dio è finito e non può
essere restaurato. E´ una fortuna che sia finito. Certo esiste una struttura
diplomatica della Santa Sede, ma composta pur sempre di sacerdoti il cui
fine ultimo è quello di testimoniare la predicazione evangelica ed il suo
contenuto profetico. Aggiungo che la struttura diplomatica, secondo me, è
fin troppo ridondante e impegna fin troppo le energie della Chiesa. Non è
stato sempre così. Nella storia della Chiesa per molti e molti secoli questa
struttura non è neppure esistita e potrebbe in futuro essere fortemente
ridotta se non addirittura smantellata. Il compito della Chiesa è di
testimoniare la parola di Dio, il Verbo Incarnato, il mondo dei giusti che
verrà. Tutto il resto è secondario».

Le Chiese protestanti non hanno anch´esse strutture consimili? Non sono
necessarie per tutelare la libertà religiosa e lo spazio pubblico di cui la
Chiesa ha bisogno per diffondere i suoi valori?

«Le Chiese protestanti non hanno strutture accentrate e potenti come la
nostra. Hanno assetti molto diversi. Sono, da questo punto di vista, più
deboli della Chiesa cattolica ma per altri aspetti più coese con i fedeli».

Il problema che lei solleva indubbiamente esiste. Riguarda i Vescovi? Forse
la figura del Papa, che esiste soltanto nella Chiesa cattolica, ha come
conseguenza un certo temporalismo che è sopravvissuto al potere temporale
propriamente detto.

«Il Papa è innanzitutto il Vescovo di Roma. Per noi cattolici è il vicario
di Cristo in terra e gli dobbiamo amore, rispetto e obbedienza senza però
dimenticare che la chiesa apostolica si regge su due pilastri: il Papa e la
sua comunione con i Vescovi. Ricordo che nel Concistoro che precedette
l´ultimo Conclave, ci fu un dibattito preliminare per individuare una sorta
di identikit del futuro pontefice. Quando toccò a me di parlare dissi che
noi dovevamo eleggere il vescovo di Roma. Volevo dire con ciò che è sempre
comunque prevalente la capacità e la vocazione pastorale rispetto a quella
diplomatica o teologica».

Lei disse questo? Che voi, il Conclave, dovevate eleggere il Vescovo di
Roma?

«Le sembra un´eresia? Invece questo è il mandato costante secondo la
dottrina e la tradizione evangelica».

Il tempo passava e di argomenti che avrei voluto discutere con il cardinal
Martini ce n´erano ancora molti, ma temevo di affaticarlo troppo. Glielo
dissi, ma mi rispose che potevamo continuare.

C´era un tema che mi stava a cuore. Gli dissi che leggendo il suo ultimo
libro, quello scritto con don Verzè, m´era parso di capire una sua
propensione a proporre un altro Concilio, una sorta di Vaticano III. La
spinta del Vaticano II si era indebolita? Non bisognava riprendere il
discorso e portarlo più avanti? La risposta che ne ebbi a me è sembrata
molto innovatrice e anche imprevista.

«Non penso ad un Vaticano III. E´ vero che il Vaticano II ha perso una parte
della sua spinta. Voleva che la Chiesa si confrontasse con la società
moderna e con la scienza, ma questo confronto è stato marginale. Noi siamo
ancora lontani dall´aver affrontato questo problema e sembra quasi che
abbiamo rivolto il nostro sguardo più all´indietro che non in avanti.
Bisogna riprendere lo slancio ma per far questo non è necessario un Vaticano
III. Ciò detto io sono favorevole ad un altro Concilio, anzi lo ritengo
necessario, ma su temi specifici e concreti. Ritengo anzi che bisognerebbe
attuare ciò che fu suggerito anzi decretato dal Concilio di Costanza, cioè
convocare un Concilio ogni venti o trent´anni ma con un solo argomento o due
al massimo».

Questa sarebbe una rivoluzione nel governo della Chiesa.

«A me non pare. La Chiesa di Roma, non a caso, si chiama apostolica. Ha una
struttura verticale ma al tempo stesso anche orizzontale. La comunione dei
vescovi con il papa è un organo fondamentale della Chiesa».

E quale sarebbe il tema del Concilio che lei auspica?

«Il rapporto della Chiesa con i divorziati. Riguarda moltissime persone e
famiglie e purtroppo il numero delle famiglie coinvolte aumenterà. Va dunque
affrontato con saggezza e preveggenza. Ma c´è anche un altro argomento che
un prossimo Concilio dovrebbe affrontare: quello del percorso penitenziale
della propria vita. Vede, la confessione è un sacramento estremamente
importante ma ormai esangue. Sono sempre meno le persone che lo praticano ma
soprattutto il suo esercizio è diventato quasi meccanico: si confessa
qualche peccato, si ottiene il perdono, si recita qualche preghiera e tutto
finisce così. Nel nulla o poco più. Bisogna ridare alla confessione una
sostanza che sia veramente sacramentale, un percorso di pentimento e un
programma di vita, un confronto costante con il proprio confessore, insomma
una direzione spirituale».

Ci alzammo. Mi disse di aver letto il mio ultimo libro L´uomo che non
credeva in Dio e di averci trovato alcune assonanze con la sua visione del
bene comune. Lo ringraziai. Io le sono molto vicino, gli dissi, ma non credo
in Dio e lo dico con piena tranquillità di spirito.

«Lo so, ma non sono preoccupato per lei. A volte i non credenti sono più
vicini a noi di tanti finti devoti. Lei non lo sa, ma il Signore sì».
Fui tentato di abbracciarlo, ma siamo un po´ tremolanti tutti e due ed
avremmo rischiato di finir per terra. Ci siamo stretti la mano promettendoci
di rivederci presto.