Ratzinger rimedita sullo sviluppo. Il mercato richiede un’etica

di Fulvio Fania
da www.liberazione.it

Ce n’è voluta, ma alla fine l’enciclica sociale di Ratzinger è arrivata. Passata per cento mani, filtrata da molte bozze, corroborata dall’opera di consulenti veri e altri millantati, oggetto del desiderio per politici come Tremonti o banchieri come Passera, la Caritas in veritate potrà leggersi sotto profili diversi e ognuno ci troverà qualcosa per sé. Ma un’impressione resta. Rompe con i peana della deregulation di questi decenni reaganiani, contrasta il mito della ricchezza che si diffonde da sé e delle virtù autonome del mercato, contesta il precariato e, pur a suo modo, tenta di affrontare il tema della distribuzione dei profitti, mentre afferma il diritto dei migranti a non essere considerati solo merce o «forza lavoro» nel «fenomeno epocale» delle migrazioni. Di questi tempi, anche per l’interno della Chiesa, non era scontato e, infatti, nel testo compaiono anche i contrappesi.

L’enciclica avrebbe dovuto celebrare il quarantesimo anniversario della Populorum progressio di Paolo VI. Uscita in ritardo di due anni, si propone comunque di aggiornare l’idea di “sviluppo umano integrale” di Montini. E’ quello il papa “rivisitato”, molto più che Giovanni Paolo II. E’ facile prevedere che questo ripensamento dello sviluppo e degli effetti sul sud del mondo dispiacerà agli ultras del liberismo i quali si aggrapperanno ad altri aspetti.

Nel testo si avvertono, infatti,influssi diversi. A cominciare ovviamente dalla mano del pontefice nelle pagine più teologiche e in quel rovesciamento del concetto di San Paolo “verità nella carità”. Ratzinger ribalta i termini titolando “Caritas in veritate” e ponendo così al di sopra la Verità, intesa come natura trascendente dell’uomo, ragione e morale naturale. «Solo nella verità la carità risplende», altrimenti scade nel «sentimentalismo». Un richiamo del genere Ratzinger lo aveva già rivolto al volontariato cattolico nella prima sua enciclica

In questa terza “lettera” al clero, ai laici e “agli uomini di buona volontà”, il Papa riafferma due operazioni intellettuali che sono ormai cardini del suo pontificato. Per prima cosa mette di nuovo a tacere quanti si ostinano a sottolineare le evidenti “rotture” di dottrina nella Tradizione della Chiesa segnate dal Concilio Vaticano II. Non c’è speranza per le teologie della liberazione, non c’è alcuna scissione proclamata della Chiesa dalla classe dei proprietari. L’altro sigillo tipicamente ratzingeriano, e potremmo dire anche “ruiniano”, è l’irrompere nella questione sociale, che tratta di lavoro, di pace, di economia, dei temi della procreazione, dell’eutanasia, dell’aborto, della famiglia e perfino del matrimonio.

L’enciclica critica le organizzazioni internazionali per le politiche di controllo della natalità, sostiene polemicamente che la crescita demografica è un fattore di sviluppo e che «il libro della natura è unico». Perciò «se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale o si rende artificiale il concepimento» o si persegue una sessualità «edonistica» o si diffonde una «mentalità antinatalista», perde senso la salvaguardia della natura. L’ecologismo della Caritas in veritate è molto antropocentrico, in aperta polemica con larga parte dell’ambientalismo. «E’ contrario al vero sviluppo – scrive Benedetto XVI – considerare la natura più importante della persona umana». Sul versante opposto, tuttavia, bisogna contrastare una «completa tecnicizzazione» della natura. L’enciclica sfiora in due passaggi la questione dell’agricoltura Ogm, raccomandando soltanto un po’ di cautela.

Ma tra le 172 pagine di questo testo papale c’è molto altro. Di capitalismo non si parla mai, ma del mercato moltissimo e delle ingiustizie economiche del mondo globalizzato in modo assai critico. A presentare l’enciclica, accanto al cardinale Renato Martino – il presidente del consiglio Giustizia e pace che oggi corona un sogno -, interviene l’economista Stefano Zamagni. E anche lui può andar fiero perché c’è molto del suo in queste pagine.

L’enciclica era quasi fatta e forse non convinceva ancora Ratzinger, quando è scoppiata la crisi finanziaria ed economica. Bisognava aggiustare il tiro. Le denunce ora non mancano: «distorsioni e drammatici problemi», «aumentano le disparità» nel mondo e crescono i poveri nei paesi più sviluppati, le multinazionali «a volte non rispettano i diritti dei lavoratori» e le produzioni delle regioni più arretrate, la proprietà dei brevetti grava sulla diffusione dei farmaci, la delocalizzazione delle produzioni e la «mobilità lavorativa» hanno ridotto i sistemi di sicurezza sociale, la previdenza e la protezione, gli stessi sindacati hanno difficoltà a rappresentare i lavoratori mentre vengono limitate le libertà sindacali.

La precarietà provoca «instabilità psicologica», compromette le relazioni e il matrimonio, provoca «degrado e spreco sociale»; l’estromissione prolungata dal lavoro «mina la libertà della persona con forti sofferenze». «L’abbassamento del livello di tutela dei diritti dei lavoratori – afferma il Papa – o la rinuncia alla redistribuzione del reddito per far acquisire competitività al Paese impediscono uno sviluppo di lunga durata», sono solo vantaggi temporanei come quelli della finanza che ha causato la crisi attuale. La Chiesa rilancia l’obiettivo dell’Organizzazione internazionale del lavoro di “un lavoro decente per tutti», che vuol dire anche libertà sindacale e pensione.

La critica alla nuova classe dei manager, senza patria, che perseguono solo interessi immediati e lauti stipendi sembra echeggiare Obama. Ma è una critica al capitalismo? «Il profitto è necessario – ci risponde Martino – ma deve estendersi a chi partecipa al mercato e ai lavoratori e il mercato va moderato; la dottrina sociale della Chiesa non è socialista né capitalista». Affermazione classica e tuttavia alcuni sviluppi ci sono, in particolare uno che di questi tempi fa piacere leggere: l’enciclica insiste sulla necessità di una «giustizia distributiva» e mette in guardia dal liquidare come già defunto il ruolo dello stato nazionale. Se il mercato – osserva la Caritas in veritate – procede solo attraverso lo scambio e il contratto (la giustizia commutativa), non serve al «bene comune».

Ma il mercato non è intrinsecamente “cattivo” e nemico della sfera sociale. Per l’enciclica il principio di «gratuità» deve invece rientrare nella sfera economica ordinaria. Certo, benvengano le imprese “etiche” o non profit – prestando attenzione ai camuffamenti -, però la questione non può ridursi ad un’area marginale di mercato tipo terzo settore. Zamagni gongola: si parla di economia di comunione e del ruolo della società civile nell’economia. «Vari tipi di impresa privata», non solo pubblico, non solo privato, microfinanza e microcredito con la partecipazione delle popolazioni nei paesi poveri ed anche in quelli ricchi, superamento della distinzione tra profit e non profit.

E’ l’aspirazione ad un ethos economico, finanziario e sociale, l’uomo nuovo che dovrebbe sorreggere istituzioni più giuste, la sussidiarietà nei rapporti sociali e in quelli internazionali, cioè non faccia l’istituzione più alta ciò che può essere fatto meglio dalle istanze di base. E con lo stesso spirito l’enciclica accenna anche alla riforma dell’welfare e specialmente della previdenza «integrata tra soggetti privati e società civile».

Sembra quasi di leggere delle tesi congressuali della Cisl. Dopo la fine delle ideologie, secondo Benedetto XVI, il mondo si scontra con una nuova, quella tecnocratica che pretende la assolutizzazione della tecnica e dell’efficienza, tagliando fuori l’etica e la dignità della persona. Ciò conta particolarmente nelle relazioni tra i paesi tecnologicamente forti e le aree povere, che tra l’altro sono spesso entrambe vittime della corruzione interna. Il rischio, per il Papa, è anche quello dell’omologazione culturale ai modelli d’importazione e quindi, in agguato, ci so
no il relativismo, l’eclettismo o il sincretismo religioso.

L’enciclica è indirizzata idealmente al G8 in corso all’Aquila, soprattutto per quanto riguarda l’entità e la qualità degli aiuti al sud del mondo e il diritto all’alimentazione e all’acqua delle popolazioni povere. Non altrettanta evidenza hanno avuto invece le preoccupazioni sulla guerra. Nell’enciclica si ripropone una riforma dell’Onu e una «autorità mondiale», ma il capitolo sa di scontato. Le grida di Wojtyla contro la guerra preventiva dei potenti, alla maniera di Bush, sono lontane.

Come se, passato il presidente americano ma ancor prima passato quel papa, il mondo non corresse rischi del genere. «E’ un’enciclica, non un’enciclopedia», giustifica monsignor Giampaolo Crepaldi, segretario di “Giustizia e pace”. Però aggiunge che ai tempi della guerra all’Iraq il suo dicastero propose un’enciclica sulla pace. Non se ne fece nulla. C’erano già i messaggi annuali del papa, spiega Crepaldi. E furono presto ammorbiditi pure quell