Quel “bene comune” è troppo generico

di Giovanni Franzoni
Comunità di base S. Paolo – Roma

Quando i potenti della terra si riuniscono per mettersi d’accordo sul come produrre ricchezza e come equamente distribuirla sul pianeta, i “dannati della terra”, i derubati, gli emarginati, i prigionieri, i respinti verso le piagge della miseria e della violenza, per dare sicurezza al benessere e al bene-stare dell’occidente sviluppato, dovrebbero acuire i loro sensi ed attendersi qualche spiraglio di speranza di liberazione. Temo proprio che nei campi di profughi dal Darfour, nella prigione a cielo aperto di Gaza o fra gli iracheni accampati ai confini della Siria, o in qualsiasi altro Lager in cui sono rifugiate le vittime delle guerre e dei conflitti etnico religiosi non si aspettino alcunché da qualsiasi G si riunisca.

Si possono attendere qualcosa, al momento in cui il papa prende in mano la penna per scrivere una lettera al mondo circa la giustizia e la carità? L’interrogativo è pressante al momento in cui esce l’enciclica di papa Benedetto Caritas in veritate (La carità nella verità). Probabilmente la lettera non arriverà direttamente ai “poveri della terra” che difficilmente la leggeranno, certo arriva a tutti coloro che per fede religiosa o per coscienza umanitaria sono coinvolti nel problema della povertà nel mondo e attendono parole nuove da coloro che sono debitori di una speranza fondata sulle promesse bibliche e sull’annuncio evangelico.

Purtroppo l’enciclica papale si dilunga e si ripete, intrecciando i concetti di giustizia, carità e verità, senza dare prospettive concrete e innovative. Che cosa si intende nell’enciclica per verità appare abbastanza evidente nel continuo riferirsi all’autorità del romano pontefice e nella totale assenza di una armonizzazione degli interventi nell’ambito ecumenico e interreligioso. Sembra proprio che la verità di cui si parla sia la dottrina cattolica, rigorosamente controllata dalla Congregazione per la dottrina della fede. Di collaborazione sul piano ecumenico non se ne parla proprio.

Certo il papa si rivolge al mondo e quindi può ignorare che in Italia ci sia, a breve scadenza, la dichiarazione dei redditi con inclusa la destinazione dell’otto per mille. Ma chi ci assicura che qualche predicatore, sconsiderato sul piano teologico e furbetto su quello pragmatico, non colga l’occasione per usare l’enciclica come strumento di appoggio alla pubblicità della chiesa cattolica in tv?

Le statistiche ci informano che le chiese evangeliche hanno una base di conferimento dell’otto per mille assai più ampia di quanto si potrebbe attendere dai loro membri di chiesa; questo potrebbe derivare dal fatto che le chiese protestanti pubblicano i loro bilanci sull’otto per mille e ne usano i proventi solo per interventi sociali, strutturali e assistenziali, escludendone l’uso per il mantenimento del culto e dei pastori. Il fatto che la chiesa cattolica usi questi fondi anche per il mantenimento del clero, può aver convinto molti cattolici a dare il loro contributo ai protestanti.

Ed ecco l’illuminazione che potrebbe discendere da qualche pulpito: ma la carità dei protestanti non è “nella verità”- lo dice il papa! – e quindi non è vera carità. Grande gioia spirituale e generoso passo avanti nell’ecumenismo si verificherebbe il giorno che le chiese, di qualsiasi denominazione, e un giorno le religioni di tutto il pianeta, convergessero con gli “uomini (…e le donne) di “buona volontà” nell’ affrontare il problema della povertà nel mondo. Allora si potrebbe esclamare con le parole della Bibbia: “E la luce fu”.

Un aspetto positivo dell’enciclica di papa Benedetto è nello spazio dato al Concilio e ai documenti sociali di Paolo VI. Fra le molte affermazioni dei documenti conciliari sui valori della povertà e sulla dignità e le speranze dei poveri si deve ricordare quanto affermato nella Apostolicam actuositatem (L’attività apostolica) a proposito del rapporto fra giustizia e carità.

Nel paragrafo 8 di questo documento riguardante il ruolo dei laici nella chiesa, si legge: “…la purezza d’intenzione non sia macchiata da ricerca alcuna della propria utilità o da desiderio di dominio; siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino non solo gli effetti ma anche le cause dei mali..” e l’azione sia ordinata a liberare dalla dipendenza e creare autosufficienza.

Questo pensiero fu ripreso da papa Giovanni Paolo II nel messaggio per la pace del 2000, in vista del giubileo, ma poi è stato dimenticato e sommerso dalla pratica delle indulgenze e dei pellegrinaggi. Sarebbe tempo di riprenderlo e affrontare ormai il tema dei “beni comuni” invece di seguitare sempre a parlare di convergenza verso il “bene comune” che poi ciascuno interpreta come vuole, magari considerando i respingimenti dei richiedenti asilo come azioni volte al bene comune e le cene di beneficenza come l’alternativa alla solidarietà vissuta.

La prassi di solidarietà è ben conosciuta fra coloro che si impegnano sulle fasce sociali deboli e unisce credenti e non credenti in progetti concreti e liberanti. Qui c’è una verità e una onesta di azione che andrebbe più conosciuta e apprezzata.