Mediterraneo e diritti. La Pinar vince di nuovo

di Alessandro Cisilin
da «Galatea European Magazine», settembre 2009

Lo chiamavano “Dio”, e a contribuire all’epiteto era forse anche la sua lunga chioma castana, pertinente con l’iconografia della presunta divinità fattasi uomo oltre duemila anni fa. Asik Tuygun, turco come gli altri dodici membri dell’equipaggio del mercantile Pinar, deve però l’attribuzione epica a un episodio concreto.

Eroico, visto da lontano, di ordinaria umanità, per chi vive il mare. Nell’aprile scorso deviò la rotta per soccorrere centoquarantaquattro naufraghi, che poi alimentò e curò con gli insufficienti i mezzi disponibili per quasi una settimana, il tempo necessario a Italia e Malta per risolvere una disputa diplomatica, ritenuta più importante delle esigenze umanitarie, su quale paese dovesse muoversi. Ora quella stessa imbarcazione ha trionfato in una spettacolare battaglia sindacale contro l’armatore che, guarda caso, dopo quell’episodio si era rifiutato di pagare gli stipendi.

“Mi chiamavano Dio anche per imbarazzo circa il ‘fastidio’ che mi avrebbero provocato con le autorità di due paesi”, raccontò in quei giorni alla polizia, nonché ai volontari e ai giornalisti che erano riusciti per una volta a prendere visione diretta a bordo dell’orrore della migrazione sul Mediterraneo, spinti dall’attualità del caso politico internazionale. “Erano tutte brave persone – aggiunse, riferendosi ai naufraghi fuggiti dalla miseria e dalle guerre dell’Africa orientale – si sono comportati benissimo nonostante i disagi, i dolori e la disperazione”. Parole normali, che stridevano tuttavia con l’atteggiamento dei politici e di larga parte dell’opinione pubblica sotto le Alpi. “Non possiamo prenderci cura dei mali del mondo” si leggeva diffusamente sull’affollato blog del moderato Corriere della Sera proprio nei giorni della tragedia. E poi c’è chi rilanciava: “Bisogna mandarli via tutti a pedate”, gli stranieri, “vogliono solo diritti e non sanno nemmeno cosa siano i doveri”.

Un’acredine parallela alle campagne politiche della paura, un pugno allo stomaco, non solo rispetto alla realtà del bilancio (attivo) tra quel che gli immigrati danno all’economia e ai bilanci pubblici europei (per cui non rappresentano un onere ma un essenziale contributo), ma anche e anzitutto rispetto alle più elementari esigenze umane.

Gli uomini della Pinar non sarebbero infatti da ritenere degli eroi, essendosi limitati ad applicare la legge del mare, che impone il salvataggio dei naufraghi.

Le testimonianze sulla successiva situazione a bordo sono state agghiaccianti. Mentre le autorità italiane e maltesi pretendevano ai marinai interminabili giustificazioni e rapporti scritti, e tra loro si lanciavano accuse di razzismo e di indifferenza mobilitando giuristi internazionali per argomentare, i primi che la Pinar era più vicina a La Valletta, i secondi che Lampedusa era il porto più sicuro, sul ponte della nave ferma in mezzo al mare si viveva nella carestia e nella pestilenza. Erano “stanchi, impauriti, sfiniti dal freddo, non riuscivano anche a parlare”, raccontò ancora Asik.

Quasi tutti avevano la febbre, alcuni altissima, molti erano disidratati, moltissimi lamentavano gravi coliche addominali e allucinazioni, alcuni avevano la varicella e la scabbia, un ventiseienne eritreo addirittura la meningite, che lo stroncherà dopo il tardivo sbarco al centro di prima accoglienza di Pian del Lago, a Caltanissetta.

A bordo c’erano anche una quarantina di minori e trentasette donne, di cui due incinta. Ce n’era una trentottesima, ma collocata in un sacco senza vita insieme al figlio che aveva in grembo. Si chiamava Esat Ekos, nigeriana, descritta come molto giovane e bellissima. Come gli altri aveva tentato di aggrapparsi a una fune lanciata dalla Pinar, ma poi era scivolata in mare. Tre marinai si erano allora prontamente tuffati in mare per recuperarla, ma le alte onde l’hanno fatta presto scomparire, e solo quand’era troppo tardi è stata riavvisata e imbarcata.

In tale quadro, definito “da lazzaretto” da tutti i testimoni, con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite a chiedere invano un intervento immediato dei governi, il ministro degli Esteri italiano Frattini, oltre a ribadire che la competenza fosse di La Valletta, lanciava un “pressante appello affinché l’Agenzia europea per la gestione e il controllo delle frontiere esterne (Frontex) assolva con la necessaria rapidità ed efficacia agli impegni che le sono propri, e assicuri una soluzione urgente a una dolorosa questione che non può che travalicare l’ambito bilaterale italo-maltese, e piuttosto investe in pieno le competenze e le responsabilità dell’intera Unione”.

E qui il titolare della Farnesina mentiva cosciente di mentire, alla faccia dell’emergenza umanitaria. Da ex commissario agli Interni dell’Unione Europea sapeva benissimo che Bruxelles mette solo un po’ di soldi mentre le navi e la loro gestione sono quelle dei paesi membri, Italia compresa, e che quindi la “soluzione urgente” si sarebbe potuta trovare in una sua semplice telefonata alla Marina. Al contenzioso italo-maltese, risolto in grave ritardo con lo sbarco in Sicilia, con tanto di “gratitudine umanitaria” espressa dal presidente della Commissione Barroso al compagno di partito europeo Berlusconi, sono seguiti alcuni altri episodi di accuse incrociate sulla pelle degli extracomunitari, fino alla “schiarita” di qualche settimana più tardi in un vertice bilaterale, nel quale il collega maltese di Frattini Borg si congratulava con il governo italiano per la successiva decisione di gettare in Libia i migranti intercettati nel Mediterraneo, al di fuori di ogni logica umanitaria e ogni convenzione internazionale, a cominciare da quella di Ginevra sull’obbligo di un attento esame giudiziario delle richieste di asilo politico.

Di quell’inferno si sa qualcosa, per l’afflusso di medici e giornalisti. Ma la stampa è pigra e distratta, senza eccezione per i media cosiddetti indipendenti o di sinistra, e nessuno è andato poi a verificare cos’è successo ai sopravvissuti. Si conoscono solo le lacune nell’assistenza nel momento dello sbarco a Porto Empedocle. Un primo gruppo di migranti è stato ricevuto immediatamente dalle tende, dai viveri e dalle cure sanitarie della Protezione Civile. Al secondo gruppo di malati disidratati, fatti scendere in un momento successivo, sono stati invece consegnati solo dei succhi di frutta per la fretta di spedirli a Pian del Lago, con altre ore di viaggio. Un’incuria che è riuscita a sollevare le proteste perfino del governatore siciliano di centrodestra Lombardo. Del seguito della loro odissea, comunque, sugli eventuali rimpatri, sull’eventuale ottenimento dell’asilo, sull’eventuale fuga nella clandestinità e sul loro stato di salute il silenzio è stato assoluto.

E nulla si è poi scritto sulla Pinar, sebbene di nuove cose da raccontare ce ne fossero parecchio, anche per le vicende che, di nuovo, l’hanno ricondotta a contatto con l’Italia. Tra le persone che accusarono malori a bordo nei giorni del lazzaretto ci furono anche due marinai, e un terzo rimase seriamente ferito allo zigomo sinistro da un gancio staccatosi durante le operazioni di salvataggio. Per sapere e capire quel che è successo dopo bisogna tornare alle parole di Asik. “Il mio armatore è molto arrabbiato perché la sosta forzata della nave gli ha fatto perdere dei soldi. E così ora io rischio di perdere il mio posto di lavoro. Speriamo che non sia così e che l’arrabbiatura gli passi”. In quei giorni l’arrabbiatura del boss, Baris Erdogdu, era ufficialmente quella delle sue stesse grida di allarme per la situazione umanitaria. La realtà era però un’altra. La sua umana preoccupazione era che si facesse in fretta per tornare agli affari, mentre la sua rabbia era verso l’equipaggio. Dalla rabbia ai fatti: Asik Tuygun non è più il capitano della Pinar, e anche i marinai che non
sono stati licenziati hanno dovuto subire la ritorsione del capo.

L’equipaggio della nave, che per inciso batte bandiera panamense per lucro fiscale, non è stato versato per due mesi. Allo scattare del terzo, si trovava attraccata al porto di Piombino, per imbarcare materiali e merci dalle acciaierie Lucchini. Il carico è stato effettuato, ma le ancore sono rimaste lì. I marinai hanno lanciato il monito: restiamo fermi a bordo a oltranza finché non saremo pagati fino all’ultimo centesimo. Poi hanno mobilitato il sindacato internazionale dei marittimi e gli enti locali del porto.

Il tira è molla è durato qualche giorno, più o meno il tempo cui erano stati costretti per sbarcare i migranti. Poi il trionfo. Col benestare e alla presenza delle autorità, nel silenzio dei media, hanno ricevuto il mese scorso a bordo i cinquantacinquemila euro di arretrati. Ristabilendo un principio scontato ma, con le giustificazioni che la crisi consegna al padronato, quasi rivoluzionario: il lavoro va pagato.