Iran, una lunga storia di armi

di Paolo Busoni
da www.peacereporter.net

Negli ultimi vent’anni l’Iran è stato in grado di raggiungere una buona autosufficienza in molti settori armieri. Lo ha fatto attingendo alle tecnologie che via via è riuscito a comperare, ma soprattutto tramite un imponente programma nazionale di reverse engineering, (la copia dal prodotto finito, ricostruendone i piani e i progetti) partito proprio dalla necessità di rimettere in funzione le armi comprate in Occidente ai tempi dello Shah.

Le origini

L’attuale complesso militare-industriale iraniano ha origini abbastanza lontane. Già dai primi anni Sessanta lo Shah Mohammad Reza Pahlavi, aveva creato una infrastruttura di industrie e centri di ricerca per la produzione di armi. Dopo la crisi petrolifera del ’73, mettendo sul piatto la gran massa degli introiti petroliferi, l’Iran smise di essere solo un acquirente di armi ed iniziò a richiedere ai fornitori la possibilità di assemblare o produrre singole componenti dei sistemi d’arma.

L’Iran degli anni Sessanta – Settanta era infatti fortemente impegnato in una corsa al riarmo tecnologico in aperta competizione con il vicino Iraq bahatista e – in prospettiva- con l’Arabia Saudita, cosicché l’industria armiera dell’Occidente (statunitense e britannica in primo luogo, ma anche tedesca e italiana) faceva ottimi affari con tutte le varie forze armate del regime. Nel 1974, ad esempio, l’esercito iraniano riusciva non solo nell’acquisto, ma addirittura ad ottenere la coproduzione nei suoi stabilimenti del missile anticarro Tow: l’asso nella manica degli israeliani nella controffensiva dell’anno precedente durante la guerra dello Yom Kippur, quella che vide Israele sopravvivere ad un soverchiante attacco di carri armati egiziani e degli altri stati arabi.

Il Tow, prodotto allora solo negli Usa, dalla Huges, non era ancora stato messo a disposizione di tutti gli eserciti della Nato, nonostante le loro strategia fosse appunto quella di prevenire un’ipotetica grande invasione di carri armati del Patto di Varsavia. In quegli anni di inusitata ‘corsa all’oro di Teheran’ si assisteva a guerre commerciali tra alleati della Nato (Usa, Gran Bretagna e Italia) e addirittura tra società che potevano offrire lo stesso materiale: se da una parte l’italiana Agusta -tramite i buoni uffici di Vittorio Emanuele di Savoia, al quale -si dice- che lo Shah non potesse negare nulla- vendeva elicotteri costruiti su licenza Boeing e Bell, contemporaneamente la stessa Bell ‘piazzava’ all’Iran il Bell 214, una versione ‘sviluppata’ ad hoc per le ‘esigenze’ dell’esercito iraniano dell’UH1, lo Huey, l’elicottero-icona della guerra americana al Vietnam.

Ma l’exploit in questa corsa alle vendite, fu quello dell’americana Grumman, che vendette allo Shah una ottantina di F14 Tomcat, (l’aereo del film Top gun), che rappresentava la punta di diamante dell’aviazione di marina Usa. Fu una fornitura inusitata che non mancò di “offendere” altri acquirenti di materiali statunitensi. Gli israeliani infatti giudicavano il salto qualitativo della forza aerea iraniana troppo grosso e ottennero pertanto che gli Usa gli cedessero numerosi F15, l’equivalente terrestre. Si innescò così la reazione saudita, che spinse gli Usa a vendere alcuni F15 anche a quel paese e a fornirne altre decine -in ulteriore compensazione- alla stessa Israele.

1979, la rivoluzione – 1980-88, la guerra con l’Iraq

La rivoluzione del 1979 arrestò ogni fornitura e -fatto salvo il traffico di pezzi di ricambio oggetto dello scandalo Iran-Contras e poche altre triangolazioni- Teheran non ricevette altra tecnologia bellica Usa. La rivoluzione azzerò il vertice militare, in parte a causa della fuga delle gerarchie al seguito dello Shah in esilio, in parte per il processo di epurazione portato avanti dai Pasdaran, che di fatto diventarono la più importante tra le forze armate iraniane. L’impellenza della guerra con l’Iraq (iniziata, dopo quasi un anno di forti tensioni, il 22 settembre 1980 e terminata -per sfinimento delle due parti- nell’agosto 1988) spinse il governo degli ayatollah a comprare qualsiasi cosa da chiunque fosse in grado di vendergli armi.

Fecero affari d’oro i mercanti d’armi privati, ma anche le industrie cinesi, nord-coreane e sovietiche. La tecnologia che potevano offrire era più bassa rispetto alle precedenti forniture Occidentali, ma compatibile con le capacità tecniche e militari del nuovo Iran. Era vitale opporre uno spiegamento di qualsiasi cosa (aerei, elicotteri, corazzati, artiglierie, mine e addirittura armi chimiche) che arrestasse l’avanzata di Saddam Hussein, che dall’altra parte rastrellava armi in Europa, Unione Sovietica e adesso anche negli Stati Uniti. Nonostante questo rapido susseguirsi di eventi dalla rivoluzione alla guerra il complesso militare industriale iraniano non fu completamente devastato e specie dopo la fine della guerra, sotto il governo Rafsanjani, ricevette un nuovo notevole impulso.

Oggi, non solo arricchimento dell’uranio

Alcune fonti di analisi, sia dei servizi segreti occidentali che di agenzie specializzate, assicurano che oggi l’Iran è in grado di autoprodurre gran parte delle artiglierie, dei veicoli corazzati e blindati e dell’armamento navale (inclusi mini sommergibili). Si è riscontrata inoltre la produzione di una buona quantità di componenti del settore aerospaziale, comprese le copie locali dello Stinger americano e dell’SA7 e SA18 sovietici, i pericolosissimi missili antiaerei spalleggiabili. Ed ha destato un certo scalpore la recente uscita di una copia del sistema antiaereo pesante Hawk, radiato dagli Usa negli anni ’90, ma ancora in uso in moltissimi paesi tra cui l’Italia.

I maggiori investimenti sembrano concentrati nei settori missilistico, elettronico e della ricerca nucleare, che per loro stessa natura sono i più “sentiti” dai governi e dai media occidentali. Tuttavia non sono da trascurare i risultati raggiunti nelle armi leggere, nelle artiglierie e nei razzi, come dimostrano la campagna di Israele contro Hezbollah del 2006 e qualche sequestro di navi dirette ad Hamas.

Solo l’assenza pressoché assoluta ai saloni e alle fiere dell’export bellico impedisce di valutare pienamente le capacità di un conglomerato di imprese che rappresenta il 10-15 percento della struttura industriale del Paese. L’Iran armiero di oggi, non è sicuramente in grado di competere con l’Occidente e nemmeno con le realizzazioni più avanzate della Russia, ma realisticamente è al livello della media produzione cinese.

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Iran; il business dell’embargo

di Marcello Brecciaroli
da www.peacereporter.net

Il presidente russo Medvenev, in un’intervista rilasciata a margine dell’Assemblea Generale Onu, ha dichiarato: “Non penso che le sanzioni siano la via migliore per trattare con l’Iran”, ma ha specificato che possono essere lecite se tutte le alternative falliscono.
Le resistenze russe, al pari di quelle cinesi, dipendono dagli enormi interessi economici che i due stati hanno in Iran: Gazprom, il colosso russo del gas, ha fiutato l’affare dei giacimenti iraniani abbandonati dalle europee Total e Royal Dutch Shell.

In generale Russia e Cina stanno riempiendo tutti i vuoti lasciati dalle compagnie europee in ritirata (le statunitensi se ne sono andate del tutto già dal 1997).

Anche se Russia e Cina decidessero di adeguarsi in pieno alle sanzioni proposte dagli Stati Uniti, il che non sembra visto che la cinese Sinopec ha firmato nuovi accordi il 23 settembre, i ricavi attuali dell’Iran dalla vendita del petrolio oscillano tra i 50 e 60 miliardi di dollari all’anno. Si può considerare veramente “embargo” un provvedimento che permette commerci esteri per cifre del genere? Un tale fiume di denaro permette a Teheran di importare tutto ciò di cui ha bisogno e di avere risorse da investire nel suo programma nucleare.

Fino
ad oggi, l’intento delle sanzioni è stato proibire alle aziende di sviluppare infrastrutture nel Paese, ma non di acquistarvi petrolio e rivendervi prodotti raffinati.

Questo ha permesso di bloccare la capacita estrattiva dell’Iran, senza dover rinunciare al miliardario commercio dei suoi prodotti. Investire in Iran è dunque proibito. Le sanzioni internazionali, volute dagli Stati Uniti e ratificate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, vietano investimenti per cifre superiori a 200 milioni di dollari sin dal 2008. E’ una somma solo apparentemente alta: se si vuole costruire un impianto petrolifero, questa cifra basta si e no a esplorare il terreno.

Eppure lo stato persiano continua ad allocare licenze di estrazione: Royal Dutch Shell, Repsol, Total e la nostra Eni hanno contratti già stipulati, soprattutto nello sterminato giacimento off-shore “South Pars”, il più grande del mondo. Il ministro iraniano del Petrolio ha dichiarato che sono oltre 60 i miliardi di dollari investiti nello sviluppo negli ultimi 4 anni. Queste compagnie però perderanno probabilmente le loro concessioni in quanto hanno dichiarato che non intendono investire ulteriormente nel paese.

L’italiana Eni, oltre a essere presente sull’area del South Pars, sfrutta anche il giacimento on-shore di Darquain (la quota Eni è del 60 percento): nel “Fact book 2008”, pubblicato sul sito Eni, si annuncia che l’azienda sta realizzando un “upgrading” delle strutture che porterà la produzione da 100mila Barili/giorno a 160 mila barili/giorno entro il 2009. Gli investimenti sono finanziati con la formula “Buy-back” che consente di ripagare le spese con la cessione di una parte dei prodotti estratti.

Questa operazione, se verrà conclusa, rappresenterà una chiara violazione dei precetti delle sanzioni internazionali.

All’ assemblea Generale delle Nazioni Unite, martedì scorso, l’amministratore delegato Eni, Paolo Scaroni, ha dichiarato che in Iran “abbiamo solo un vecchio progetto che andrà ad esaurirsi. Per il resto praticamente nulla”.

E’ vero che L’Iran rappresenta una fetta minuscola della produzione globale dell’azienda (nel 2008, 1,797 milioni di barili/giorno), ma è quanto basta per far preoccupare gli Stati Uniti da cui, secondo Scaroni, “Non abbiamo mai ricevuto lamentele per i rapporti con Libia e Russia, la loro preoccupazione è l’Iran”. Già al tempo del primo pacchetto di sanzioni varato contro l’Iran, nel 2006, l’amministrazione americana aveva chiesto chiarimenti all’Eni per i suoi rapporti privilegiati con Teheran: al tempo Scaroni aveva dichiarato che “Non intendiamo fare nuovi contratti, ma non possiamo uscire, lo abbiamo spiegato anche a Bush, perderemmo dai 2 ai 3 miliardi”.

L’Italia è il maggior partner commerciale europeo dell’Iran, nonostante il volume di affari sia in continuo calo: nel 2008, per adeguarsi alle sanzioni internazionali, i rapporti sono stati ridotti del 22 per cento.
Il governo iraniano sostiene che può andare avanti anche da solo, ma gli esperti ritengono che non disponga dei capitali sufficienti.
All’Assemblea dell’Onu è emerso un cambiamento di strategia: gli Stati Uniti vogliono proporre di estendere l’embargo anche al commercio di prodotti petroliferi. Questo chiuderebbe veramente i rubinetti di Teheran. Esponenti del Dipartimento di Stato Usa, come riportato dall’agenzia Dow Jones, ritengono che questa sarebbe la più potente alternativa ad un intervento militare.

Questa mossa però, per avere efficacia, deve essere presa al più presto: l’Iran sta costruendo nuove raffinerie che lo porteranno all’indipendenza dai prodotti raffinati esteri entro il 2012.