Sulla questione carceraria

di Rita Andrenacci, Domenico Arena, Neris Cimini, Massimo Di Rienzo
da www.aprileonline.info

Lettera aperta – Le drammatiche notizie di cronaca di queste settimane ripropongono, in modo allarmante, la questione basilare del dovere, da parte degli organi di giustizia e delle forze dell’ordine dello Stato di diritto, di garantire l’incolumità e la salute delle persone che sono private della libertà ed affidate alla pubblica autorità

E’ un diritto fondamentale da parte di ogni donna o uomo (cui corrisponde un preciso dovere di salvaguardia da parte delle autorità) quello di avere la certezza che, in caso di fermo, arresto, reclusione, detenzione amministrativa, la propria persona sarà garantita da qualsiasi offesa nel corpo e nella psiche e curata in modo adeguato, se le sue condizioni di salute lo richiedono. E’ del tutto evidente come queste considerazioni, che dovrebbero costituire delle ovvietà, nel momento attuale rischino – viceversa- di apparire rivoluzionarie. L’on. Giovanardi ha ben rappresentato, intervenendo sul caso Cucchi, il venticello di rancoroso cinismo che aleggia sul Paese e che – sempre più – tende a disconoscere l’esistenza di diritti universali, quasi che la vita e la salute fossero prerogative riservate ai cittadini italiani non devianti e non a qualsiasi essere umano.

Si usa recitare, in casi come quello di Stefano Cucchi, il rassicurante mantra secondo cui, nel confermare assoluta fiducia nelle autorità inquirenti, si auspica che il singolo episodio non divenga un pretesto per criminalizzare le istituzioni e le diverse forze dell’ordine: insomma, per “non fare di tutta l’erba un fascio”. Epperò, al di là del rischio di facili quanto errate generalizzazioni, resta un fortissimo senso di disagio e di preoccupazione in chi osservi un po’ più da vicino il concreto e quotidiano mondo della giustizia penale nel nostro paese. Perché è purtroppo una percezione diffusa quella per cui la cultura della legalità e dei diritti va subendo, nell’ultimo periodo, l’onda lunga del clima di impunito arbitrìo che si respira nel paese: ed i primi luoghi a rischio, quando l’argine del diritto cede, sono – com’è ovvio – quelli laddove la legge smette i panni eleganti dei raffinati ragionamenti giuridici, per indossare quelli decisamente più concreti della custodia e della gestione dei corpi.

Sta divenendo senso comune la percezione che ciò che alberga dentro le mura del carcere non debba avere nulla a che fare con la società civile, quasi che le regole, le norme, le garanzie cui i comuni cittadini sono (più o meno) avvezzi possano o debbano subire una sospensione non appena si varchi quella soglia. Anche perché, se quella soglia si varca, si è – nella maggioranza dei casi – perdenti (cioè stranieri, tossicodipendenti, malati psichiatrici: categorie che, da sole, assommano a ben più della metà dei detenuti italiani) ed, in quanto tali, destinati a non essere tutelati.

Come se il sistema dei diritti e delle garanzie fosse posto a tutela dei vincenti, di coloro che, a prescindere dalla propria colpevolezza, possono permettersi di non sperimentare cosa sia concretamente il carcere (o di viverlo protetti dal riconoscimento di una certa “aristocrazia criminale”), piuttosto che le fasce deboli della popolazione.

Questa ipertrofia di “sfigati” ai confini della legalità che gonfia le mura del carcere oltre ogni sovraffollamento possibile, nella sorda indifferenza di governanti impegnati a tutelare sé stessi, svuota e snatura quel po’ di rispetto della legalità che faticosamente si era costruito anche nelle carceri: quale il senso e la possibile applicazione di regole penitenziarie pensate per persone giudicate colpevoli e da reinserire in un percorso sociale graduale e complesso, quando la maggioranza dei detenuti non supera l’anno di reclusione? Par che sia molto più importante, per chi continua a sfornare pacchetti sicurezza, “mandare in galera” categorie eterogenee ed indeterminate, piuttosto che giudicare, eseguire e gestire la condanna di soggetti che veramente pongono in essere reati allarmanti.

Così, le patrie galere vengono sempre più attraversate da una folla indistinta di corpi all’ammasso, senza la possibilità di capire, governare, gestire; così l’ordinamento penitenziario, il suo sistema di regole, sanzioni, benefici, agonizza dentro istituti sempre più sinistramente simili a centri di detenzione temporanea; così un personale esausto tenta sempre più flebilmente di frenare la deriva dell’illegalità montante; così, dentro le carceri, le ragioni della forza prendono il sopravvento sulla forza della ragione.

Nel frattempo, al furore sanzionatorio di iniziativa governativa fa da controcanto l’assoluta e silenziosa impotenza di un’Amministrazione Penitenziaria che continua a produrre ossessivamente bozze di Piani Carceri e circolari arditamente tese a sfidare il principio dell’impenetrabilità dei corpi, riducendo il proprio mandato al reperimento di posti letto (che, peraltro non reperisce, se non in misura assolutamente inadeguata): così, può accadere che una condanna della Corte Europea per il trattamento degradante cui il sovraffollamento (ma anche la assoluta mancanza di attività tratta mentali) conduce nei confronti dei detenuti, sia tradotta in una direttiva ministeriale che autorizza e dispone di aumentare la capienza degli istituti sino a ridurre la superficie a disposizione del singolo detenuto a tre metri quadri; siamo, oramai, di fronte al teatro dell’assurdo e del grottesco.

Noi dirigenti penitenziari della Fp Cgil siamo assolutamente convinti che il tracollo del sistema penitenziario italiano imponga una riflessione seria e profonda, assolutamente irriducibile a facili o demagogiche prese di posizione: occorre ridare coerenza ad un sistema penale che è andato smarrendo il senso della propria funzione; occorre ristrutturare dalle fondamenta una Amministrazione Penitenziaria ormai irrimediabilmente aliena dai dettami costituzionali in materia di esecuzione penale.

Occorre ridare dignità a quanti, ogni giorno,si ostinano a considerare i luoghi di detenzione come luoghi del diritto e non dell’arbitrio. Ed occorre farlo presto, prima che si producano conseguenze ancor più devastanti di quelle alle quali stiamo, purtroppo, già assistendo.