Obama: un Vietnam in versione “lite”

di Pepe Escobar – «Asia Times».
da http://mirumir.altervista.org/

Gli Stati Uniti si trovano nel mezzo della più grave crisi occupazionale dai tempi della Grande Depressione, e il Presidente Barack Obama sta seguendo le orme di George W. Bush dispensando trilioni di dollari a poche grandi banche. I contribuenti americani non hanno avuto nulla. E adesso si prendono la ciliegina sulla torta, con Obama che intensifica la sua guerra in Afghanistan.

Un Vietnam in versione “lite” con una provvisoria data di scadenza, luglio 2011, per l’inizio di un ritiro. Il tanto pubblicizzato discorso tenuto da Obama martedì sera a West Point – ritoccato fino all’ultimo dal presidente in persona – era una scaltra rimasticatura del fardello dell’uomo bianco, con la sicurezza nazionale americana avvolta nel glorioso manto della “nobile lotta per la libertà”.

A un livello più pedestre è vero che la storia si ripete, ma come farsa. Con il surge [incremento truppe, N.d.T.] in versione “lite” di Obama, le truppe di occupazione USA e NATO raggiungeranno nella prima metà del 2010 il livello dell’occupazione sovietica al suo punto più alto, nella prima metà degli anni Ottanta. E tutta questa formidabile potenza di fuoco per combattere non più di 25.000 taliban afgani, solo 3000 dei quali armati di tutto punto.

Ciascun soldato del nuovo surge di Obama (parola che non ha mai pronunciato nel suo discorso, tranne quando si è riferito a un “surge di civili”) costerà un milione di dollari – benché il Pentagono insista nel dire che è solo mezzo milione.

Obama continua a ripetere che l’Afghanistan è una “guerra di necessità”, per via dell’11 settembre. Sbagliato. L’amministrazione Bush aveva pianificato l’attacco all’Afghanistan già prima dell’11 settembre. (Si veda Get Osama! Now! Or else …, Asia Times Online, 30 agosto 2001.)

“Guerra di necessità” è un educato remix della vecchia “guerra al terrore” dei neocon: date la colpa ai tizi con l’asciugamano in testa e sfruttate l’ignoranza e la paura dell’opinione pubblica. Fu così che al-Qaeda fu equiparata ai taliban e che il leader iracheno Saddam Hussein venne coinvolto nell’11 settembre dalla cricca dei neoconservatori.

Al di là della sua nobile retorica Obama continua a comportarsi come Bush, non facendo distinzione tra al-Qaeda – un’organizzazione araba che pratica il jihad e il cui obiettivo è un califfato globale – e i taliban, afghani autoctoni che vogliono un emirato islamico in Afghanistan ma non avrebbero scrupoli a far affari con gli Stati Uniti, come fecero all’epoca dell’amministrazione Clinton quando gli Stati Uniti volevano a tutti i costi costruire un gasdotto trans-afghano. E inoltre Obama non può ammettere che i neo-taliban “Pak” adesso esistono a causa dell’occupazione statunitense dell’“Af”.

Mettendocela tutta per distanziare la sua nuova strategia dal trauma del Vietnam, Obama ha sottolineato che “Diversamente dal Vietnam, il popolo americano è stato malignamente attaccato dall’Afghanistan”. Sbagliato. Se la ricostruzione ufficiale dell’11 settembre regge, i dirottatori furono addestrati in Europa Occidentale e perfezionarono le loro tecniche negli Stati Uniti.

E quando sottolinea gli sforzi per “disgregare, smantellare e sconfiggere” al-Qaeda e per negarle un “rifugio sicuro”, Obama contraddice in tutto e per tutto il suo consigliere per la sicurezza nazionale, il General James Jones, il quale ha ammesso che in Afghanistan ci sono meno di 100 jihadisti di al-Qaeda.

Il mito di al-Qaeda va smascherato. Come ha potuto al-Qaeda mettere in atto l’11 settembre e tuttavia essere incapace di organizzare un solo significativo attentato in Arabia Saudita? Perché al-Qaeda è essenzialmente una brigata mal camuffata dei servizi segreti sauditi. Gli Stati Uniti vogliono vincere “la guerra al terrore”? Perché non mandare dei corpi speciali in Arabia Saudita anziché in Afghanistan e far fuori i wahhabiti, che stanno alla base di tutto?

Obama avrebbe perlomeno potuto far caso a quello che ha detto ad al-Jazeera Gulbuddin Hekmatyar, il famigerato guerrigliero afghano, ex protetto dell’Arabia Saudita, ex beniamino della CIA e attuale nemico degli Stati Uniti. “Il governo taliban in Afghanistan è caduto a causa della strategia sbagliata di al-Qaeda”, ha sottolineato Hekmatyar.

È una vivida descrizione dell’attuale completa frattura tra al-Qaeda e i taliban, entrambi “Af” e “Pak”. I taliban afghani, a cominciare dal loro leader storico, il Mullah Omar, hanno imparato dal loro grave errore, e non permettono agli arabi di al-Qaeda di avvelenare l’Afghanistan. Analogamente, l’ascesa del neo-talibanismo di qua e di là del confine non si traduce necessariamente in un “rifugio sicuro” per al-Qaeda. I jihadisti di al-Qaeda si nascondono presso pochi selezionati e prezzolati elementi tribali che i servizi segreti pakistani potrebbero localizzare all’istante, se solo lo volessero.

Obama ha anche accettato la premessa del Pentagono secondo cui l’America può ricolonizzare l’Afghanistan con la contro-insurrezione.

Secondo la dottrina del Generale David “Mi sto sempre posizionando in vista delle elezioni del 2012” Petraeus, la proporzione soldati/autoctoni dev’essere 20 o 25 su 1000 afghani. Adesso Petraeus e il Generale Stanley McChrystal ne hanno ottenuti altri 30.000. Inevitabilmente i generali – proprio come nel Vietnam, che a Obama piaccia o no – chiederanno molto di più, fino a ottenere quello che vogliono; almeno 660.000 soldati, più tutti gli extra. Al momento gli Stati Uniti hanno circa 70.000 soldati in Afghanistan.

Questo significherebbe ripristinare la coscrizione negli Stati Uniti. E sono altri trilioni che gli Stati Uniti non hanno e che dovranno prendere in prestito… dalla Cina.

E a cosa porterebbe? Negli anni Ottanta la potente armata rossa sovietica ha usato tutti gli espedienti della contro-insurrezione a sua disposizione. I sovietici hanno ucciso un milione di afghani. Hanno fatto cinque milioni di profughi. Hanno perso 15.000 soldati. Hanno praticamente mandato l’Unione Sovietica in bancarotta. Ci hanno rinunciato. E se ne sono andati.

E il nuovo grande gioco? Ma allora perché gli Stati Uniti sono ancora in Afghanistan? Con uno sguardo in macchina, come rivolgendosi al “popolo afghano”, il presidente ha detto: “non abbiamo interesse a occupare il vostro paese”. Ma non poteva dire le cose come stanno agli spettatori americani.

Per l’America delle corporazioni l’Afghanistan non significa nulla; è il quinto paese più povero del mondo, una società tribale e decisamente non consumistica. Ma per le grandi compagnie petrolifere statunitensi e per il Pentagono l’Afghanistan ha un gran fascino.

Per il Big Oil, il sacro graal è l’accesso al gas naturale del Turkmenistan proveniente dal Mar Caspio, cioè il Pipelineistan nel cuore del nuovo grande gioco in Eurasia, evitando sia la Russia che l’Iran. Ma non c’è modo di costruire un gasdotto enormemente strategico come il TAPI (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India) – attraverso la provincia di Helman e il Balochistan pakistano – con un Afghanistan che si trova nel caos grazie alle misere imprese dell’occupazione USA/NATO.

C’è interesse a sorvegliare/controllare un traffico di droga da 4 miliardi di dollari l’anno, direttamente e indirettamente. Fin dall’inizio dell’occupazione USA/NATO l’Afghanistan è diventato un narco-Stato de facto, producendo il 92% dell’eroina mondiale per una serie di cartelli narco-terroristici internazionali.

E c’è la dottrina del dominio ad ampio spettro del Pentagono per cui l’Afghanistan fa parte dell’impero mondiale delle basi statunitensi, che controllano da vicino competitori strategici come la Cina e la Russia.

Obama ha semplicemente ignorato che in Eurasia si sta svolgend
o un nuovo grande gioco dalla posta vertiginosamente alta. E così, a causa di tutto quello che Obama non ha detto a West Point, gli americani si sorbiscono una “guerra di necessità” che sta prosciugando trilioni di dollari che potrebbero essere impiegati per ridurre la disoccupazione e aiutare davvero l’economia statunitense.

Inevitabilmente i taliban metteranno in atto a loro volta un ben coordinato contro-surge. Già adesso, senza surge e nonostante tutti i piani di contro-insurrezione di Petraeus, hanno catturato la provincia del Nuristan. E ve lo ricordate il surge estivo di Obama nella provincia di Helmand? Be’, Helmand è ancora la capitale mondiale dell’oppio.

Nel suo discorso Obama ha cercato con tutti i mezzi di dare l’impressione che la guerra afghana possa essere controllata da Washington. È impossibile.

Con tutte le sue promesse di “cooperazione con il Pakistan” (menzionato 21 volte nel discorso) Obama non ha potuto in alcun modo ammettere che il suo surge versione “lite” destabilizzerà il Pakistan ancor di più. Al contrario potrebbe affidare la guerra al Pakistan. Invece di fissare, come ha fatto Obama, il luglio 2011 come data per il possibile inizio di un ritiro, comunque subordinato alle “condizioni sul terreno”, questa vera strategia d’uscita dovrebbe fissare una tempistica per un ritiro completo. Islamabad sarebbe così libera di fare quello che non è stato possibile né ai sovietici né agli americani: sedersi con i capi tribù e negoziare attraverso una serie di jirga (concili tribali).

Obama scommette su quella che definisce “transizione delle responsabilità agli afghani”. È un miraggio. I servizi di sicurezza pakistani – che vedono ancora l’Afghanistan in termini di “profondità strategica” e di spazio di manovra nel contesto più ampio di un conflitto con l’India – non permetterà mai che ciò avvenga rigorosamente alle condizioni afghane. Non sarà corretto nei confronti degli afghani, ma così stanno le cose.

In Afghanistan praticamente tutti ritengono – giustamente – che Hamid Karzai sia il Presidente dell’occupazione. Karzai, che a malapena riesce a restare aggrappato al suo trono a Kabul, è stato imposto nel dicembre 2001 al re Zahir Shah dal proconsole di Bush Zalmay Khalilzad dopo una rovente discussione, ed è stato di recente confermato in un’elezione alla americana, palesemente truccata. Lo stile americano non è lo stile afghano. Il collaudato stile afghano si è basato per secoli sulla loya jirga – un grande concilio tribale in cui tutti partecipano, discutono e infine raggiungono un consenso.

Dunque il finale di partita in Afghanistan non può essere molto diverso da una spartizione del potere all’interno di una coalizione, con i taliban nel ruolo di partito più forte. Perché? Basta esaminare la storia della guerriglia dall’Ottocento in poi, o ripensare al Vietnam. I guerriglieri che combattono più strenuamente contro gli stranieri l’hanno sempre vita. E perfino con una fetta del potere ai taliban a Kabul, i potenti vicini dell’Afghanistan – il Pakistan, l’Iran, la Cina, la Russia, l’India – si assicureranno che il caos non superi i loro confini. È un affare asiatico, questo, che deve essere risolto dagli asiatici; è una buona ragione per trovare una soluzione nell’ambito della Shanghai Cooperation Organization (SCO, Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione).

Nel frattempo, c’è la realtà. Il dominio ad ampio spettro del Pentagono ha ottenuto quello che cercava, per ora. Chiamatela vendetta dei generali. Chi vince, a parte loro? Il guerriero da salotto australiano David Kilcullen, consigliere e ghostwriter di Petraeus e McChrystal considerato un semidio dai guerrafondai di Washington. Alcuni neocon moderati; di certo non l’ex vice presidente Dick Cheney, che ha condannato la “debolezza” di Obama. E complessivamente tutti coloro che hanno sottoscritto il concetto di “guerra lunga” del Pentagono.

Due settimane prima di andare a Oslo per accettare il Premio Nobel per la Pace, Obama vende al mondo il suo nuovo Vietnam in versione “lite” tenendo un discorso in un’accademia militare. Onore a George Orwell. È proprio vero che la guerra è pace.

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Altri mille italiani sul fronte afgano

di Enrico Piovesana
da www.peacereporter.net

In un’intervista al Corriere della Sera, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha annunciato l’intenzione del governo Berlusconi di inviare sul fronte di guerra afgano altri mille soldati nella seconda metà del prossimo anno.

Intenzione poi confermata dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, che dal vertice Nato di Bruxelles ha specificato che, con il già programmato invio di 200 istruttori militari, il nostro contingente militare salirà a 4mila uomini, diventando il quarto più grande schierato in Afghanistan dopo quelli statunitense (100mila), britannico (9.500) e tedesco (4.400), scavalcando canadesi (2.800) e francesi (3.100).

Le truppe da mandare in Afghanistan verranno recuperate in gran parte dal Kosovo, forse qualcuna anche dal Libano. Anche i soldi necessari per finanziare l’escalation italiana in Afghanistan (che verrà votata il prossimo giugno) proverranno dal disimpegno militare su altri fronti, senza quindi comportare ulteriori aggravi di spesa. “Ci sono altre missioni alle quali si possono sottrarre risorse – ha detto La Russa – ho fatto un piano di riequilibrio e quando Tremonti l’ha visto, ha esultato: ‘Proprio al bacio’, ha detto”.

Il ministro ha spiegato che i mille uomini in più verranno impiegati in combattimento: “A Herat sono schierati tre Battle Group: prevediamo di portarli a quattro, in modo da permettere una svolta radicale nell’attività operativa”, consentendo alle truppe italiane di “bonificare una zona e poi di presidiarla in modo da impedire agli insorti di riconquistarla”.

Per capire come siamo arrivati fin qui, PeaceReporter ripercorre le tappe del progressivo coinvolgimento italiano nella guerra in Afghanistan.

Soldati attualmente schierati: 2.800 (ne sono autorizzati al massimo di 3.227, quota raggiunta nei mesi scorsi con l’invio delle truppe di rinforzo temporaneo per le elezioni, poi ritirate)
Militari caduti in missione dal 2001: 22 (di cui 14 in azione e 8 in incidenti o per malattie)
Costo della missione dal 2001: oltre 2,5 miliardi di euro (in costante aumento: oltre 500 milioni nel 2009 contro una media di 300 milioni nei primi anni).

ENDURING FREEDOM

– Il 7 novembre 2001 il Parlamento approva a larghissima maggioranza (tanne Prc, Pdci e Verdi) la partecipazione italiana all’operazione internazionale Enduring Freedom (“finalizzata al ripristino della legalità internazionale, in conformità agli obblighi derivanti dall’articolo 5 del Trattato di Washington e alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1368 del 12 settembre 2001 e n. 1373 del 28 settembre 2001”).
– Il 18 novembre 2001 partono per il fronte, imbarcati su navi militari che salpano da Taranto, i primi 600 soldati italiani impegnati nella missione di guerra Enduring Freedom.
– Nel marzo 2003 vengono inviati in Afghanistan altri 1.000 soldati (soprattutto alpini) per combattere sul fronte di Khost (Operazione Nibbio).
La loro missione termina nel dicembre 2003, anche se l’Italia esce formalmente da Enduring Freedom solo nel dicembre 2006 (continuando fino a quella data la sua partecipazione alle operazioni navali nel Mare Arabico).

ISAF

– Il 10 gennaio 2002, a Londra, l’Italia firma un Memorandum of Understanding, con il quale formalizza il proprio contributo alla missione ISAF (autorizzata con Risoluzione n. 1386 del 20.12.2001 e avente il compito di mantenere la sicurezza in Kabul e nel
le aree limitrofe, a tutela dell’Autorità nazionale afgana insediatasi il 22 dicembre 2001).
NB: L’unico passaggio parlamentare riguardante la partecipazione italiana alla missione ISAF avverrà A POSTERIORI il 27 febbraio 2002 con l’approvazione della “legge n. 15/2002 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 28 dicembre 2001, n. 451, recante disposizioni urgenti per la proroga della partecipazione italiana ad operazioni militari internazionali”: la “modificazione” riguarda l’inserimento nel testo del decreto di un riferimento alla missione ISAF “connessa a Enduring Freedom”.
– Nello stesso mese di gennaio vengono inviati a Kabul i primi 450 soldati italiani nell’ambito della missione ISAF, che si stanziano nella base ‘Camp Invicta’.

ISAF DIVENTA UNA MISSIONE DI GUERRA

– L’11 agosto 2003 il comando della missione ISAF passa alla Nato, ovvero a un’alleanza militare formalmente in guerra con l’Afghanistan. In questo modo l’operazione ‘di pace’ ISAF diventa formalmente una missione di guerra parallela a quella di Enduring Freedom.
– L’8 dicembre 2005 i Ministri della Difesa Nato riuniti a Bruxelles nel Consiglio nordatlantico (Nac) decidono che la missione ISAF si estenderà al sud dell’Afghanistan e che la Nato prenderà il comando delle operazioni militari in questa regione sostituendosi alla missione di guerra Enduring Freedom.
– Il 31 luglio 2006 la Nato prende il comando delle operazioni militari nel sud dell’Afghanistan: ISAF diventa di fatto un’operazione di guerra.
– Il 4 febbraio 2007 le due missioni, ISAF e Enduring Freedom passano sotto comando unificato Usa, nella persona del generale Dan Mc Neill: la missione ISAF, pur rimanendo formalmente una missione a guida Nato, viene di fatto assorbita dalla missione di guerra a guida Usa Enduring Freedom.

L’ESACALTION DELLA PARTECIPAZIONE ITALIANA ALLA GUERRA

– Il 4 maggio 2006 (in vista dell’espansione a sud) entrano in vigore per tutti i contingenti ISAF le nuove regole d’ingaggio ‘irrobustite’ dalla Nato: le truppe Nato possono ricorrere all’uso della forza per portare avanti l’assolvimento della missione ISAF e in più eliminare le forze ostili sul terreno anche se non rappresentano una minaccia diretta per i soldati con le cosiddette operazioni preventive ‘search and destroy’. Il nuovo governo italiano (Prodi) impone dei ‘caevat’ alle nuove regole d’ingaggio, stabilendo che le truppe italiane possono partecipare ad azioni militari offensive solo previa autorizzazione del governo italiano, che ha 72 ore di tempo per valutare.
– Nel giugno del 2006, sulla base di una decisione già presa dal governo Berlusconi, il governo Prodi autorizza l’invio di un contingente di 200 forze speciali (Task Force 45) che verranno impiegate nell’operazione segreta ‘Sarissa’.
– Nel settembre 2006 il governo italiano, su pressione di Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada, autorizza segretamente una maggiore flessibilità nel rispetto dei ‘caveat’, consentendo così alle forze speciali della Task Force 45 e ai 150 soldati italiani della Forza di Reazione Rapida (Qrf) di iniziare a condurre offensive contro i talebani nella provincia afgana sud-occidentale di Farah (operazioni ‘Wyconda Pincer’ e ‘Wyconda Rib’).
– Il 2 aprile 2007, in attuazione dell’ordine del giorno approvato dal Parlamento il 27 marzo a larghissima maggioranza (odg presentato dalla Lega Nord, e che impegna il governo a fornire attrezzature adeguate, nonchè mezzi militari terrestri ed aerei idonei a fronteggiare la situazione in Afghanistan), il Consiglio Supremo di Difesa (Prodi, D’Alema, Parisi, Amato, Bersani, Padoa-Schioppa, Letta, Napolitano) decide l’invio in Afghanistan di mezzi da combattimento (carri armati ‘Dardo’ ed elicotteri da attacco ‘Mangusta’) “a protezione del contingente”, confermando il carattere pacifico della missione.
– Nel febbraio 2008 il governo italiano decide l’invio (ad aprile) di due compagnie da combattimento per la costituzione di un ‘Battle Group’ italiano nell’ovest dell’Afghanistan, portando così a 800 il numero delle truppe italiane combattenti (200 della Task Force 45 e 500 del nuovo Battle Group).
– Nel giugno 2008 il nuovo governo italiano (Berlusconi) allenta il ‘caveat’ che impedisce alle truppe italiane di condurre azioni offensive (autorizzazione in 6 ore invece che in 72), in maniera da consentire una maggiore operatività del Battle Group appena schierato.
– Nel settembre 2008 viene deciso l’invio (a novembre) di due cacciabombardieri ‘Tornado’ autorizzati a usare l’armamento di bordo (non le bombe).
– Nel dicembre 2008 viene deciso l’invio di ulteriori truppe da combattimento per la costituzione di un secondo ‘Battle Group’ italiano nell’ovest dell’Afghanistan (a febbraio 2009), portando così a 1300 il numero delle truppe italiane combattenti (200 della Task Force 45 e 1.000 dei due Battle Group).
Vengono anche rimossi i restanti ‘caveat’, consentendo la piena operatività offensiva delle truppe da combattimento.
– L’ estate 2009 vede le truppe da combattimento italiane (tutti parà della brigata ‘Folgore’) impegnate nelle più massicce offensive mai condotte in Afghanistan, sia sul fronte di Farah che su quello di Bala Murghab: centinaia di insorti vengono uccisi in battaglia dagli italiani. Si registrano anche diverse vittime civili.
– Nell’agosto 2009 vengono spostati da Kabul a Herat 500 soldati italiani per consentire la costituzione di un terzo ‘Battle Group’ italiano sul fronte ovest, portando così a 1800 il numero delle truppe italiane combattenti.
– Nel novembre 2009 i cacciabombardieri italiani schierati in Afghanistan diventano quattro (‘Amx’ al posto dei ‘Tornado’) e sono pronti a condurre anche bombardamenti (per i quali gli equipaggi sono stati appositamente addestrati per un mese negli Stati Uniti).