Basta un presidente per riformare gli Stati uniti?

di Serge Halimi
da Le Monde Diplomatique, Gennaio 2010 (pubblicato da Il Manifesto)

A volte la lotta politica dà troppo rilievo alle contrapposizioni personalizzate e alle ripulse ossessive. E il conseguente scontro frontale, con le sue necessità, dà vita ad aggregazioni eterogenee, motivate da un desiderio comune: quello di abbattere un unico bersaglio.
Ma non appena il nemico è sconfitto, ecco che incominciano i guai.
E sorge allora la domanda: che fare adesso? Via via che si affrontano le scelte politiche, vanno chiariti anche gli equivoci che favorivano il cartello degli oppositori. E a questo punto subentra il disincanto.
Il risultato è che a breve scadenza l’odiato avversario torna al potere, per nulla ammansito dalla parentesi all’opposizione.

Uno schema del genere si è già potuto osservare nell’Italia di Silvio Berlusconi, che dopo essere stato battuto nel 1996 da un centro-sinistra piuttosto scialbo e privo di progettualità, ha trionfato di nuovo cinque anni dopo. Anche nella Francia di Nicolas Sarkozy assistiamo oggi a un moltiplicarsi delle alleanze di circostanza, sia tra partiti (ecologisti, centristi, socialisti) che tra personalità (Dominique de Villepin si è affiancato a Olivier Besancenot, col quale non ha assolutamente nulla da spartire, per il breve momento di un appello antigovernativo). Il bersaglio è uno solo: il capo dello stato. D’accordo, ma poi?

Lo stesso trittico – coalizione di convergenza, proposta politica incerta, delusione programmata – si ritrova anche nell’attualità americana. Un anno fa la sconfitta dei repubblicani, con la fine della presidenza di George W. Bush, ha dato luogo a un breve periodo di esaltazione. Ma a questo punto – e quantunque una parte dell’elettorato, pur senza aver beneficiato di alcun miglioramento, continui a riporre la propria fiducia in Obama (leggere l’inchiesta su Detroit alle pagg. 10 e 11) l’entusiasmo sembra esaurito. L’intensificarsi della guerra in Afghanistan getta nello sconforto i pacifisti; la riforma del sistema sanitario è al disotto di ogni ragionevole speranza, e lo stesso vale per la politica ambientale. Il giudizio più diffuso, che si riassume nelle parole «non bene, ma meglio di niente», crea un clima depresso; e la passione politica è migrata nel campo avverso.

In questa situazione di progressivo impantanamento si rafforza il peso delle lobby; e si è costretti a interrogarsi sul potere reale di cui può disporre il presidente degli Stati uniti. Ovviamente, Barack Obama non è Bush – così come Romano Prodi non era Silvio Berlusconi; ma questo non basta per sapere dove va il presidente Usa, né per invogliare a seguirlo. Di fatto, il paese soffre: il tasso di disoccupazione è in forte crescita e le case pignorate dai creditori si estendono a interi quartieri. Il presidente non perde occasione per parlare, spiegarsi, cercare di convincere.

I suoi discorsi si susseguono, e sono spesso eloquenti. Ma cosa ne resta? Al Cairo ha condannato le colonie israeliane, ma poi si è rassegnato ai nuovi insediamenti. Dopo aver promesso una riforma ambiziosa del sistema sanitario, si dice soddisfatto di un progetto edulcorato dai parlamentari. Un giorno annuncia ai cadetti di West Point l’invio di nuovi rinforzi in Afghanistan; e poco dopo è insignito del Premio Nobel per la pace.

Il suo è un esercizio che rischia di diventare schizofrenico. La cacofonia delle situazioni sembra trovare rimedio in un nuovo fiume di parole, in cui ogni enunciazione è controbilanciata da un’altra che sembra andare nel senso opposto. Alla fine, per lo più tutto si riassume in un ritornello: «I miei amici progressisti proclamano una cosa; i miei amici repubblicani ne sostengono un’altra. I primi vogliono troppo, i secondi non concedono abbastanza. Io scelgo la via di mezzo». Obama ha dunque esortato i cadetti di West Point a «mostrare controllo nell’uso della forza armata»; e ha invitato i giurati di Oslo a misurare «la necessità della forza a fronte dell’imperfezione dell’uomo e dei limiti della ragione». Gli stessi giurati sono stati poi chiamati a meditare sull’esempio del presidente Richard Nixon, che nel 1972, nonostante «gli orrori della rivoluzione culturale», aveva accettato di incontrare Mao Tse Tung a Pechino. E quell’incontro non era stato facile all’allora capo di stato repubblicano, notoriamente severo sulla questione dei diritti umani… Che però si è consolato poco dopo, ordinando il bombardamento delle maggiori città vietnamite e favorendo il colpo di stato del generale Augusto Pinochet. Ma di tutto questo Obama non fa parola ai giurati di Oslo. Impeccabile nel suo «centrismo», preferisce ricordare sia Martin Luther King che Ronald Reagan.

Eppure tutto era incominciato così bene. Nel novembre 2008 quasi due americani in età di votare su tre (e l’89,7% degli elettori registrati) hanno determinato l’esito del voto presidenziale, portando alla Casa bianca un candidato atipico, il cui percorso faceva presagire la portata del cambiamento a venire: «Il mio pedigree non è quello abituale; non ho fatto carriera nei corridoi di Washington». È grazie a questo che ha potuto mobilitare i giovani, i neri, gli ispanici, oltre a una frazione insperata (il 43%) dell’elettorato bianco, con una percentuale di voti superiore a quella raggiunta da Reagan nel 1980 (il 52,9% contro il 50,7%). Obama può richiamarsi a un «mandato», che peraltro nessuno gli contesta.

La sconfitta dei repubblicani è stata completa. I democratici dispongono di un’ampia maggioranza nelle due camere del Congresso; e la filosofia liberista, riassunta dal nuovo presidente con concisione e senso della pedagogia: «dare di più a chi più ha, nel presupposto che la loro prosperità rimbalzi a cascata sul resto della popolazione» è ridotta ormai a un mucchio di stracci. Tre mesi prima del voto, Obama aveva avvertito gli elettori: «Il maggior rischio per noi sarebbe quello di aspettarci un risultato diverso affidandoci alle stesse tecniche politiche, e con gli stessi attori. In momenti come questi, la storia ci insegna che il cambiamento non proviene da Washington, ma arriva a Washington, perché il popolo americano si è alzato in piedi a esigerlo.» Dovrebbe essere dunque la militanza sul territorio a scuotere le pesantezze conservatrici della capitale, residenza ufficiale di tutte le lobby del paese.

Ma dopo un anno non si vede più traccia di un movimento popolare, e i progetti di legge bloccati, edulcorati, amputati col ricorso «alle stesse tecniche, con gli stessi attori» non si contano più.
Quanto al «pedigree», quello dell’attuale presidente è pur sempre in netto contrasto con quelli dei suoi predecessori, e non solo per un motivo ben visibile e noto a tutti. Non è abituale avere alla Casa bianca un inquilino che in gioventù aveva rinunciato a guadagnare somme enormi facendo l’avvocato a New York per venire in aiuto agli abitanti dei quartieri poveri di Chicago.

Ma se si guarda a come Obama ha scelto i membri del suo gabinetto, la novità appare assai meno sconvolgente. Se è vero che Hilda Solis, ministro del lavoro, è vicina ai sindacati e ha promesso di rompere con le politiche precedenti, in materia di politica estera gli orientamenti diplomatici di Hillary Clinton non si differenziano molto da quelli passati; e il ministro della difesa, Robert Gates, è ereditato direttamente dall’amministrazione Bush. C’è poi il ministro delle finanze, Timothy Geithner, troppo legato al mondo della finanza per essere in grado di riformare Wall Street (ammesso che lo voglia). Il consigliere Lawrence Summers è stato l’architetto delle politiche di deregulation finanziaria che hanno portato il paese sull’orlo dell’apoplessia. Quanto al carattere «diversificato» della squadra, non è certo di ordine sociologico: ventidue dei trentacinque principali incarichi assegnati da Obama sono stati affidati a titolari di lauree delle università d’élite americane, o di college britannici d’alto bordo.

Fin dall’inizio del XX secolo i democratici sono particolarmente soggetti all’illusione tecnocratica della competenza, del pragmatismo, dell’eccellenza al governo («the best and the brightest»): l’esperto che impone la sua volontà a un mondo politico sospettato in permanenza di demagogia. Con un percorso come il suo, è paradossale che l’attuale presidente americano abbia fatto propria una siffatta filosofia (magari per non essere confuso con un militante afroamericano?) diffidente nei confronti di qualsiasi mobilitazione di massa, sempre tacciata di «populismo».

Obama ha teso la mano alla parte più ragionevole dei repubblicani, sperando di poterne conquistare l’accordo per superare i problemi del paese – ma invano. Ecco il suo recente commento a proposito di questo smacco: «Abbiamo dovuto prendere una serie di decisioni difficili senza ricevere alcun aiuto dal partito d’opposizione.
Dopo aver portato avanti una politica che ha condotto alla crisi, i repubblicani hanno purtroppo deciso di scaricarne sugli altri le conseguenze». Per quanto strana, questa formulazione è rivelatrice, dato che mette in ombra un fatto: dopo l’esito delle elezioni presidenziali del 2008 i repubblicani non hanno «deciso» di abbandonare ad altri le redini del paese; è stato il voto popolare a cacciarli dal governo.

E questo, non lo sopportano. Da qui la loro violenza. Nel giugno 1951 la Casa bianca era occupata da un democratico, Harry Truman, che si dedicò senza riserve alla lotta contro il comunismo e contro l’Unione sovietica, difendendo l’impero e i profitti della General Electric. Eppure, niente da fare: agli occhi di una parte importante dell’elettorato repubblicano è un traditore. Ecco come si esprimeva il senatore Joseph McCarthy: «Non si può comprendere nulla della situazione attuale se non ci si rende conto che ai più alti livelli dello stato c’è chi si concerta per trascinarci nel disastro. È una cospirazione di portata tale da ridurre in polvere tutto ciò che l’ha preceduta nella storia. Una cospirazione talmente infame che i suoi responsabili, una volta smascherati, meriteranno di essere maledetti in perpetuo da tutte le persone oneste».

Per quattro anni, questo senatore del Wisconsin ha terrorizzato non solo la totalità dei progressisti, artisti e sindacalisti che il paese poteva vantare, ma anche i principali responsabili dello stato, non esclusi i militari. Se oggi non siamo arrivati a questi estremi, il clima è però nuovamente inquinato dalla paranoia dei militanti di destra, aizzati dai talk-show radiofonici, dalle «informazioni» continue della Fox News, dagli editoriali del Wall Street Journal, dalle Chiese fondamentaliste, oltre che da ogni sorta di voci deliranti convogliate da Internet. Questo frastuono, qui come in altri paesi, invade le menti e le distoglie da qualunque altro pensiero.

Ecco come milioni di americani animati da passione politica si sono convinti di essere stati ingannati sullo stato civile del loro presidente, secondo loro ineleggibile in quanto nato all’estero; e giurano che la sua vittoria, pure conquistata con ben otto milioni e cinquecentomila voti di vantaggio, sia il risultato di una frode, di una «cospirazione» di portata tale …. Li sconvolge l’idea di avere alla guida del paese un intellettuale cosmopolita, un uomo che è vissuto per due anni in Indonesia frequentando una scuola musulmana, un ex militante di sinistra (1). E vivono nella ferrea convinzione che la riforma del sistema sanitario sia solo un preludio alla creazione di «tribunali della morte», preposti alla selezione dei malati da ammettere alle cure.

Questi battaglioni di esagitati rappresentano il nocciolo duro del partito repubblicano, e tengono in soggezione gli eletti con i quali Obama, da buon centrista, contava di poter negoziare la sua politica di rilancio, la riforma delle assicurazioni sanitarie e la regolamentazione della finanza.

Non ci è voluto molto per vedere fino a che punto queste speranze fossero vane. A meno di un mese dall’ingresso del nuovo presidente alla Casa bianca, neppure uno dei centosettantasette repubblicani della Camera dei rappresentanti ha appoggiato il suo piano di aumento della spesa pubblica. In novembre è stata la volta della riforma del sistema sanitario, per la quale un solo deputato dell’opposizione ha votato con la maggioranza democratica. Infine, in dicembre anche la legge di tutela dei consumatori contro le pratiche abusive degli istituti di credito è passata alla Camera dei rappresentanti senza neppure un voto repubblicano. Eppure, i testi presentati erano stati tutti emendati, nella speranza che il presidente potesse raccogliere i frutti del suo atteggiamento d’apertura…

Nel caso del sistema finanziario, nessuno ancora sa quali saranno i contenuti del testo di legge sul quale Obama apporrà la sua firma. In effetti, basterebbe l’opposizione di quaranta senatori su cento per far sì che la discussione si prolunghi all’infinito. E poiché i repubblicani sono appunto quaranta, anche un solo senatore dell’opposizione – o magari un democratico sleale – potrebbe trattare proprio sostegno a caro prezzo. Di fatto uno di questi ultimi, Joseph Liebermann, che nel 2008 aveva invitato a votare per John McCain, ha fatto ostruzionismo contro la creazione di un ente assicurativo pubblico (public option) per gli americani privi di copertura sanitaria. Guarda caso, le compagnie di assicurazioni private figurano tra i principali finanziatori del senatore Liebermann…
Il 28 settembre 2008, quando il piano accettato dal candidato Obama stanziava 700 miliardi di dollari di aiuti urgenti alle banche, il parlamentare di sinistra Dennis Kucinich si rivolse ai suoi colleghi chiedendo: «Siamo il Congresso degli Stati uniti o il consiglio d’amministrazione della Goldman Sachs?». La domanda è tuttora pertinente, tanto che di recente il presidente americano ha ritenuto di dover precisare: «Non ho fatto campagna per aiutare i grossi calibri di Wall Street».

Eppure, nel 2008 Goldman Sachs, Citigroup, JPMorgan, Ubs e Morgan Stanley figuravano nell’elenco dei venti principali finanziatori della sua campagna (2). Ecco come il giornalista William Greider riassume la situazione: «I democratici si trovano davanti a un dilemma: come servire l’interesse pubblico senza scontentare i banchieri che finanziano le loro carriere? (3)».
Gli Stati uniti sono riformabili? A quanto si sostiene, il sistema Usa sarebbe caratterizzato dall’«equilibrio dei poteri»; ma in realtà presenta una molteplicità di livelli ove a regnare è il potere del dollaro. Nel 2008, milioni di giovani si sono lanciati nell’arena politica convinti che con questo presidente nulla sarebbe più stato come prima. Ed ecco che anche lui si mette a mercanteggiare per un voto di cui non può fare a meno, a corteggiare un parlamentare che disprezza. Potrebbe agire diversamente?

La biografia di Obama ha fatto nascere un malinteso: in parte perché ha focalizzato tutta l’attenzione e tutte le aspettative sulla sua persona, ma anche perché già da tempo questo presidente degli Stati uniti non assomiglia più all’adolescente radicale descritto nelle sue Memorie, che assisteva a convegni socialisti o si impegnava ad Harlem per un’associazione vicina a Ralph Nader; e neppure al militante afro-americano che «per non passare da traditore selezionava con cura i suoi amici tra gli studenti neri più attivisti, gli stranieri, i chicanos, i docenti marxisti, le femministe e i poeti punk rock.

Fumavamo sigarette, portavamo giubbotti di pelle, e la notte, nei dormitori, discutevamo di neo-colonialismo, di Frantz Fanon, dell’etnocentrismo europeo e del patriarcato (4)». Agli occhi dei repubblicani, quel passato dimostra che l’uomo è pericoloso, estraneo alla cultura individualista del paese, disposto a compiacere i «nemici della libertà» e intenzionato, tanto per incominciare, a «socializzare il sistema sanitario americano». Dal canto loro, malgrado la delusione, molti militanti democratici continuano a credere nella volontà progressista del loro presidente, e sperano che ne dia prova non appena le circostanze glielo permetteranno.

Ora siamo a questo punto. L’ascesa dell’individualismo, la pigrizia degli intellettuali, la deriva isterica dei dibattiti, il ruolo deleterio dei media, e per di più il declino del marxismo hanno contribuito a diffondere sempre più un’illusione: quella descritta da Hofstadter nel 1963, per la quale «il nemico non è, come tutti noi, soggetto ai grandi meccanismi della storia, vittima del suo passato, dei suoi desideri e dei suoi limiti, ma è un agente libero, attivo e diabolico.

Un conduttore radiofonico ultraconservatore, Rush Limbaugh, replica accusando i sostenitori di Obama di scambiarlo per il Messia. Non si può dargli torto; solo che allora non si capisce perché passi il suo tempo a puntare il dito contro l’Anticristo. Il fondo, il «miracolo» del voto del novembre 2008 potrebbe essere quello di ricordarci che i miracoli non esistono. E che il destino degli Stati uniti, al pari di quello degli altri paesi, non va confuso con la personalità di un uomo, né con la volontà di un presidente.