Due mesi dopo, i fatti di Rosarno non hanno insegnato nulla

di Antonello Mangano
da www.terrelibere.org

Non ti diamo il visto, potresti diventare un clandestino. “Mi hanno detto che l’economia italiana non è florida e quindi potrei essere tentato di fermarmi negli USA oltre i sei mesi fissati dal visto”. Luca Damiani è un ciclista professionista di Morbegno, in provincia di Sondrio. Con la sua squadra, avrebbe dovuto partire per gli Stati Uniti per un lungo periodo di ritiro stagionale. Ma il consolato di Milano gli ha negato il visto di sei mesi. Perché potrebbe diventare un potenziale irregolare. “Nel corso del colloquio il console mi ha chiesto se in Italia sono proprietario di casa. Ma gli ho risposto che vivo ancora in famiglia, quando non sono impegnato in gare in Italia o all’estero. Ha voluto sapere se qui ho altri lavori stabili oltre a quello di sportivo, evidentemente ritenuto poco redditizio, spiegandomi che potrei essere tentato di fermarmi negli Usa oltre il periodo fissato dal visto semestrale” [1]. Non deve essere piacevole vedere applicate a sé stessi i criteri che di solito riserviamo agli stranieri. Eppure potrebbe accadere sempre più spesso.

Aria di neve: il Nord

Le leggi sull’immigrazione si caratterizzano come “diritto speciale”, nel senso che vengono adoperati da anni criteri diversi per italiani e stranieri. L’esempio più grave è quello del permesso di soggiorno revocato in caso di perdita del posto di lavoro. Se il criterio fosse applicato agli italiani, significherebbe togliere la carta d’identità a chi non ha il posto fisso. La proposta del “permesso a punti” prosegue su questa direzione e dimostra che i fatti di Rosarno non hanno insegnato nulla. Applicata agli italiani, ci renderebbe tutti “clandestini”. Quanti di noi conoscono perfettamente la Costituzione? Quanti sono perfettamente “integrati nel tessuto economico-sociale”? Chi sta ai margini lo fa per sua volontà o per una crisi sempre più difficile?

A questo si aggiungono i mille provvedimenti presi nel Centro Nord dalle amministrazioni leghiste e dai loro imitatori. Norme assurde, cattive, asfissianti, a tratti ridicole, come il divieto di elemosinare ad Assisi o i limiti di età per sedersi sulle panchine di diverse città. I migranti, resi ricattabili da una legislazione oppressiva e dalla difficoltà di trovare lavoro, che li trasforma in irregolari, fuggono ormai dal Nord e finiscono nelle varie “Rosarno” d’Italia. Il provvedimento più famoso è quello di Boccaglio, vicino Brescia: l’iniziativa anti-immigrati chiamata “White Christmas”. A Cantù, c’è un numero verde per segnalare la presenza di irregolari. Ad Adro, nel bresciano, un premio di 500 euro ai vigili urbani per ogni “clandestino” individuato. Ad Alassio, il divieto di trasporto di mercanzia in borsoni e sacchi di plastica. Stessa cosa a Firenze e Venezia. A Cittadella (Padova), schedatura di tutti gli stranieri. A San Martino dall’Argine, nel mantovano, il comune invita a denunciare la presenza di migranti senza documenti. Poi le ordinanze anti-elemosina: da Cesena a Savona, da Firenze a Roma e persino ad Assisi. Quelle anti-kebab (Lucca, Prato e tutta la Lombardia) e i provvedimenti contro le moschee (Alessandria, Casalpusterlengo, Como, Magenta, Piacenza, Varese).

Demenziali le ordinanze che riguardano le panchine: a Lecco diventano più piccole, a Sanremo è vietato sedersi per chi ha più di 12 e meno di 60 anni, a Vicenza per chi ne ha meno di 70, a Voghera in più di tre persone. A Cernobbio i vigili urbani entrano nelle case dei futuri sposi per accertare la pulizia di muri e pavimenti. A Milano si propone che gli autisti ATM siano solo italiani, e che ci siano vagoni del metro riservati. Per qualche mese, autobus con le grate ai finestrini sono stati usati per rinchiudere i migranti senza documenti [2]. Un freddo da Terzo Reich al Nord, la violenza senza misericordia della mafia al Sud. I migranti stanno sperimentando il peggio dell’Italia. E la nostra incapacità di guardarci allo specchio e trovare – subito – soluzioni efficaci. Prima che tanta gente ignorata, sfruttata, perseguitata e vilipesa si stanchi.

La tranquillità: il Sud

“Vogliamo che Rosarno torni alla tranquillità”, diceva un comunicato di Forza Nuova scritto all’indomani della rivolta degli africani. In 24 ore, dal 27 al 28 gennaio – dunque appena tre settimane dopo -, un omicidio a Melito Porto Salvo, nei pressi di Reggio Calabria: un allevatore ucciso a fucilate. Una bomba fa esplodere chiosco di gelati a Vibo Valentia. A Guardavalle, Catanzaro, è grave un operaio ferito alla testa da un’arma da fuoco. Arresti nel cosentino per traffico di droga tra Calabria e Albania. Minacce di morte al giornalista de “Il quotidiano” che si occupa della cronaca di Rosarno, ultimo di una serie di cinque cronisti “intimiditi” in pochi giorni.

Eccola, la tranquillità calabrese che gli africani avevano messo in discussione. Guai per chi si ribella o ricorda gli effetti della devastante presenza mafiosa. “Occorre misurarsi sui problemi con il linguaggio della verità nuda e cruda, perché così agisce il medico che vuole veramente guarire l’ammalato”, dice invece Giuseppe Lavorato, ex sindaco di Rosarno, ormai unica voce differente rispetto alle solite frasi fatte. “Rifuggano dalle parole consolatrici e soprattutto dalle parole e dai comportamenti che piacciono alla ‘ndrangheta. [Bisogna] combattere contro la mala pianta (come la definisce il procuratore Gratteri) che costituisce il nemico di tutte le persone oneste e laboriose e la cui estirpazione è la condizione imprescindibile per avviare la nostra terra verso nuovi orizzonti di progresso civile e sociale”.

Gettare fango

“Non abbiamo assistito a fenomeni di razzismo da parte dei cittadini. Ciò va gridato contro tutte le strumentalizzazioni dei media, e di quanti stanno dietro di loro, sempre pronti a fare dei fatti che succedono in Calabria un’occasione per gettare fango su di noi Calabresi e sulla nostra Regione”.I vescovi calabresi, che non sono soliti “gridare” contro le azioni criminali della ‘ndrangheta, si agitano – in un documento dello scorso 9 febbraio – contro i media che ‘gettano fango’, ipotizzando persino che qualcuno stia dietro di loro. La colpa di quanto accaduto sarebbe del governo e della crisi degli agrumi. Ancora una volta, Rosarno non ha insegnato nulla. Neanche ai media – nazionali e persino internazionali – che sembrano appassionati ad un autoreferenziale dibattito: i rosarnesi sono razzisti? E gli italiani? Sì, no. Intervistiamo i passanti, ascoltiamo gli esperti. E dimentichiamo i problemi strutturali (le leggi razziali, la disuguaglianza tra Nord e Sud del mondo, oppure la mafia rosarnese o il vero funzionamento dell’economia degli agrumi).

“In seguito ai recenti e gravi fatti di Rosarno…”, esordiscono tanti documenti di associazioni, partiti, sindacati. Troppi soggetti continuano a presentare progetti con l’etichetta “immigrazione”, però pensati esclusivamente per gli italiani. Percorsi di integrazione, workshop e formazione, sportelli e tutto ciò che la fantasia riesce a suggerire, ma che non sono utili a chi non ha neppure un documento ed è costretto a nascondersi nei meandri dell’Italia. “Ma è reato non denunciare un clandestino?”, chiese una studentessa di Enna nel corso di un incontro pubblico sui temi dell’immigrazione. Era solo qualche mese fa, nel pieno della campagna della Lega contro questa umanità colpevole di non avere in tasca un foglio di carta. La Rognetta, l’ex fabbrica nel centro di Rosarno dove dormivano in particolare i magrebini, ospiterà – nelle intenzioni- un’“area mercatale” e probabilmente un centro di aggregazione per gli stranieri. Il fatto che al momento non ce ne siano non sarà certo un ostacolo alla prosecuzione dell’iter progettuale. L’area dell’ex Opera Sila – altra area industriale lasciata all’abbandono – è ancora lì. Così come rimane ancora la scritta murale “We will be remembered”. L’Osservatorio Africalabria – in assoluta solitudine – ha proposto di trasformare quella fabbrica in un museo contro il razzismo, per non dimenticare.

Trafficanti di falsi contratti

Sei milioni di euro per qualche documento falso. Un ottimo rapporto fra incasso e sforzo profuso, che non poteva sfuggire a lungo alla criminalità organizzata. All’inizio di febbraio, la DDA di Reggio Calabria chiedeva la custodia cautelare in carcere per 67 persone. Metà italiani, metà indiani. Era l’operazione denominata “Leone”. Il reato ipotizzato quello di associazione per delinquere finalizzata a favorire l’immigrazione clandestina. I giornali titolarono: la ‘ndrangheta gestisce il traffico degli schiavi. In realtà, i migranti erano arrivati in maniera perfettamente regolare, con un visto in tasca e spesso comodamente in aereo.

Non c’erano né catene né viaggi avventurosi, e i mafiosi coinvolti – Iamonte di Melito Porto Salvo e Cordì di Locri – in India non c’erano mai stati. Il loro viaggio era molto breve, fino all’Ufficio provinciale del lavoro del capoluogo dove un funzionario compiacente metteva un timbro sui falsi contratti. Non si può parlare né di tratta (persone trafficate contro la loro volontà) né di contrabbando, perché i documenti utili allo spostamento erano formalmente validi. Si dovrebbe iniziare a parlare di “proibizionismo”, cioè delle ampie maglie che le leggi d’ingresso – cattive e surreali – lasciano ai profitti facili dei criminali.
Il sistema era molto semplice: imprenditori compiacenti producevano contratti di lavoro fittizi, grazie ai quali gli stranieri potevano richiedere il visto d’ingresso in Italia. La richiesta di pagamento variava dai 10.000 ai 18.000 euro per ogni migrante. Nel periodo preso in esame, dunque, si può stimare un incasso di oltre 6 milioni di euro. Le indagini erano state avviate nel 2007 a seguito della denuncia di un imprenditore agricolo della provincia di Reggio Calabria, costretto da affiliati alla cosca Iamonte a cedere alcune sue aziende, e a presentare documentazione di assunzione per legittimare l’ingresso in Italia di immigrati provenienti dall’India e dal Pakistan. Coinvolti, oltre le citate famiglie della ‘ndrangheta locale, anche imprenditori, tre dipendenti dell’ufficio provinciale del lavoro di Reggio Calabria e alcuni cittadini indiani che hanno reclutato nel loro Paese centinaia di migranti.

A campione e non troppo vicini

A poche settimane di distanza, lo Stato che aveva sgomberato in poche ore 1200 stranieri non riuscendo a garantirne l’incolumità, prova a fare la faccia feroce. Il 17 febbraio sono stati “scoperti” 23 lavoratori bulgari e romeni, impiegati in nero in otto aziende agricole della piana di Gioia Tauro. A carico dei datori di lavoro sono state elevate sanzioni amministrative per 91 mila euro. Altri 69 lavoratori stranieri in nero erano stati scoperti nel corso di ispezioni fatte a gennaio. E’ la solita politica dell’emergenza, per cui le azioni repressive sono avviate in seguito a fatti di cronaca “eclatanti”, a campione e per brevi periodi. Infatti in tutta la zona il lavoro nero è la norma, e non solo per gli stranieri. I centri commerciali, i negozi e tutte le piccole e grandi attività possono contare sul fatto che una visita degli organi ispettivi sarà altamente improbabile.

La raccolta è ormai alla fine. Circa 300 africani sono tornati, secondo l’Ansa, molti dei quali si sono adattati nei casolari di campagna rendendo difficile una stima esatta. Le istituzioni non sembrano preoccupate dal numero complessivo degli stranieri, ma dal loro concentramento e dunque dalla visibilità che possono assumere. “Non saranno più tollerate – dice il commissario prefettizio Bagnato – le situazioni di sovraffollamento e promiscuità che si erano create in passato. Se si dovessero verificare, scatteranno subito le ordinanze di sgombero” [3].

Note:
1 Milano, consolato Usa nega il visto a un ciclista: “Potenziale clandestino”, la Repubblica Milano, 6 febbraio 2010, http://milano.repubblica.it/dettaglio/articolo/1852236
2 Giuseppe Civati, Regione Straniera, Viaggio nell’ordinario razzismo padano, Edizioni Melampo, 2009. Gino Selva, Regione straniera, 10 gennaio 2010, http://ginoselva.blogspot.com/
3 http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2010/03/13/visualizza_new.html_1732993714.html