Quando di carcere si muore

di Roberto Laghi
da www.micromega.net

Di carcere si parla, ma nella maggior parte dei casi sono i numeri a essere al centro dell’attenzione, più che le storie dei singoli individui. Quando sono i nomi a trovare spazio nelle cronache, di solito è per episodi particolarmente drammatici, quando qualcuno muore e, quasi sempre grazie alla forza e al coraggio dei familiari, la sua storia riesce a uscire dal silenzio. Altrimenti si trova forse una breve, in qualche pagina interna, poco più. Come avviene per i suicidi in carcere, già 26 dall’inizio di quest’anno. I numeri non dicono tutto, ma qualche dato, però, può aiutare a mettere a fuoco il problema.

Al 30 aprile 2010, i detenuti delle carceri italiane erano 67.444 (Fonte: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), ovvero il 56% in più rispetto alla capienza delle strutture carcerarie (Fonte: Comunità di Sant’Egidio). Questa condizione fa sì che quasi nessun carcere italiano rispetti i criteri minimi indicati dall’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Che la situazione sia critica è sotto gli occhi di tutti, che la soluzione non possa essere esclusivamente la repressione e la detenzione in condizioni di forte disagio, non è però altrettanto chiaro. Anche perché la pena detentiva dovrebbe preparare un percorso di reinserimento per chi la sconta. E, intanto, di carcere si muore.

Lo raccontano dal 2000, con il dossier annuale “Morire di carcere”, quelli di Ristretti Orizzonti, rivista nata all’interno della Casa di Reclusione di Padova e dall’Istituto di Pena Femminile della Giudecca. E lo racconta Luca Cardinalini in “Impìccati. Storie di morte nelle prigioni italiane” (DeriveApprodi, 2010), libro che raccoglie le storie di otto persone, entrate vive in carcere ed uscite senza vita: Aldo Bianzino, Diana Blefari, Luigi Acquaviva, Sami Mbarka Ben Gargi, Stefano Frapporti, Camillo Valentini, Niki Aprile Gatti, Stefano Cucchi. Su queste storie e sulla situazione carceraria, l’autore ha risposto ad alcune domande.

Le vite di cui nel tuo libro racconti la fine sono molto diverse: età, estrazione sociale, provenienza. Non sono un campione, hanno nomi e cognomi, ma sono paradigmatiche di un modo di intendere e gestire la pena detentiva, fatto troppo spesso di mancanza di umanità e pieno di errori e disattenzioni. E’ così “facile” morire di carcere?

“In carcere si muore come fuori e per gli stessi motivi: suicidio, omicidio, overdose, malattia. Quello che non dovrebbe mai succedere è morire di carcere, per mano di chi ti ha in custodia o per negligenza di chi ti ha in cura. Le cifre non aiutano. Sapere che ogni anno circa 100 persone muoiono nelle carceri italiane, non rende l’idea. Intanto perché il numero è per difetto, molti vengono trasportati moribondi al pronto soccorso di un ospedale, lì muoiono e il numero resta in carico alla sanità pubblica e non all’istituzione penitenziaria. Certo la maggioranza sono suicidi, ma anche qui una riflessione va fatta. L’istinto a togliersi la vita è inversamente proporzionale alla speranza di libertà. A decidere per il gesto estremo – che nel triste linguaggio burocratico viene definito come “gesto anticonservativo” – non sono quasi mai gli ergastolani o detenuti con una lunga condanna da scontare, ma coloro che per età e posizione giudiziaria, potrebbero ragionevolmente sperare in una scarcerazione in tempi rapidi. Il numero dei suicidi tra i detenuti in attesa di giudizio è doppio rispetto a quello dei definitivi, il 60% si toglie la vita entro il primo anno di galera, il 20% entro la prima settimana. Quindi, spesso, non è nemmeno il carcere il sé a spingere verso la tragedia, ma il solo pensiero, l’impatto con una realtà sconosciuta e degradante. Oltre alla paura e alla vergogna, al rimorso per la libertà perduta e alle difficoltà di ritrovarsi a vivere in condizioni di precarietà e promiscuità mai sperimentate prima, c’è chi non riesce a mettere in atto delle vere e proprio strategie di sopravvivenza in una realtà che rimane oscura, con le sue regole, i suoi codici di comportamento, le sue gerarchie da rispettare”.

Leggendo il libro, a tratti, viene da pensare che la violenza (verso se stessi e verso gli altri) sia quasi l’unico linguaggio all’interno delle carceri. Quanto è così e quanto (e come) è possibile spezzare questa logica?

“La violenza non è l’unico linguaggio del carcere, ma è un linguaggio presente, direi quasi universale e comprensibile da tutti, stranieri compresi visto che sono ormai una percentuale significativa della popolazione carceraria. Oltre a quella fisica fatta di botte, che ci sono, ne esistono altre fatte di prevaricazione, soggezione, umiliazione che restano completamente nell’ombra. Restiamo alla violenza fisica: perfino al peggior criminale di guerra è garantito un processo e l’incolumità fisica, mi chiedo come sia possibile che in Italia, nel 2010, ci siano persone che vengano picchiati in una caserma o muoiano in carcere senza che parenti e avvocati sappiano nulla, senza che un direttore o un ministro si dimetta un minuto dopo”.

Come nasce “Impìccati”, quale intenzione c’è alla base del libro?

“Lo scopo del libro non era quello di fare delle controinchieste su queste morti né di puntare il dito contro nessuno. Piuttosto quello di raccontare nella maniera più dettagliata possibile una vicenda che al massimo – con qualche eccezione – era stata riassunta in una breve di cronaca. Quindi prendendo e raccontando gli sviluppi giudiziari, le perizie, le testimonianza, gli interrogatori, le inchieste e, quando ci sono state, le condanne e le relative motivazioni. Senza omettere nulla, senza indicare una strada al lettore che, alla fine, è libero di farsi un’idea. Per dire della consapevolezza di cosa sia il carcere, basta ricordare il caso di Luigi Acquaviva, ergastolano, braccio destro di Cutolo, morto impiccato nel carcere di Nuoro ma dopo essere stato picchiato in maniera feroce da alcune guardie penitenziarie, al punto – scrivono i giudici – “che non c’erano dieci centimetri quadrati del suo corpo privi di ecchimosi o escoriazioni”. Le condanne sono state confermate dalla Cassazione, che pure ha concesso le attenuanti agli agenti condannati con la seguente motivazione: “perché per anni hanno prestato servizio negli istituti penitenziari con tutte le difficoltà e i disagi collegati a tale status”. Un supplemento di clemenza per aver semplicemente svolto il proprio lavoro e per essere in qualche modo sopravvissuti al carcere. Affermazione forte, che sa di resa e che la dice lunga su cosa sia il carcere oggi”.

C’è una questione etica che sottolinei in più passaggi del libro: perché in carcere si può morire per non essere stati alimentati a forza, nonostante le gravissime condizioni, mentre all’esterno si scatenano battaglie per non lasciare questa scelta a persone in stato vegetativo?

“Il tunisino, spacciatore e violentatore, Sami Ben Gargi, protestando per una condanna che riteneva ingiusta sceglie di iniziare uno sciopero della fame e per 50 giorni va avanti. Nessuno si preoccupa di farlo desistere né lo alimenta forzatamente quando la situazione diventa disperata, tanto che due giorni dopo muore. Ho fatto il parallelo con la situazione di Eluana Englaro, pur nell’assoluta diversità delle situazioni. E mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse, lo dico senza alcuna malizia, perché davanti a una ragazza in coma da anni ci si mobilita, si fanno fiaccolate e decreti legge in nome del diritto alla vita mentre davanti alla decisione annunciata e costantemente perseguita di un extracomunitario, detenuto, colpevole e povero, tutto questo non vale. Anzi, come hanno detto medici e dirigenti del carcere di Pavia, “non potevamo andare contro la volontà del detenuto”. C’è qualcosa che non torna. Ma vale anche per il caso Cucchi. Il libro è stato chiuso subito dopo la presentazione della relazione da parte della commissione Marino, che ha individuato la causa del decesso non nelle botte ricevute da “uomini dello Stato”, ma nella disidratazione. Ora: se questa notizia fosse vera e confermata, a me sembra perfino più grave di un’ipotetica morte per lesioni. Non sono un esperto di medicina, ma se capisco il minimo indispensabile mi stanno dicendo che forse una flebo gli avrebbe salvato una vita. Morire disidratato può avvenire nel deserto del Sahara, ma non dopo cinque giorni di ricovero in ospedale, dove prima che detenuto sei un paziente malato che ha bisogno e che ha diritto di ricevere cure”.

Una situazione complessa, che pone questioni diverse in differenti ambiti. Qualche traccia per cercare di superare le emergenze e per tentare di costruire un sistema detentivo diverso viene citata nella postfazione (a cura di Laura Baccaro e Francesco Morelli, di Ristretti Orizzonti). Si tratta di “buone pratiche” individuate da detenuti e operatori penitenziari, che possono essere messe in atto, in particolare per prevenire i suicidi: dare attenzione alla persona, sostenendo i detenuti nella rielaborazione dei reati commessi e nella costruzione di una progettualità; aumentare le possibilità di lavoro e formazione, diminuendo anche le ore che le persone trascorrono in cella; fare più formazione al personale che opera all’interno delle carceri; migliorare la comunicazione interna (soprattutto su esami diagnostici, possibili trasferimenti) e favorire le relazioni e il mantenimento dei rapporti con la famiglia.