Carceri. Ancora una volta la «solita» emergenza

di Valter Vecellio
da www.confronti.et, giugno 2010

Nei 206 istituti penitenziari italiani, i detenuti sono ormai quasi 70mila. Su questo problema, Vecellio – direttore di Notizie radicali e vice-caporedattore del Tg2 – ha condotto di recente uno sciopero della fame assieme a Rita Bernardini ed altri esponenti radicali, da sempre attenti alla questione.

Dopo lo scatto in piedi, le indignazioni, le assicurazioni di rito, di nuovo tutti a sedere, a far salotto – come direbbe Lukacs – sull’orlo del precipizio? Si discute sulla «fermezza» da opporre alla «tolleranza», i sentimenti belluini «di pancia» in luogo di ragione e ragionevolezza, si esibisce una muscolarità figlia di ingannevoli anabolizzanti e si addita a disprezzo la «cultura del garantismo», equiparata a una sorta di paese di Bengodi, dove tutto sarebbe permesso, concesso, «perdonato»; mentre – giova ricordarlo – garantismo significa «soltanto» rispetto delle regole che ci si è dati, per tutti e per ciascuno.

Così, dal momento che sulla questione delle carceri tutti si sentono in dovere di sproloquiare, esibirsi in scempiaggini, conviene partire dai dati di fatto incontrovertibili. Le cifre, ufficiali, fornite dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria sono queste: nei 206 istituti penitenziari i detenuti sono 67.500; con un incremento mensile di 700 persone. Le persone che scontano pene inferiori ai 12 mesi sono poco più di 10.700. Quasi 5.700 sono di nazionalità italiana; poco meno di 800 stranieri comunitari; quasi 4.000 extracomunitari. L’attuale capienza delle nostre carceri è di 44.218; al Ministero della giustizia dicono che c’è una tollerabilità di 66.905. Come sia possibile che dove sta il 44 possa «tollerabilmente» entrare il 66 quasi 67, non è ben chiaro: anzi, lo è: letti a castello fino al quarto livello, che impediscono perfino di aprire le finestre, come a Poggioreale a Napoli; utilizzo di locali adibiti a palestre e a spazi ricreativi, come a Padova, Venezia, Bologna…

Una situazione talmente congestionata che ha indotto il procuratore di Venezia Vittorio Borraccetti a raccomandare che siano arrestate solo le persone che hanno commesso gravi reati; per gli altri non c’è posto. Il ministro della Giustizia un paio di volte la settimana da almeno un anno, assicura e promette che si stanno predisponendo 21.479 nuovi posti-carcere. Comunque: sommando i posti effettivi, di oggi, con quelli promessi si arriva a 65.700 circa; che sono sempre duemila posti circa in meno rispetto a quelli di cui c’è necessità ora. Il ministro Alfano poi annuncia che saranno assunti 2.000 nuovi agenti di polizia penitenziaria; che servono appena per colmare i vistosi vuoti attuali. Se dovessero effettivamente essere predisposti i 21.000 posti nuovi, si porrebbe il problema di altri nuovi agenti per quelle strutture che ora non ci sono. Una spirale di promesse in cui ci si perde.

A scarseggiare non sono solo gli agenti della polizia penitenziaria. Mancano psicologi, educatori, medici e operatori sanitari. L’assistenza sanitaria all’interno delle carceri ora è competenza del Servizio sanitario nazionale; questo comporta che tutti i problemi che affliggono il Ssn si riflettono inevitabilmente anche sul servizio all’interno degli istituti. In questa situazione è praticamente impossibile garantire la necessaria assistenza ai detenuti, molti dei quali con disturbi psichici. Per non parlare delle circa 25mila persone detenute per piccoli reati legati alla tossicodipendenza: semplicemente non dovrebbero stare in prigione ma in comunità terapeutiche e centri di disintossicazione.

Nuove carceri «modello Bertolaso»?

Alfano a gennaio ha annunciato un piano edilizio per costruire nuovi penitenziari. La previsione era di investire 1,4 miliardi di euro per 24 nuovi istituti, da realizzare con il sistema dell’emergenza, sotto la regia e la visione della Protezione civile di Guido Bertolaso. Nove carceri per le detenzioni brevi; e chissà cosa significa «brevi»: una settimana, un mese, un anno? E, se si è innocenti, anche un solo giorno è lunghissimo e intollerabile, oltreché ingiusto. Altre otto carceri, secondo i piani ministeriali, andrebbero destinate alle detenzioni di durata «normale», e anche qui non può che essere una «normalità» arbitraria; altre carceri poi dovrebbero essere costruite nelle grandi città, come Roma o Milano; infine si prevede di ampliare, ristrutturare, adeguare alcune carceri esistenti. Il governo ha firmato, a fine marzo, un’apposita ordinanza, si prevede uno stanziamento di parecchie centinaia di milioni di euro, e 700 milioni sono già spendibili.

Al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si vorrebbero attribuire pieni poteri, simili – per capirci – a quelli del capo della Protezione civile Guido Bertolaso. Per Bertolaso si giustificherebbero con la necessità di agire rapidamente perché la rapidità è il primo requisito dell’efficienza: anche quando si tratta delle visite del pontefice fuori dalle mura vaticane, considerate anche queste «grandi eventi». E si giustifica anche per Ionta: è necessario derogare alle normali regole, dice il Governo, perché le nuove carceri devono essere costruite rapidamente, e non c’è tempo da perdere in cavilli e burocrazie. E così si possono individuare le aree, derogare dalle norme urbanistiche, espropriare con velocità, costruire. Come può fare la Protezione civile quando si ritiene sia necessario. Efficienza, governo «del fare»… pazienza se poi il modello efficiente del governo del fare comporta nessun controllo, neppure di organi come la Corte dei Conti, costi che lievitano in misura esponenziale e quella allegra brigata che in gergo veniva chiamata «cricca», composta da imprenditori senza scrupoli, politici spregiudicati, uomini dell’apparato statale famelici e voraci, su cui indagano magistrati di un paio di procure.

Torniamo alle carceri da costruire. C’è tutta una procedura: occorre un nulla osta di segretezza, si chiama Nos, che viene rilasciato da un apposito ufficio della Presidenza del Consiglio. Alcune di queste carceri sono già in fase di realizzazione: a Sassari, Nuoro, Tempio Pausania. I lavori sono realizzati da ditte come Anemone, la Giafi di Valerio Carducci, le Opere Pubbliche di Piscicelli, che è quello che si faceva, se ricordate, quattro belle risate mentre in Abruzzo la terra tremava e povera gente moriva. Sono gli stessi imprenditori della cosiddetta «cricca» venuta fuori con la storia degli appalti per il G8 che doveva svolgersi alla Maddalena, e su cui indaga la magistratura. Si ride o si piange? E siamo all’intervento in discussione in Parlamento, che si poneva come obiettivo quello di decongestionare le carceri. Dal momento che in Italia le leggi spesso prendono il nome dei proponenti, credo sia opportuno d’ora in avanti battezzarlo ddl Maroni-Di Pietro, visto che la Lega di Bossi con il sostegno dell’Italia dei valori è riuscita a svuotare il ddl del suo contenuto originario, e tutti d’accordo, di fatto complici e conniventi: unica oppositrice, alla commissione giustizia di Montecitorio, la radicale Rita Bernardini.

Il ministro dell’Interno Maroni dice che è impensabile che chi ha condanne brevi per reati di grave allarme sociale possa godere direttamente dei domiciliari senza passare per il carcere; affermazione priva di senso: si parla di persone che hanno già scontato, in carcere, buona parte della loro condanna. Se la condanna è inferiore a un anno di carcere, il reato commesso non può essere di grave allarme sociale. Evidentemente nella sognata repubblica della Padania hanno abolito perfino il senso della lingua italiana. Si paventa il rischio di un ulteriore aggravamento della situazione dell’ordine pubblico, ed è una cosa illogica. Un pregiudicato cui mancano solo 12 mesi prima di essere libero, se posto agli arresti domiciliari starà ben attento a rigar dritto: sa bene che a non «sgarrare» ha tutto da guadagnare…; al contrario, se lo fa, tutti i benefici saltano e con aggravamenti di pena. Ad ogni modo, agitando strumentalmente questo «argomento», il ddl è stato stravolto; per inciso: si è escluso il cosiddetto «automatismo»: sarà il giudice a dover decidere, vagliando caso per caso. Giudici che già ora sono costretti a lavorare con tempi da Matusalemme, figuriamoci con il supplemento di lavoro che si annuncia… E comunque: già ora possono fare ricorso alle pene alternative, non c’era bisogno del ddl.

La vera amnistia è la prescrizione, ma è solo per ricchi

Non una parola, peraltro, sulle circa duecentomila prescrizioni che si consumano ogni anno: la vera «amnistia», silenziosa e di classe, di cui beneficia chi ha mezzi e denaro per pagarsi un buon avvocato capace di escogitare i modi e i «trucchi» per allungare i tempi del processo, procrastinarlo fino a quando, appunto, il reato decade. Per i poveri diavoli, la condanna e il carcere. Per chi può e ha, l’impunità.

Nella relazione tenuta in occasione della IV Assemblea nazionale di Amnesty international nell’aprile 1981 a Rimini, Norberto Bobbio osservava che non è necessario che le pene siano crudeli per costituire una deterrenza; è sufficiente che siano certe; e che la ragione principale per non commettere un reato non è tanto la severità della pena, quanto la certezza che in qualche modo si sarà puniti. Bobbio si collegava idealmente con quanto, trecento anni prima, aveva scritto Cesare Beccaria nel suo meritatamente celebre Dei delitti e delle pene. Beccaria anzi parla di «dolcezza della pena»: uno dei più gran freni dei delitti, annotava, «non è la crudeltà della pena, ma la sua infallibilità». Grandi lombardi, Beccaria, Verri, e poi Manzoni. Niente a che fare coi «lumbard» di oggi: i Bossi, i Maroni, i Calderoli e gli altri.

Dovrebbe esser naturale trovare al nostro fianco il Partito democratico, una concreta alleanza e intesa sulle cose da conquistare e assicurare. Al contrario, preda delle sue tentazioni giustizialiste, il Pd preferisce far concorrenza all’Italia dei valori da una parte e alla Lega dall’altra. È una politica suicida, masochista, oltre che sbagliata e miope, di nessun respiro.

Il segretario della Uil-Penitenziari, Eugenio Sarno, giustamente osservava che «le recenti polemiche tra membri del Governo contribuiscano ad allontanare i tempi per l’adozione di quelle soluzioni sempre più urgenti e necessarie. È un bruttissimo segnale che deprime ancora di più il personale: comincia a radicarsi, ormai, l’idea che al di là delle parole e degli annunci si è costretti ad operare in solitudine nel più completo abbandono e disinteresse». Denuncia grave, parole pesanti, che si possono solo condividere, e che fanno il paio con quelle di Rossana Dettori, segretaria generale della Federazione penitenziari della Cgil: «L’emergenza si risolve spendendo di più, ma anche spendendo meglio. Appare quantomeno discutibile il fatto che, mentre agli agenti di Polizia penitenziaria spesso non vengono pagate le numerose ore di lavoro straordinario espletate e in alcuni casi, per garantire le missioni relative ai servizi di traduzione dei detenuti, gli operatori anticipano di tasca propria il denaro, l’assessore alla Sanità della Regione Sicilia goda dell’utilizzo di un’autovettura del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, con tanto di costi a carico dell’amministrazione penitenziaria.

Altrettanto discutibile appare la spesa di 400mila euro prevista per la ristrutturazione di un’abitazione nel centro di Roma a disposizione del capo dipartimento, o quel milione di euro previsto per la realizzazione di un’aula magna con 150 posti a sedere nei locali del Dap». E ancora: «Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sembra non vivere alcun problema economico, gestendo le risorse in alcuni casi in maniera discutibile. Sarebbe opportuno, per tener fede alla nostra Costituzione e alla legge Gozzini, utilizzare i fondi della Cassa delle ammende per finanziare il servizio penitenziario, per sostenere i detenuti nella loro riabilitazione e sostenere le famiglie. Se al Dap si respira un’aria da paese di Bengodi, perché il ministro non pretende di utilizzare tali fondi per investire nelle carenze strutturali, nel ripristino di un sistema di sostegno a operatori e detenuti, nel mantenimento e nella ristrutturazione delle nostre anguste strutture penitenziarie?». Bella domanda. Chissà se avrà mai risposta.

Ci sarà pure un giudice a Berlino. Anzi: a Napoli

A mitigare, appena, questo deprimente contesto, un fatto che non ha avuto molta eco, e invece merita. Ricordate il mugnaio, fiducioso del fatto che a Berlino ci fosse un giudice che riconoscesse il suo buon diritto di fronte ai soprusi dell’imperatore Federico II di Prussia? Un giudice, almeno uno, c’è anche a Napoli. Sarà un caso, è una donna: la dottoressa Angelica Di Giovanni, presidente del Tribunale di sorveglianza. Ha disposto che «la direzione della Casa circondariale di Poggioreale si attivi con pronta sollecitudine per eliminare ogni possibile situazione di contrasto con l’articolo 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, informandone tempestivamente questo magistrato di sorveglianza».

La dottoressa Di Giovanni prende atto della drammatica situazione degli Istituti di pena della Corte di appello di Napoli e invia, alle rispettive Direzioni, l’ordine di disporre quanto necessario per eliminare l’evidente contrasto con le norme vigenti. In particolare dichiara che «risulta indiscutibilmente prioritaria la necessità di spazi di vita sufficienti, la possibilità di utilizzare la toilette in modo privato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce ed all’aria naturali, l’uso dell’acqua corrente per igiene personale, la qualità del riscaldamento ed il rispetto delle esigenze sanitarie di base». Un provvedimento analogo è stato inviato anche agli Ospedali psichiatrici giudiziari di Napoli ed Aversa.

Il Giudice nazionale, si legge nell’ordinanza, per consolidata giurisprudenza e ormai principio convenzionale acclarato, è tenuto a conformarsi alle pronunce della Corte europea, pur sempre nel rispetto degli orientamenti costituzionali; poi si rileva che attualmente il numero dei detenuti presenti nella Casa circondariale di Napoli «Poggioreale» è di 2.759 a fronte di una capienza di 1.400 unità, ormai quasi il doppio, per cui la situazione è tale da essere oggettivamente, di per sé, possibile fonte di violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; si stabilisce infine come esigenza indifferibile di garantire che le condizioni di detenzione siano compatibili con il rispetto della dignità umana e che le condizioni di esecuzione della pena siano tali da consentire che «la salute ed il benessere del prigioniero siano assicurati in modo adeguato». Così si dispone che la direzione della Casa circondariale di Poggioreale «si deve attivare con pronta sollecitudine per eliminare ogni possibile situazione di contrasto con l’art. 27 Costituzione e con l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, informandone tempestivamente questo magistrato di sorveglianza».

Sarebbe bello se anche altri magistrati di sorveglianza firmassero ordinanze come quella della dottoressa Di Giovanni. Perché Poggioreale è certamente un caso limite che più limite non si può; ma per tutte le carceri d’Italia quell’ordinanza andrebbe a pennello.