La “primavera araba”, Israele e l’Europa

Andrea Amato, Presidente dell’IMED- Istituto per il Mediterraneo

L’Unione Europea non riesce ancora a esprimere una linea strategica adeguata alla portata della “rottura” storica che sta provocando la “primavera araba”. E questo, non solo nei confronti dei paesi liberati o in via di liberazione, ma anche verso quelli non ancora investiti dai sommovimenti popolari. Tra i paesi verso cui è necessario riorientare in anticipo la posizione europea, l’UE farebbe bene a includere Israele.

Finora si è parlato solo di come la “primavera araba” potrà ripercuotersi sul conflitto israelo-palestinese e sulle future relazioni tra i paesi arabi e Israele. Non ci si è ancora azzardati a includere Israele tra i paesi in cui l’effetto domino potrebbe arrivare a scuotere l’assetto interno del paese. Eppure anche in Israele la democrazia e i diritti umani sono a rischio.

Un esempio, tra i tanti che si potrebbero citare a sostegno di questa affermazione, è quanto accaduto ad Ameer Makhoul, cittadino israeliano arabo, che il 30 gennaio 2011 il Tribunale di Haifa ha condannato a nove anni di carcere, con l’accusa di spionaggio e contatti con Hesbollah. Ameer Makhool è il Direttore di Ittijah, la rete delle organizzazioni della società civile impegnate nella lotta contro le discriminazioni che colpiscono i cittadini arabi d’Israele. Discriminazioni nell’accesso ai servizi sociali, alla scuola, alla casa, al lavoro, alle attività commerciali e imprenditoriali. Fino a odiose misure che calpestano i diritti umani, come quelle che impediscono il ricongiungimento familiare delle coppie “miste”, tra cittadini d’Israele e palestinesi dei Territori Occupati.

Chi volesse documentarsi, anche solo attraverso internet, sulla vicenda di Amir Makhoul scoprirebbe una storia di violazioni di diritti umani: dalla negazione dei diritti elementari di difesa dell’imputato fino all’impiego della tortura. Questo caso peraltro rende evidente un altro inquietante problema: la mancanza di stato di diritto in Israele. Non solo nel senso classico della separazione dei poteri, né soltanto in quello dell’arbitrarietà dei poteri esecutivo e giudiziario nei confronti delle leggi vigenti (la pratica dell’illegalità), ma soprattutto nella produzione di leggi e norme esse stesse intrinsecamente illegali perché non ispirate ai fondamentali principi di proporzionalità, ragionevolezza (non arbitrarietà) e imparzialità (non discriminazione). Che si faccia da tempo ricorso a questo tipo di norme nei Territori Occupati e soprattutto a Gerusalemme Est è cosa risaputa. Le demolizioni forzose delle abitazioni, le confische, la cacciata di migliaia di palestinesi da interi quartieri di Gerusalemme Est, sono supportate da leggi e norme che hanno il marchio dell'”illegalità”.

Meno nota è la situazione di mancanza di stato di diritto che Israele impone ai suoi stessi cittadini. Il caso di Ameer Makhool è illuminante. Il capo d’accusa che è alla base della sua condanna è di aver passato a un giordano, attivista della società civile e presunto agente di Hezbollah, informazioni sull’ubicazione di una base militare dello Shin Bet e degli uffici del Mossad (i due servizi segreti israeliani). Informazioni che, quand’anche fossero state veramente fornite, in Israele sono di dominio pubblico. Allora dov’è lo spionaggio? E’ qui che entra in gioco la norma “illegale”. Infatti, nel codice penale israeliano è stata inserita una norma secondo la quale si può essere imputati di spionaggio, anche se l’informazione passata all'”agente nemico” sia pubblicamente nota, e anche se nel fornire l’informazione non vi sia alcun intento di nuocere. Una norma che si presta a ogni genere di arbitrarietà, e che sembra fatta apposta per eliminare persone “fastidiose” dalla scena politica e civile.

Tutto ciò fa venire alla mente il famigerato Sabotage Act, la legge sudafricana in base alla quale nel 1963 Nelson Mandela fu condannato all’ergastolo. Una legge repressiva che, grazie alla sua formulazione generica, permise di considerare tradimento una serie di reati minori. E come in Sudafrica, una legge nata per reprimere la lotta contro la discriminazione non colpì ferocemente solo i militanti neri ma anche moltissimi bianchi, anche in Israele sta succedendo una cosa analoga. Dopo la guerra contro Gaza, coloro, arabi o ebrei, che condannano le violazioni dei diritti umani sono accusati dalla stampa filogovernativa e da parlamentari di essere contro lo Stato d’Israele. Questa campagna rischia di trasformarsi in un vero e proprio regime repressivo con l’approvazione alla Knesset di quattro disegni di legge liberticidi, mirati a spegnere le voci delle organizzazioni della società civile israeliana, arabe ed ebree, che si battono per i diritti umani.

È’ interessante (se così si può dire) notare come leggi simili siano presenti in molti stati arabi. Il paragone con il Sudafrica dell’appartheid non è azzardato. In questi ultimi anni, l’analogia è stata molto spesso evocata per la “bantuizzazione” in atto nei territori palestinesi. Ma ciò che fa saltare i nervi al potere israeliano e ai suoi portavoce nei media, è quando l’analogia riguarda la situazione interna a Israele. Quanti articoli sono stati scritti per dimostrare che il paragone con il Sudafrica è improprio perché in Israele gli arabi hanno il diritto di voto mentre in Sudafrica i neri non l’avevano! E poi, l’affermazione che continuiamo a sentire dappertutto, da Radio Radicale alle massime istituzioni dell’UE, che Israele è l’unica democrazia nel Sud del Mediterraneo! Non c’è solo ignoranza o faziosità in quest’affermazione, ma una sorta di pigrizia mentale nell’aver accettato, con la cultura politica dell’era Bush, la riduzione della democrazia a solo processo elettorale.

Se è vero invece, come i padri della politologia contemporanea ci hanno insegnato, che la democrazia esiste solo quando insieme all’elezione di rappresentanti ci siano anche libertà fondamentali e stato di diritto, dobbiamo ammettere che nella sponda sud del Mediterraneo non c’è nessun paese democratico. E questo vale anche per Israele. Non è sufficiente che la minoranza araba possa partecipare alle elezioni, quando essa è discriminata nei suoi più elementari diritti di cittadinanza. Non è sufficiente che Israele sia il solo paese nella regione ad avere istituzioni rappresentative simili a quelle dei paesi democratici occidentali, quando queste stesse istituzioni calpestano stato di diritto e libertà fondamentali, a discapito di tutti i cittadini, siano essi arabi o ebrei.

Sono molte le denunce d’intellettuali israeliani su un razzismo che non riguarda più i cittadini arabi, ma che ormai pervade le istituzioni e l’intera società israeliana. Ciononostante, l’opinione pubblica e le istituzioni europee non sembrano nemmeno accorgersi del ciclone che sta precipitando Israele in un baratro medioevale. Eppure, ciò che sta accadendo nei paesi arabi dovrebbe indurre l’UE a cambiare atteggiamento nei confronti di Israele. Non nel senso della rimessa in discussione del diritto all’esistenza e alla sicurezza, ma di pretendere da questo paese ciò che si richiede a tutti i Paesi Partner Mediterranei. L’UE in questi anni non ha dimostrato il rigore necessario a far rispettare gli Accordi di Associazione né i principi della Politica Europea di Vicinato.

E ciò soprattutto per quanto riguarda lo Statuto Avanzato, una sorta di upgrading nel partenariato, riconosciuto a quei paesi che più si siano approssimati agli standard europei nel campo dei principi democratici e che abbiano compiuto progressi importanti nella good governance e nelle riforme politiche. Lo Statuto Avanzato è molto ambito dalla maggioranza dei paesi del Vicinato, non tanto per i limitati benefici economici quanto per la legittimazione a livello internazionale e interno che ne traggono i Governi. Nell’area mediterranea lo Statuto Avanzato è stato riconosciuto a Israele, Marocco e Giordania; mentre negoziati erano in corso fino a qualche settimana fa con Tunisia ed Egitto.

In un autocritico intervento al Parlamento Europeo di qualche mese fa, il Commissario Stefan Füle ha ammesso che in questo campo l’UE ha “spesso privilegiato la forma piuttosto che la sostanza”. Se questo è vero per Marocco e Giordania, lo è altrettanto per Israele. Dopo quanto sta succedendo nel mondo arabo, ciò che fino a ieri era giudizio critico alle aperture dell’UE ai cosiddetti paesi arabi moderati da parte delle Organizzazioni dei Diritti Umani e delle represse opposizioni politiche nazionali, oggi diventa aperta condanna delle popolazioni di questi stessi paesi. Infatti, nonostante i tardivi pronunciamenti a favore dei cambiamenti in Tunisia ed Egitto, l’Europa è accusata di connivenza con le dittature, deposte e ancora al potere.

Cambiare atteggiamento verso Israele vuol dire che l’UE e i Governi degli Stati Membri incomincino a trattare questo paese come ci si augura che d’ora in poi vengano trattati tutti i paesi arabi. Dobbiamo a tutti i costi evitare che il giorno in cui i cittadini israeliani abbiano lo stesso soprassalto di dignità di quelli arabi (le ultime manifestazioni a Tel Aviv fanno sperare che questo giorno non sia così lontano) non debbano anch’essi accusarci per non essere intervenuti, aver taciuto e non aver voluto vedere, quando ancora qualcosa si poteva fare in aiuto ai cittadini e alla società civile. Quando si chiede all’Europa di intervenire con determinazione, spesso si pensa subito alle sanzioni commerciali. Non si deve cadere nella trappola di questa banalizzazione.

Non è al boicottaggio che l’UE deve ricorrere, salvo che non si tratti dei prodotti degli insediamenti nei Territori Occupati; ma lì è un problema di contrasto a un’illegalità nel commercio internazionale. L’UE deve pretendere il rispetto delle regole contenute nell’Accordo di Associazione con Israele. L’articolo 2 – presente peraltro in tutti gli Accordi con i Paesi Partner Mediterranei – stabilisce che “il rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali (…) costituisce un elemento essenziale” dell’Accordo stesso. Più volte in questi ultimi anni le organizzazioni della società civile e persino il Parlamento Europeo hanno invano chiesto la sospensione dell’Accordo di Associazione, per la violazione dell’articolo 2. D’altra parte, non è facile intervenire su Israele quando lo stesso articolo non è rispettato dalla maggioranza dei Paesi Partner. Ma l’impunità di cui ha finora goduto Israele si deve soprattutto a quella sorta di eccezione che, per motivi non solo storici, esso ha rappresentato.

E’ venuto il momento che Israele diventi, e soprattutto sia considerato, un paese normale, un paese come tutti gli altri paesi mediterranei. Poiché la “primavera araba” imporrà all’UE di cambiare registro, il primo atto che da parte europea dovrebbe essere compiuto nei confronti di Israele (come di tutti i paesi del Vicinato che violano i principi democratici) è quello di far sentire forte la riprovazione morale e politica dell’Europa. Lo dovrebbero fare le istituzioni europee, i governi e i parlamenti degli Stati Membri, i partiti e le organizzazioni della società civile, i media. Lo dovrebbero fare soprattutto tutti quelli che dicono di avere a cuore le sorti dello stato israeliano.

Il governo di Israele e quelli degli altri paesi mediterranei debbono percepire che il vento è cambiato, che non può più valere la regola del “male minore” rispetto al pericolo fondamentalista o alla messa in discussione della stabilità regionale. Per due ragioni. Primo, perché l’attualità politica internazionale si sta incaricando di dimostrare l’inconsistenza dei “rischi maggiori”. Secondo, perché anche nel Mediterraneo non ci può più essere nessuna considerazione di opportunità politica che valga di più della libertà e dei diritti dei cittadini.

Infine, condurre Israele alla normalità, trattarlo come un paese normale, può essere anche la precondizione per la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Quando la riprovazione del mondo, o comunque dell’Europa, non si esprimerà più solo per le sopraffazioni nei confronti dei palestinesi, ma per lo stravolgimento in atto della vita civile e democratica all’interno d’Israele, anche se nell’immediato si potranno manifestare ulteriori arroccamenti, essa non potrà non influire sul processo di democratizzazione del paese che prima o poi anche gli israeliani dovranno intraprendere. E allora potrebbe essere proprio la democratizzazione di Israele il fattore decisivo nel porre fine a un conflitto che dura da più di sessant’anni. Ecco perche è arrivata l’ora di finire con l’eccezione israeliana.