Acqua: bene comune o business?

Emanuele Fantini
www.aggiornamentisociali.it

Sono un milione e quattrocentomila le firme raccolte a supporto dei quesiti referendari
presentati dal comitato «Sì acqua pubblica»: il triplo di quelle formalmente necessarie,
cifra mai raggiunta nella storia del referendum,
nonostante la scarsa attenzione dimostrata dal sistema politico e
mediatico nazionale. Il dato conferma la rilevanza del tema dell’acqua nella
percezione dell’opinione pubblica, nonché la vitalità e la capacità di mobilitazione
a partire dal livello locale dei movimenti politici e sociali che ne chiedono
una gestione pubblica. Un fenomeno non solo italiano, come testimoniato
dal successo del referendum tenutosi di recente a Berlino, con cui il 98% dei
votanti si è espresso contro la privatizzazione della società di gestione dei servizi
idrici della città.

Il 12 gennaio scorso la Corte Costituzionale ha approvato due dei tre quesiti
referendari in materia di «modalità di affidamento e gestione dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica» e «determinazione della tariffa del servizio
idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito».
Dietro all’apparenza squisitamente tecnica dei quesiti, il corpo elettorale italiano
sarà chiamato a pronunciarsi su due visioni politicamente opposte in merito
alla natura dei servizi idrici.

Da un lato il modello di gestione consolidatosi nel nostro Paese,
tra numerose contraddizioni e varianti, a partire dalla riforma
della legge Galli (1994) fino alle ultime modifiche previste dal decreto Ronchi
(2009) 4, che considera la distribuzione dell’acqua un servizio industriale a
rilevanza economica, individuando negli strumenti del mercato — la gara, la
società per azioni e la tariffa — e nel partenariato tra pubblico e privato gli
strumenti più idonei per la sua gestione.

Dall’altro le istanze dei movimenti sociali
promotori del referendum, che declinano la questione dell’acqua in termini
di partecipazione e controllo democratico di un bene comune: una coalizione
variegata e plurale di associazioni ambientaliste, culturali, di cooperazione allo
sviluppo, di consumatori, organizzazioni sindacali, studentesche, amministratori
locali, comitati territoriali, gruppi di acquisto solidale, scout, diocesi, gravitanti
attorno al Forum italiano dei movimenti per l’acqua e al Coordinamento
nazionale degli enti locali per l’acqua bene comune e la gestione pubblica dei
servizi idrici .

La situazione attuale: un servizio a rilevanza economica

La Legge Galli ha ridisegnato la mappa dell’acqua in Italia in 92 ambiti
territoriali ottimali (ato), nella maggior parte dei casi coincidenti con le Province:
ad oggi, 69 di questi si sono dotati di un piano d’ambito e hanno affidato la
gestione delle loro acque complessivamente a 114 società, di cui 7 private, 22 a
capitale misto con partner selezionato tramite gara, 9 controllate da società quotate
in borsa e ben 58 interamente pubbliche.

Le ultime modifiche alla normativa introdotte dal presente Governo con il
decreto Ronchi, convertito in legge dal Parlamento nel novembre 2009, riprendono
l’art. 23 bis della legge n. 133 del 2008, che introduce per gli enti locali
l’obbligo di ricorrere alla gara per l’affidamento dei servizi pubblici locali a rilevanza
economica — tra cui quelli idrici — a favore di società di capitali,
«comunque costituite».

Tra queste, il decreto Ronchi inserisce la forma della
società mista, con scelta del socio privato attraverso procedure a evidenza pubblica
e con una partecipazione non inferiore al 40% del capitale. Mentre l’affidamento
diretto in house, ovvero a società a capitale pubblico controllate dagli
enti locali, diventa un’eccezione autorizzata solo nei casi di «situazioni eccezionali
che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e
geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace
e utile ricorso al mercato».

Come regola, le attuali gestioni in house dovranno
cessare alla data del 31 dicembre 2011, o in alternativa alla scadenza
prevista dal contratto di servizio, purché le amministrazioni cedano a nuovi soci
privati almeno il 40% del capitale entro la fine del 2011.

L’obbligo per decreto di coinvolgere i privati è stato interpretato da diversi
osservatori come una mossa disegnata per soddisfare gli appetiti delle
principali società di gestione dei servizi idrici quotate in borsa, nate da processi
di acquisizione e fusione tra imprese ex municipalizzate e pronte a spartirsi il
mercato aperto dal decreto Ronchi: acea di Roma; iren, frutto dall’alleanza tra
Torino, Genova, Parma, Piacenza e Reggio Emilia; a2a nata tra la fusione delle
aziende di Milano e Brescia; la bolognese hera.

Accanto agli enti locali, tra i
principali azionisti di queste società figurano banche e fondazioni bancarie,
gruppi privati come le multinazionali francesi Suez-Gas de France e Veolia Environnement,
fondi di investimento come il Fondo per le infrastrutture italiane-F2i,
la cui origine dei capitali è solo in parte conosciuta, e infine imprese di
costruzione quali Impregilo o il gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone .

Non a caso a far gola a queste società sembrano essere non tanto i profitti derivanti
dalla gestione dell’acqua — frenati dal tetto del 5% all’incremento delle tariffe
— quanto piuttosto la torta dei 64 miliardi di euro di investimenti programmati
nei prossimi trent’anni per ammodernare acquedotti, fogne e impianti di depurazione
di tutto il Paese.

Per contrastare il decreto Ronchi, più di cento consigli comunali e provinciali
hanno approvato delibere e ordini del giorno in cui dichiarano i servizi
idrici «privi di rilevanza economica», con l’obiettivo di sottrarli all’obbligo di
gara e di ingresso di capitali privati; diverse Regioni (Liguria, Marche, Piemonte,
Puglia, Toscana, Valle d’Aosta e la Provincia autonoma di Trento) ne hanno
impugnato di fronte alla Corte Costituzionale l’art. 15, considerandolo una lesione
dell’autonomia e dei poteri degli enti locali assegnati alle Regioni dal Titolo
V della Costituzione.

La Corte Costituzionale si è pronunciata in merito a dicembre 2010, riconoscendo
la costituzionalità del decreto Ronchi e vanificando di fatto le mosse
degli enti locali per una «ripubblicizzazione per via amministrativa». La Corte
ha infatti confermato che la disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica spetta allo Stato, in virtù del principio della «tutela della concorrenza»,
materia che l’art. 117 della Costituzione, così come riformato nel 2001,
affida alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

In nome di una nozione ambigua quale quella di «rilevanza economica»,
facendo prevalere il principio costituzionale della tutela della concorrenza (art.
117) su quello della prevalenza dell’utilità sociale e dei fini sociali sulla libertà
di iniziativa economica privata (artt. 41-43), la Corte ha così confermato l’obbligo
per gli enti locali di esternalizzare i servizi pubblici locali come la gestione
dell’acqua o lo smaltimento dei rifiuti, ovvero «quelle attività che rientrano tra i
fini stessi dell’ente e che — secondo quanto afferma lo stesso Legislatore (art.
112 del d.lgs. 267 del 2000) — sono «rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere
lo sviluppo economico e civile delle comunità locali». Sancendo così
per legge un fenomeno diffuso in tutto il mondo dalle logiche della globalizzazione
neoliberale: quello della privatizzazione intesa come nuova modalità di governo
e di rappresentazione del politico, attraverso il ricorso al mercato e a intermediari
privati, in cui i processi di delega, negoziazione, controllo e conflitti di
interesse contribuiscono a ridisegnare le relazioni, sempre più ambigue, tra
pubblico e privato.

La proposta del referendum: l’acqua come bene comune

In alternativa a questo modello, il referendum si propone di ricreare le
condizioni giuridiche e istituzionali per un governo pubblico dell’acqua.
L’iniziativa referendaria si situa nel solco delle mobilitazioni ispirate dall’«economia
morale dell’acqua bene comune» che negli ultimi dieci anni hanno
animato numerose vertenze nazionali e locali.

In particolare trova il suo humus
più squisitamente tecnico e giuridico — che assume ovviamente una notevole
carica politica — nei lavori della Commissione presieduta da Stefano Rodotà,
che da giugno 2007 a febbraio 2008 ha lavorato su incarico del Ministro della
Giustizia per redigere uno schema di disegno di legge delega per la riforma
delle norme del codice civile sui beni pubblici, risalenti al 1942. Il testo elaborato
dalla Commissione Rodotà — le cui proposte non hanno al momento
avuto seguito — suggeriva di razionalizzare e riordinare lo statuto dei beni pubblici,
sopprimendo alcune categorie quali quelle del «demanio» e del «patrimonio
indisponibile» e introducendone di nuove.

Innanzitutto, quella di «bene
comune» per qualificare «le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le
altre acque; l’aria; i parchi […]: si tratta di beni che per loro natura si sottraggono
alla logica della proprietà, sia pubblica che privata, ed esprimono utilità
funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo delle persone»
e dei quali pertanto la legge deve garantire la fruizione collettiva, diretta e da
parte di tutti, anche in favore delle generazioni future.

Nell’applicare questi principi al governo dell’acqua, gli estensori del referendum
— tra cui figurano diversi membri della Commissione Rodotà stessa
— si proponevano di «ripubblicizzare il servizio idrico integrato, ponendolo al
di fuori delle regole del mercato ed affidando ad un soggetto “realmente” pubblico
la gestione», attraverso la formulazione di tre quesiti per abrogare le
norme che prevedono l’obbligo di affidare tramite gara i servizi locali, la
forma societaria per i gestori del servizio idrico e la remunerazione dei
capitali investiti attraverso la tariffa. Questo obiettivo è stato in parte inficiato
dalla mancata approvazione del secondo quesito.

Le possibili conseguenze del referendum

In caso di successo, il referendum, pur non garantendo un ritorno automatico
alla gestione pubblica dell’acqua, contribuirà comunque a sparigliare le
carte su un tavolo già abbastanza confuso. A un quadro normativo oggetto di
continue revisioni negli ultimi anni, l’attuale Governo ha introdotto ulteriori
elementi di incertezza attraverso le ambiguità del decreto Ronchi e l’abolizione
degli ato, in assenza di indicazioni chiare in merito a chi rileverà le loro competenze.

Queste continue revisioni da un lato hanno avuto come conseguenza
quella di paralizzare gli investimenti: soltanto il 56% degli interventi originariamente
previsti dai piani d’ambito è stato finora realizzato. Dall’altro non sono
riuscite a individuare gli strumenti più adeguati per garantire una regolazione
del settore efficace e indipendente, così come i finanziamenti necessari
agli investimenti per adeguare la rete idrica italiana agli standard europei,
ponendo fine alla vergogna di un sistema che perde un terzo dell’acqua e lascia
a secco 8 milioni di cittadini per diversi periodi dell’anno.

Da un punto di vista dei contenuti, l’esito del referendum contribuirà a indicare
i principi a cui l’auspicabile riordino della normativa in materia di servizi
idrici dovrà essere ispirato. Le indicazioni del referendum saranno in particolare
determinanti per capire dove far pendere la bilancia nella sintesi necessaria
tra le esigenze da un lato della gestione efficace dei servizi idrici, realtà industriali
che richiedono competenze tecniche e conoscenze specialistiche, e dall’altro
del controllo e della partecipazione popolare, soprattutto in materia di
beni comuni e diritti fondamentali quali l’acqua, che rappresentano uno dei
fondamenti della democrazia.