Siamo gay, cioè normali

Tommaso Cerno
L’Espresso, 3 giugno 2011

Centinaia di migliaia di persone: impiegati, professionisti, studenti. Giovani e anziani. Che non gridano slogan ma non vogliono più vivere nascosti. E magari sognano di avere una famiglia, anche in questa Italia dell’omofobia

I froci si curano con il gas. Stava scritto lì, sul muro della Bocconi di Milano, dove lui passa tutti i giorni. Perché c’è un professore in quelle aule, a cui quello slogan nazista ha fatto male due volte. Come docente e come omosessuale. Si chiama Luca Visconti, ha 40 anni, è un milanese doc e insegna marketing nella più famosa università d’Italia. Vive con il suo compagno, Ruben Modigliani, 47 anni, giornalista.

Si sono incontrati cinque anni fa, innamorati, e adesso vorrebbero vedere riconosciuta la loro unione, poter dire a tutti: “Siamo una famiglia”. E invece per lo Stato non esistono. Anzi, giorno dopo giorno sentono che il clima di odio verso gli omosessuali cresce. E alimenta lo stereotipo del “diverso uguale pericolo”, in cui non si riconoscono. E così finisce che una coppia come loro – colti, benestanti, appassionati d’arte, musica e viaggi – per strada non si dà la mano. Non è paura, né vergogna. Il problema è più profondo: “Non hai voglia di trasformare ogni azione quotidiana in un gesto politico, perché è così che verrebbe percepito nell’Italia di oggi, anche se non lo vuole essere. E per questo motivo noi non ci diamo il braccio per strada, né una carezza in pubblico. Una cosa frustrante e sbagliata”, raccontano Luca e Ruben.

E’ forse la battaglia più lunga e difficile per gli omosessuali italiani. Per vincerla non basta sfilare al Gay Pride, né scendere in piazza. La bestia nera è la normalità, la lotta quotidiana per essere considerati “gente qualunque”, poter amare come tutti gli altri, progettare il proprio futuro come gli amici etero o come hanno fatto mamma e papà. Perché alle coppie gay e lesbiche questa strada è preclusa.

Allo Stato non importa dei loro diritti. Dei piccoli e grandi problemi quotidiani che affliggono migliaia di “famiglie di fatto”, non riconosciute dalla legge, e spesso discriminate: il vicino di casa gentile, il salumiere che fa gli sconti, il farmacista che chiude un occhio sulla ricetta, o il calciatore in squadra con tuo figlio, e ancora l’infermiere e il pensionato che da quarant’anni vive con un amico, ma non si può dire a voce alta. Sono l’esercito di gay che all’Europride di Roma, l’11 giugno, ci saranno anche se nessuno li noterà. Sono loro che stavolta hanno deciso di parlare. E lanciare un appello al Parlamento.

Un appello composto, senza slogan e senza bandiere. Forse non amano i costumi sgargianti, né imbracciano megafoni o ballano a torso nudo sui carri. Ma chiedono con lo stesso orgoglio diritti e rispetto per la loro famiglia: “Nella quotidianità siamo definiti fidanzati, partner, magari coppia, ma non siamo una famiglia. Non possiamo riconoscere la nostra unione, non abbiamo alcuna tutela giuridica, per l’assicurazione dobbiamo inventarci qualche escamotage. E ci pesa non avere una progettualità, anche legata ai figli”, spiegano Luca e Ruben. Intorno sentono un’Italia sempre più chiusa e razzista.

Ivano Cipollaro ha 31 anni e fa l’infermiere al San Paolo di Milano. Il suo compagno, Javier Sanchez Martinez, 29 anni, non ci voleva credere che in Italia un gesto d’affetto per strada potesse scatenare la rissa. Finché un pomeriggio, sotto il Duomo di Milano, a passeggio con i loro due cuccioli Dexter e Anita, si sono scambiati un bacio. “E un gruppetto di ragazzi ha cominciato a gridare: “Froci! Froci!”. Così ho pensato che a Javier poteva venire davvero voglia di tornarsene via”, racconta Ivano.

Eppure non vogliono scappare, ma battersi per cambiare le cose. Come Luca Giandomenico, 28 anni, romano. E’ uno dei milioni di giovani precari fra i call center e la cassa di qualche supermercato. Là dove lo mandano le agenzie interinali per tirare su qualche euro nell’Italia senza più lavoro. Vive con mamma e papà e la sua passione è il calcio. S’allena in un campetto all’Eur con la casacca nera e le scarpette chiodate come Totti. E’ gay pure lui. E proprio non capisce cosa c’entri la politica, né cosa c’è di strano in un cuore che batte per un ragazzo: “A me sembra normale. Io non direi mai: “Mamma, papà, sono etero!”. E così non dico nemmeno: “Sono gay”. Non si dice, ma nemmeno si nasconde e io non lo nascondo. Poi, quando gli altri lo vengono a sapere, le reazioni sono due: ci sono quelli normali, per cui non cambia niente; e quelli che non si fanno più sentire o che ti insultano”.

Così ha deciso di fare la sua piccola parte proprio con lo sport. Il suo contributo all’Europride sarà un torneo di calcetto. Ha messo in piedi una squadra di ragazzi gay, che sfiderà altre squadre romane. Si allenano quasi ogni sera e sono convinti di vincere: “Ovviamente il torneo è aperto a tutti, così io sono andato in giro a proporlo ai miei amici. Molti hanno detto che ci saranno, e non si sono fatti problemi. Alcuni non sapevano nulla di me, e così adesso lo sanno. Altri invece hanno dei pregiudizi, anche forti”, racconta Luca.

Gli stessi pregiudizi che si rispecchiano nel Parlamento. Quando, pochi giorni fa, un muro di gomma sollevato da Pdl, Lega e Udc ha affossato in pochi minuti la proposta di legge del deputato Pd, Paola Concia, contro l’omofobia. Che nella vita di ogni giorno significa essere cittadini di serie B.

Rocco, poi, non è ancora nato. E già viene discriminato. L’ecografia racconta che sarà un bel bambino, paffuto, sano e forte. Ma figlio di madre nota e pure di madre ignota, almeno per la legge italiana. Figlio cioè di Lorenza Tizzi, 39 anni, impiegata all’Automobil Club di Cremona, che è ricorsa alla fecondazione assistita a Barcellona, e della sua compagna Emiliana, 39 anni, commerciante. Vivono in un piccolo paese del cremonese, Viadana: le famiglie le appoggiano, gli amici le sostengono e i colleghi sono già in festa. Uno ha regalato pure la culla per il neonato in arrivo. Tutti parlano del bimbo, perfino dal parrucchiere. Ma per lo Stato non c’è nessuna famiglia Tizzi. E soprattutto non c’è Emiliana, che per l’anagrafe non ha legami con Lorenza, né con il bambino: “Ci sentiamo clandestine in un Paese che non ci vuole. Il problema più grave è la genitorialità. Per la legge Rocco è solo mio e questo ci preoccupa. Ci stanno aiutando degli amici giuristi, sto pensando di nominare Emiliana tutore. Così, se mi succedesse qualcosa, lei avrebbe un ruolo. Ma la nostra speranza è che arrivino delle soluzioni legislative”, spiega Lorena. Perché spesso sono discriminate due volte, come donne e come lesbiche.

Serena Donà, 35 anni, e la compagna Marta Facen, 25, vivono a Bologna e hanno deciso di combattere per i loro diritti: “E’ naturale farlo in un Paese come questo. Proprio perché non tutte le coppie vogliono sposarsi o vogliono figli, esattamente come per gli etero, poterlo fare deve essere un diritto, ognuno deve poter scegliere come vivere”. E invece da Montecitorio la politica tace. Tutto è lasciato al caso. Alla buona sorte e alla fortuna del singolo.

Per le istituzioni “gay” e “lesbica” non significano nulla, nemmeno quando due persone stanno insieme da una vita come Michele Amirante, 65 anni, e Gonzalo di 67. Si sono conosciuti nel ’76 a Madrid e hanno messo su casa insieme in Spagna, vivendo fianco a fianco fino alla pensione. Michele insegnava italiano agli stranieri, Gonzalo gestiva un piccolo negozio di abbigliamento in centro. Poi, nel 2004, l’idea di tornarsene in Italia, cercare un posticino tranquillo e vivere in santa pace un’onesta vecchiaia a Oriolo Romano, alle porte della capitale. Niente di più sbagliato: “In Spagna la situazione era molto diversa, non solo per le leggi a sostegno delle coppie gay, ma anche per il clima generale di tolleranza, che in Italia è un miraggio. Qui non c’è rispetto per gli altri, siamo un Paese di egoisti, ognuno si fa i fatti suoi anche quando questo discrimina gli altri”, racconta Michele.

Tre anni fa la decisione di tornare a Madrid per sposarsi. Un viaggio con parenti e amici, il “sì” davanti all’ufficiale dell’Ayuntamiento, il brindisi e il rientro: “Quando siamo arrivati in Italia siamo stati presi da un senso di frustrazione, perché ci siamo resi conto che il nostro matrimonio era scomparso nel nulla. Qui quel documento è carta straccia, non esiste, non vale. Gonzalo ed io, scesi a Fiumicino, eravamo di nuovo due perfetti estranei. E se lui sta male, io non posso andare in ospedale a prendermene cura, nemmeno dopo 35 anni di vita insieme. Mi chiedono: “Scusi, lei chi è?”. E io mi arrabbio”. A Oriolo hanno fatto una festicciola. E hanno spedito agli amici le partecipazioni. Lì, in un paese chiuso, i vicini di casa hanno brindato con loro. Altri, invece, non si sono fatti vedere. Compreso un vecchio compagno di scuola che, fino a quando uscivano per una pizza e per tenersi compagnia, c’era sempre. “Quando però s’è visto recapitare l’invito a nozze, è sparito nel nulla. Per noi è stato un brutto colpo. E ci ha fatto capire che davvero, in Italia, quello che siamo e abbiamo fatto, non ha valore. Tanto che stiamo pensando di tornare a Madrid”.

Anche perché nel resto d’Europa quei diritti civili che qui sembrano così rivoluzionari sono ormai la regola. Alessandro Bentivegna, 44 anni, scenografo romano, lo prova sulla sua pelle da quando il compagno Eduardo Barbaro, 32 anni, manager in una multinazionale, s’è trasferito a Dublino per lavoro. Da pendolare forzato, ha capito cosa significhi vivere in un Paese che riconosce l’uguaglianza fra gay ed etero: “Non è solo un fatto giuridico, è proprio il clima sociale che cambia. La gente ti rispetta davvero, ti aiuta, sei uno come gli altri”, spiega. Già. Mentre in Italia la Consulta diceva “no” ai matrimoni gay, il governo di destra irlandese varava i “civil partnership”. E così Edu e Alex, il 17 maggio, si sono registrati: “Mentre firmavamo ho detto all’impiegata “I think, I’m crying” e lei mi ha sorriso, poi s’è commossa ed è finita con baci, lacrime e congratulazioni di tutto l’ufficio.

Io e Edu ci siamo sentiti come i neri d’America la prima volta che hanno votato”, racconta Alessandro. Si sposeranno il 13 settembre e daranno un party all’irlandese: “Fiumi di birra come si usa qui, con parenti e amici. Una festa legale, dove davvero lo Stato sostiene il nostro amore e il nostro progetto di vita”, continua Eduardo. Poi torneranno in Italia e replicheranno i festeggiamenti a Roma. “Avremo voluto unirci qui, nella nostra città, dove siamo cresciuti, nonostante l’Italia non ci ami e il governo ci denigri con frasi che offendono prima di tutto i nostri genitori e armano la mano e la lingua degli omofobi, bollandoci come froci”, aggiungono.

Froci che per accendere un mutuo, per esempio, devono sperare in un favore della banca: “Per la legge noi due non siamo nulla, quindi la mia firma sul mutuo di Eduardo non ha senso. Non è possibile che tutto dipenda solo dall’educazione di un singolo”. Come non è possibile, per Valerio Lanzani, 23 anni, di Varese e Marco Colombo, 22 anni, di Milano, sentirsi ripetere che i diritti dei gay non sono una priorità della politica: “Mica campiamo d’aria, paghiamo le tasse e lavoriamo, come i nostri genitori. Perché la mia pensione, o il mutuo per la casa, vale meno di quello di un etero?”, sbotta Valerio: “E non bastasse vieni pure insultato, perché se non ti rispetta lo Stato figurati la gente qualunque.

Un giorno passeggiavamo mano nella mano e una Punto s’è fermata. Sono scesi due signori anziani: erano due gay e volevano farci i complimenti per il nostro coraggio. Un episodio piacevole, ma che mostra anche quanto retrograda sia l’Italia”. Loro due all’Europride di Roma ci saranno. Vestiti come quando vanno al lavoro o all’università, con gli occhiali e la camicia stirata. Perché un giorno all’anno non basta certo a sconfiggere l’omofobia: “Serve battersi durante gli altri 364 giorni. Ognuno nel suo piccolo spazio. Ognuno per conquistare un pezzetto della nostra libertà”.