Chiesa, in che modo convivi?

Marco Politi
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno

Dalle alte cattedre, i papi parlano di coppie e convivenza e il mondo vero si trova da un’altra parte. C’è una distanza siderale tra la Chiesa dottrinaria e la vita reale di uomini e donne, giovani e maturi, per come si svolge nel secolo XXI, tale da scoraggiare persino il dibattito.

In Croazia, ancora una volta Benedetto XVI – come prima di lui papa Wojtyla – ha condannato le convivenze associandole alla leggerezza incosciente di chi “riduce l’amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi a costruire legami duraturi di appartenenza reciproca e senza apertura alla vita”. Ha ragione Paola Concia a rispondere con una battuta: “Giusto, lasciamo che si sposino le coppie gay”.

Perché la famiglia che è descritta dai pulpiti non ha nessun contatto con quello che avviene nella società. Lasciamo stare gli atteggiamenti soggettivi e le ebbrezze passeggere. Il nodo di fondo è che è saltato il vecchio impianto della famiglia – come si è retta ancora fino alla II guerra mondiale – dei contadini, degli operai, dei borghesi grandi e piccoli che si sposavano tra i venti e i trent’anni. Che avevano di fronte a sé il binario di prospettive sostanzialmente stabili, consuetudinarie, senza grandi scosse culturali.

Questa famiglia non c’è più. Cos’è capace di dire la Chiesa-istituzione ai giovani uomini e alle giovani donne che riescono a crearsi una vita economicamente più o meno “sistemata” (e spesso meno che più) sul finire dei trent’anni se non intorno ai quaranta? Cosa dovrebbero fare nei due decenni di intervallo fra la pubertà e il matrimonio o la convivenza? “Peccare” solitaria-mente o in due, correndo poi al confessionale… attendere il principe azzurro e la regina dei sogni?

C’è un parlare astratto dai pulpiti che chiude gli occhi dinanzi alla realtà, niente affatto composta nella sua grande maggioranza da “peccatori” o edonisti, ma da uomini e donne che cercano la loro strada. E ritengono positivi i rapporti prematrimoniali, mettersi alla prova, sperimentare la vicinanza dei corpi e dei temperamenti perché non ha senso imbarcarsi in naufragi.

Il vecchio modello non si reggeva su anime più virtuose, ma sul mero fatto della subordinazione della donna, che una volta entrata nella struttura del matrimonio “lì stava”, mentre l’uomo proseguiva sentendosi garantita comunque una propria libertà. Non è più così. Il divorzio è stato assunto da centinaia di milioni di persone – del tutto pacate, equilibrate, non consumiste – come un dato di valore. Giustamente. Il disvalore è il fallimento di un legame, la fine di un progetto, il deteriorarsi di una vita insieme. Non la presa d’atto responsabile della fine. Sciogliere un rapporto quando non c’è più “comunione” e comunicazione è positivo, liberatorio, vivificante.

Si vive insieme in molti modi, oggi. Si formano coppie eterosessuali o gay fortemente solidali, che accettano anche la prospettiva che un domani le vie possano separarsi. Perché si è cresciuti con ritmi diversi, perché non si condivide più lo stesso progetto.

Ci si sposa, ci si separa, si convive, si vive da soli, ci si risposa, si vive in case separate. Il modello Mulino Bianco non esiste più. Da tempo. Non è il segno di un arbitrio sfrenato. È il prodotto di una società che rende tutti più mono-nucleari. Una società segnata fortemente anche dall’incertezza economica. Una società più mobile, più liquida.

Quando il cardinale Bagnasco descrive la gioventù italiana come “generazione inascoltata”, senza futuro – cogliendo l’angoscia derivante dalla perenne precarietà – bisogna poi capire (come fanno da decenni i parroci) che è tramontato il contesto in cui coppie speranzose si accostavano all’altare o andavano in municipio appena superati i vent’anni.

Vuol dire che la Chiesa non ha più spazio per trasmettere valori evangelici nei rapporti tra uomo e donna, tra persona e persona, tra genitori e figli? Niente affatto. Ha moltissimo da dire sul rispetto, la tenerezza , l’amore, il perdono, la cura, la pazienza, lo sforzo, la solidarietà, il sacrificio, la condivisione, la responsabilità. Tutto ciò che attiene al nocciolo di quel comandamento senza tempo che dice: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Perché, come spiegano gli esegeti, soltanto riconoscendo l’Altro simile a me, io e noi possiamo vivere in pace, in serenità.

E moltissimo, naturalmente, può venire da un messaggio religioso per la dimensione educativa, quel mondo complicato, affascinante, sempre da esplorare in cui i genitori fanno crescere i figli in modo che siano maturi e in-dipendenti.

Però per ritrovare l’ascolto delle nuove (e meno nuove) generazioni la Chiesa dovrebbe abbandonare l’ossessione di controllare il territorio della sessualità e dei rapporti interpersonali come è stato nei secoli passati. Quella stagione non tornerà più. I ragazzi che osannavano Wojtyla al giubileo di Tor Vergata , poi sotto le tende facevano felici all’amore.

Se poi l’uso delle parole papali deve servire per perpetuare il veto ad una legislazione sulle coppie di fatto, è ora che si dica basta a quei politici, che legittimamente vivono la propria vita e poi pretendono – tra una baciata di pila e l’altra – di ingabbiare di veti le esistenze altrui.

—————————————————

Ratzinger e i cristiani

Rosa Ana De Santis
www.altrenotizie.org

Lo scenario é quello di Zagabria, terra croata e cattolica, rifugio d’integralismo papalino. E l’occasione é buona per riaffermare, pur senza lanciare anatemi, anzi con un discorso sobrio ma non per questo meno deciso, la centralità della famiglia nel modello sociale cattolico. Famiglia tradizionale, ovviamente, ovvero siglata dal rito del matrimonio, che rifugge da tentazioni di sperimentazione di forme diverse d’unione; non solo quelle tra lo stesso sesso, ci mancherebbe, ma anche ogni convivenza, sia essa una scelta definitiva, sia anche solo una forma transitoria nella sperimentazione di una vita a due. Insomma, Ratzinger non si lascia sfuggire l’occasione di un raduno importante di cattolici per inoltrare, una volta di più, schemi e precetti che, al clero, appaiono dogmi da osservare come fossero precetti religiosi e non scelte politiche di Santa Romana Chiesa.

Del resto, il discorso di Zagabria ha fatto seguito a quanto già detto in ogni occasione e, ultimamente, ribadito in occasione dell’udienza al dicastero per la Nuova evangelizzazione. In entrambe le occasioni l Pontefice ha denunciato la marginalizzazione del cristianesimo dalla vita pubblica, ma soprattutto la perdita di attenzione e sensibilità per la fede e i suoi valori. Intere generazioni sono ormai estranee, secondo il Papa, a quella cultura intessuta sui valori cristiani che, a prescindere dai dogmi di fede, un tempo plasmava ogni atto di vita relazionale e pubblica. Il cristianesimo come una grande ragnatela ininterrotta dalla famiglia alla società, come cultura e come sistema di pensiero, come teorizzava Maritain.

Al dicastero da lui fondato, e oggi guidato da Monsignor Fisichella, Ratzinger affida questa denuncia e l’invito ad una nuova massiccia evangelizzazione. A margine di questa confessione c’è la voglia da parte di molti di appartenere alla Chiesa, senza alcuna coerenza con i dettami della fede, come se essere fedeli fosse la stessa cosa che avere in tasca una tessera di partito o indossare una maglia di calcio.

Un’osservazione che mette in luce sia la miseria degli ultimi tempi con cui la politica ha cercato di avocare alla propria causa campagne sui valori in un clima moralmente scomposto e a tratti imbarazzante, sia la strabordante depravazione autoprodotta che la Chiesa non riesce più a contenere nemmeno ricorrendo all’orrore storico dell’omertà.

Un clima ormai sdoganato di sospetto e diffidenza attraversa la Chiesa, anche in quei luoghi di aggregazione di importante impatto sociale ed educativo come le parrocchie e gli oratori. Per la prima volta non è il Vaticano, la Curia, il potere secolare della Chiesa ad essere lontano. Ma il prete diocesano qualunque e la sua comunità.

Il problema scottante non è l’estraneazione dalla liturgia e dai suoi riti, ma piuttosto il ritorno ad essi senza alcuna partecipazione autentica di fede. Sacramenti di massa vengono somministrati senza alcuna preparazione a cittadini che si dicono cattolici per un giorno, per una festa, per un rito più folcloristico e sociale, che non spirituale. La Chiesa, questo tra le righe del messaggio papale, sopravvive nelle sue pratiche e nelle sue manifestazioni estetiche, senza traccia di un’evangelizzazione profonda.

Non propone soluzioni il Papa teologo, ma invita alla credibilità e alla fede come una scelta viva e totalizzante. A quell’umanesimo integrale, per tornare proprio a Maritain che magistralmente aveva studiato la relazione tra fede e cultura religiosa, che costruisce l’asse portante del credente e di una società che a certi valori s’ispiri seriamente e non solo, per venire alla cronaca spicciola dell’attualità, in una competizione antimusulmana dai tratti xenofobi, che nulla ha a che vedere con la fraternità delle Sacre Scritture.

Non vogliamo diventare tutti cattolici, ovviamente. Ma è certamente vero che questo Paese aveva, e forse non ha più, un’ispirazione cristiana di vita, più pubblica che non privata. Di questo collante culturale sono rimaste le battaglie gridate per tenere il sondino dentro una ragazza, per criminalizzare una pillola abortiva, per impedire la nascita delle moschee. Esattamente come molto altro negli ultimi anni, anche la fede ha vissuto un progressivo impoverimento, concentrandosi sulle sfide di piazza e perdendo ogni traccia di introspezione e di argomentazione.

Quello che è rimasto è l’impalcatura dei sacramenti e la ritualità, senza le azioni. Che si risvegliano solo quando c’è una legge liberticida da avallare, un aborto da impedire, senza nemmeno il disturbo di troppa riflessione. Finché quel problema, quell’inciampo, quel divieto riguardi sempre la vita degli altri, e consenta per sé, all’occasione, una comoda eccezione.

La Chiesa della doppia via, del potere senza il sostegno della fede è diventata una caricatura di se stessa, una istituzione caratterizzata da una sproporzione di equilibri interni che la restituisce all’opinione pubblica come qualcosa di accessorio, che diventa utile solo in determinate operazioni di marketing, come qualcosa di terribilmente conforme agli usi e ai consumi. Tutto quello che il cristianesimo non era mai stato.