Rapporto 2011 sullo Stato Sociale

Sergio Ferrari
www.paneacqua.eu

La presentazione martedì sette giugno, del Rapporto sullo Stato Sociale 2011, elaborato da F.R. Rizzuti e del gruppo di lavoro da lui coordinato, ha rappresentato un evento che ad ogni occasione annuale solleva un interesse notevole per il merito delle questioni trattate, ma anche perché – una volta tanto occorre rilevarlo – è grazie all’impegno civile degli autori che nel nostro paese si può disporre di un documento di analisi e di studio su una questione centrale per ogni paese civile quale, appunto, la sua condizione e la sua vicenda sociale.

Le oltre quattrocento pagine dell’edizione di quest’anno pongono l’accento – senza nulla perdere peraltro in termini di completezza – su una questione molto delicata poiché “nella fase storica che stiamo attraversando in quest’avvio di secolo si evidenzia una vera e propria questione giovanile”.

Una questione connotata, come è noto, da forti condizioni negative derivanti in primo logo dal fatto che “la crisi globale ha smentito le illusioni e le promesse di una teoria economica … improntata alle logiche di mercato… ponendo con la loro ineludibile concreta rilevanza, la centralità dell’incertezza e delle inefficienze derivanti dalle scelte individuali e dalla loro interazione nell’ambito dei mercati lasciati a se stessi.”

Una condizione che proietta preoccupazioni per il futuro di queste generazioni anche perché questa carenza degli ammortizzatori sociali si intrecciano con delle peculiarità del nostro sistema economico il cui percorso ha fatto “ritenere appropriata l’espressione declino.”.

L’instabilità generata dalla globalizzazione dei mercati accompagnata dal marcato indebolimento delle politiche e dei ruoli istituzionali, il peggioramento nella distribuzione del reddito e il parallelo trasferimento delle responsabilità dalla dimensione pubblica a quella individuale, sono gli aspetti di un’evoluzione complessiva i cui effetti negativi sono particolarmente sentiti nella condizione giovanile.

L’Europa al momento non sembra in grado, né sul piano tecnico né sul piano politico, di correggere queste linee ma nel contempo sono sempre più ristretti i margini per politiche di progresso economico e sociale perseguite a livello di singoli paesi.

Questo quadro si pone anche su un piano politico generale e, come conclude Pizzuti “se la consapevolezza di queste circostanze guiderà le scelte degli adulti… la qualità del futuro che attende le attuali giovani generazioni di cittadini europei potrà avvantaggiarsene.” Certo c’è molto da camminare.

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“Rapporto sui diritti globali 2011″: la crisi ha distrutto il welfare e i diritti

Rosaria Amato
www.repubblica.it

No, non siamo la Grecia e neanche il Portogallo. Ma dalla crisi non siamo certo passati indenni. E non si tratta solo del Pil che arranca ancora faticosamente o della produzione industriale ben lontana dai livelli raggiunti qualche anno fa. Si tratta di una nuova concezione dello Stato, che lascia indietro i più deboli, le persone senza lavoro, che stentano a pagare l’affitto, sempre più penalizzate dai tagli del welfare. La crisi, insomma, ha segnato la fine dello “stato sociale europeo”. E’ la tesi conclusiva del “Rapporto sui diritti globali 2011”, presentato nella sede della Cgil e promosso, oltre che dal sindacato, da diverse associazioni italiane, tra le quali Arci, ActionAid, Antigone, Legambiente.

Gli Stati europei, si legge nel rapporto, “stanno cercando di liberarsi dagli oneri derivanti dalla protezione degli strati sociali più deboli e dal mantenimento di una serie di servizi pubblici a suo tempo considerati essenziali per promuovere lo sviluppo economico-sociale e oggi ritenuti un fardello”. Gli autori del volume citano Luciano Gallino: “Negli ultimi cinquant’anni il modello sociale europeo ha migliorato la qualità della vita di decine di milioni di persone e ha permesso loro di credere che il destino dei figli sarebbe stato migliore di quello dei genitori. Ora il modello sociale europeo è sotto attacco nientemeno che da parte dell’Europa stessa”.

La scure sul welfare: spesa tagliata del 78,7%. Un “passaggio epocale”, dunque. Che rischia di passare inosservato. E invece i segni per rendersene conto (e per cercare di fermare questa trasformazione che appare ineluttabile) ci sono tutti. I tagli abnormi sulla spesa sociale in Italia, per esempio. Il “Rapporto sui diritti globali” li elenca tutti, sottolineando come “dal 2008 al 2011 i dieci principali ambiti di investimento sociale hanno avuto tagli complessivi pari al 78,7%, passando da 2.527 milioni stanziati nel 2008 ai 538 milioni della legge di stabilità 2011”.

Il Fondo per le politiche sociali, per esempio, è passato dai 584 milioni del 2009 ai 435 del 2010 e arriverà nel 2013 ad appena 44 milioni. Il Fondo per la famiglia è passato dai 346,5 milioni del 2008 ai 52,5 milioni attuali (il taglio è del 71,3%). Il Fondo per l’inclusione sociale degli immigrati, finanziato nel 2007 con 100 milioni dal governo Prodi, è semplicemente sparito. Sparito anche il “piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia”, che aveva avuto 446 milioni nel triennio 2007-2209. Stessa fine per il “Fondo per la non autosufficienza”.

Si è rotta la coesione sociale. Sono tagli “giustificati” in qualche modo dalla crisi? Sorprendentemente, sono in molti a pensarla così, perché “il welfare non è sottoposto solo ai tagli, ma anche a una crisi di consenso”, rilevano i curatori del rapporto. Infatti “una quota importante di italiani non vuole che il welfare sia universalistico e che ne possano fruire soggetti ‘non meritevoli'”. E quindi si ritiene in qualche modo legittimo che dal welfare possano essere esclusi proprio coloro che ne avrebbero più bisogno, ma che meno possono contribuire a sostenerlo.

Poveri e “vulnerabili” in aumento. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma emergono anche dalle fredde cifre, a cominciare da quelle dell’Istat, che rileva la “povertà relativa” e quella “assoluta”. La povertà relativa oscilla tra il 10,2% e l’11,4% e negli ultimi anni è stabile. Ma da un lato peggiorano le condizioni dei poveri, la loro “deprivazione”, e dall’altro comunque si registra un aumento nel Mezzogiorno. Aumentano inoltre i “vulnerabili”, cioè i candidati a diventare i prossimi poveri. Tra loro ci sono i bambini: il 22% dei minorenni vive in condizioni di povertà relativa in Italia e 650.000 (il 5,2%) in condizioni di povertà assoluta.

Questo spesso perché i loro genitori sono cassintegrati: ha figli il 58,3% di chi usufruisce della Cig. Chi perde il lavoro nel 72% è già in una situazione difficile. Ma ci sono anche i “working poor”, definizione statistica riferita a chi lavora, ma guadagna troppo poco. L’incidenza della povertà nelle famiglie con persona di riferimento occupata è dell’8,9% con oscillazioni tra il 4% del Nord e il 19,8% del Sud. Gli operai stanno peggio (il 14,9% è working poor). E ci sono persino i lavoratori “poveri assoluti”, saliti al 3,6% dal 3,4% del 2008.

La casa sempre più un miraggio. L’Italia, si dice sempre, è il Paese dei proprietari di casa. Lo è infatti l’81,5% della popolazione. Ma quel 17,1% in affitto si trova spesso in grave difficoltà: l’incidenza dell’affitto sul reddito ha avuto una crescita costante e tra il 1991 e il 2009 l’incremento dei canoni di mercato in città è stato pari al 105%. Chi sta in affitto appartiene alle fasce meno abbienti, e quindi in media il canone “brucia” il 31,2% del reddito. Non stupisce che quindi siano aumentati gli sfratti (+18,6% nel 2008 rispetto al 2007): il 78,8% sono per morosità. Spesso, poi, si trova in difficoltà anche chi ha comprato la casa ma deve sostenere il rimborso di un mutuo oneroso: i 10.281 mutui sospesi all’inizio del 2010 a fine anno erano diventati 30.868.

Il Paese delle disuguaglianze. All’impoverimento dei poveri dovuto alla crisi e favorito dal “restringimento” del welfare si contrappone un miglioramento delle condizioni dei più abbienti: l’Italia è al sesto posto nella classifica Ocse della diseguaglianza sociale, ricorda il rapporto Cgil. Che elenca alcune “diseguaglianze tipo”: se il salario netto medio mensile è di 1.260 euro al mese, una lavoratrice guadagna il 12% in meno; un lavoratore di una piccola impresa (e in Italia sono la stragrande maggioranza) il 18,2% in meno; un lavoratore del Mezzogiorno il 20% in meno; un immigrato il 24,7% in meno; un lavoratore a tempo determinato il 26,2% in meno; un giovane lavoratore (15-34 anni) il 27% in meno e infine un lavoratore con contratto di collaborazione il 33,3% in meno.

La ricetta finale del Rapporto. Si può imprimere una svolta alla politica economica e sociale del Paese per “tenere sui diritti”, come conclude il rapporto? La proposta sembrerà a molti utopistica, e riprende quella della “Finanziaria Possibile” dell’associazione Sbilanciamoci: 40 miliardi di euro per abbattere la povertà, da ottenere da una riforma fiscale che tassi le rendite, diverse tasse di scopo a cominciare da quella sui SUV, tagli alle spese militari ma anche alle “grandi opere” inutili, e in genere da un riequilibrio e da una razionalizzazione della spesa pubblica. Per arrivare a un “basic income”, un reddito minimo garantito che garantisca anche la dignità, oltre che salvaguardare “un modello sociale che ambisce alla coesione”.